Ostentami ‘sta dentiera

Soundtrack99 PosseCattivi guagliuni

Capitolo I

“quello che non mi piace è l’ostentazione. Poi, se qualcuno li picchia, se la sono andata a cercare”

Capitolo II

“La classe è la più accogliente della scuola, è lei che tende ad isolarsi. Forse trova il programma delle medie troppo pesante e cerca un modo per sfuggire”.

Capitolo III

Ma mi avete cordialmente rotto i coglioni. Questo ributtante 75% di popolazione italiana che crede di pensare, invece rutta cazzate stereotipate e bidimensionali. Voi. Voi che non riuscite a capire che qui si parla di persone e non di foto da pagine di giornale. Voi che non riuscite a connettere il cervello sulla realtà e immaginare che ognuno di questi ragazzi picchiati, vilipesi, umiliati e maltrattati perché diversi da voi, sono ragazzi. Carne sangue lacrime sudore vita dolore gioia madri padri nonni sorelle fratelli cazzi amari sorrisi baci amore cadute risalite passeggiate parole frasi e anima.

Cazzo anima.

Cosa vi impedisce di capirlo? quale neurone vi ha smesso di funzionare ed in quale triste e avvilente occasione? Avete bisogno di una risonanza magnetica per controllare se avete del materiale funzionante tra le orecchie?

Non vi fa schifo la puzza delle vostre parole inutili e cartonate?

Non siete stanchi di ascoltarvi ripetere sempre le stesse tre stronzate?

Davvero credete siano la realtà?

Tu, piccola miserabile segretaria rincoglionita. Tu, coacervo di luoghi comuni e buonsenso da rete fognaria. Tu come i permetti di parlare di ostentazione e di reazione ovvia? che cazzo ne sai tu? e come ti permetti di negare la sostanza di quello che hai detto? tu, stronza rincoglionita che non sei altro, non hai fatto altro che dire che al mondo, qualcuno, che non ti tocca, non ti riguarda, non ti conosce, non incide sulla tua monodimensionale e squallida esistenza, può essere aggredito e malmenato e ucciso perché ama. Questo è il cazzo del senso del discorso che stai facendo. Decerebrata piattola.

E tu, coordinatrice del cazzo di una prima media di provincia, come cazzo ti sei permessa di insinuare che una ragazzina ha inventato le umiliazioni, gli sputi, gli insulti, l’esclusione e l’ostracismo, perché le sue difficoltà la mettono in situazione di inferiorità rispetto alla classe?

Tu, chiavica della categoria, piccoloborghese provinciale e platinata, chi cazzo ti credi di essere?

Siete due rami dello stesso albero di sterco e odio e paura e cattiveria fine a se stessa.

Non so se riuscirò mai a capire cosa mai vi spinge ad essere vivi nelle vostre inutili esistenze e a ritenere degne di nota le vostre opinioni costruite a botte di canale cinque e rete quattro.

Che cosa vi devo augurare? un figlio gay o disabile? e perché mai dovrei maledire due persone in questo modo?

Un gay e un disabile proprio non se li meritano due genitori della vostra puzzolente sostanza.

Aah.

Ne avevo bisogno.

‘Na botta di vita

SoundtrackTears For FearsShout
(perché è vintage e ci sta bene)

Ieri, botta di vita.

Con R&B, Donnie Darko, V*, invece di vedere la partita del Napoli (appuntamento sacrosanto come da cliché emigrantesco), serata lella al Nylon. Locale a Trastevere. Mondanità inusitata per me che sto diventando paesanella e culo pesante.

In questa casa ci sono 14 gradi. 14. Pompa di calore a palla. Per ottenere 18 gradi da metà casa in poi. Nella prima metà restano i 14. E nella prima metà c’è il divano imperiale nuovo sul quale vegeto gloriosamente. Ho una onorevole gatta centenaria a destra e un ragazzone peloso a strisce a sinistra. Dettagli. Con il loro perché.

Dunque serata mondana.

Mi guardo intorno. Lesbiche vintage  a badilate. Inizio a macinare atrocità da riportare sul blog. Penso sia la volta buona per riaprire la categoria “lesbica quotidiana” che langue da più di un anno. Il cervello rumoreggia osservando stili, atteggiamenti, frasi, approcci, movimenti, colori. Comincio ad immaginare feroci sarcasmi su ogni singola lesbica che vedo, da trasferire in Penelopebasta appena rientrata.

Categorie, standard, segni di riconoscimento, orrori stilistici. Tutto il campionario.

Ma qualcosa non va. Non va per niente. Qualcosa non scatta. Mi chiedo se poi sia così necessario. Mi chiedo a cosa mai possa servire. Sì, lo so che ridersi addosso fa bene. Ma in questo periodo ho anche altre cose in mente e nel sangue.

Ho in mente che sono stanca di essere trattata una merda in quanto omosentimentale.

Ho in mente le frasi che sento da vescovi, cardinali, papi, pidielli, leghisti e piddini.

Ho in mente gli insulti che mi accompagnano, costantemente, in questi ultimi due anni.

Il tono si è alzato sempre di più, ogni giorno un po’ di più, ogni settimana una tacca al volume.

E io mi sono rotta il cazzo. Mi sono rotta il cazzo di essere insultata da indegni rappresentanti di una religione misogina e maschilista che non sapendo come fare per non affondare definitivamente, ha rispolverato il mito del nemico da combattere. Che pare brutto prendersela per l’ennesima volta con gli ebrei e assolutamente sconsigliabile dare addosso ai mussulmani. Quindi cosa c’è di meglio dei ricchioni e delle lesbiche? Il perfetto agnello sacrificale per una categoria che non si fa specie di mescolare pedofilia e omosessualità e che nega umanità, comunione, affettività e dignità ad un pezzo di popolazione come fosse parte integrante e necessaria di una dottrina che predica perdono e comprensione. Preti e religiosi. Omosessuali repressi e repressivi. Omofobici e dannati. Perché ad odiar se stessi ci si danna e niente più.

Sono stanca di questo perché ad ogni rutto di questa improbabile papessa e dei suoi chihuahua con cappottino rosso, io devo fare un passo indietro, avere un po’ più paura, pararmi il culo nascondendomi un po’ di più.

E mi sono rotta il cazzo di questi politicanti miserabili, cafoni ed arroganti, ignoranti come capre e improduttivi come stalattiti di merda in un condotto fognario che ritengono di avere qualcosa da dire su di me, sul mio stile di vita, sui miei amori, sul sesso che faccio affibbiandomi un valore che non ho, un immagine che non ho, una responsabilità che, cazzo, non ho. E questi ragli arrivano da gente che paga trans e puttane, prende mazzette, importuna i bambini, scopa minorenni, mangia stereotipi e banalità da bar di paese, non parla italiano e non vede al di là del proprio miserabile cazzo.

Ho detto cazzo? Sì.

E sono stanca delle donne che lo fanno. Anche di loro non ne posso più. Di queste zoccole rifatte, di queste mezzecalze, servette che dopo essersi vendute la fica fino a consumarla, hanno finito per vendersi il cervello. A forfait.

Sono stanca di sentirmi dire di essere un paria, un virus, una malata, un danno per la società, un pericolo per i bambini, una fantasia pornografica, una peccatrice irredimibile, uno scherzo della natura, una sottospecie umana.

Una che si può picchiare per strada. Che si può insultare. Che si può disconoscere. Che si può sminuire. Che si può svilire. Che si può attaccare. Che si può negare.

Che non merito, che non ho il diritto, che non devo mostrarmi, che non devo affermare, che non devo chiedere.

In questi ultimi 5 anni abbiamo dovuto fare più passi indietro di quanti ne abbiamo fatti in avanti nei 10 anni precedenti.

Io non voglio indietreggiare. Io non voglio cadere in questa fottuta trappola da fine impero. Io non voglio essere il capro espiatorio di un paese che non sa salvarsi e non capisce con chi cazzo se la deve prendere per davvero.

Mentre io ho il privilegio di sapere perfettamente con chi prendermela. Che culo.

Quindi, pensando a tutto questo, ho deciso che quelle lesbiche vintage romane del Nylon io, le amo.

I nostri capelli corti e la nostra intolleranza alla tintura. La nostra mancanza di stile. Il nostro essere totalmente DE-fashion, i nostri stivali, i nostri pantaloni improbabili, la nostra allergia al trucco e al corretto accoppiamento di colori, la nostra grigérie, le nostre mascelle tirate e i sorrisi trattenuti, i nostri sguardi da guerrieri dell’anno mille.

Noi ci siamo. Così come siamo. E fanculo ai vostri fottuti fanatismi da disperati che annegano nella fanga che avete prodotto in questo decennio.

Buffoni.

Omofobia e Criptomerde

Sono ancora furiosamente e ciecamente incazzata. E mi spiace per la mia inutile capronaggine espressa nel post precedente. Non si può generalizzare o sminuire il vissuto altrui. Chiedo scusa.

Cercherò di spiegarmi e di trattenermi dal fare nomi cognomi e numeri di telefono. Cosa che sarebbe saggia e oltremodo valida.

E’ una storiaccia complessa e multipla.

Da premettere, tanto per capirci, che nel posto dove lavoro abbiamo due psicologi, gli unici maschi in un mondo quasi esclusivamente femminile (è arrivato un terapista maschio da poco, ma lui non conta perché ancora non lo conosco bene).

Condividere spazi e chiacchiere con loro vuol dire, ovviamente, dover fare orecchie da mercante alla quantità infinita e reiterata di battute omofobe, maschiliste e misogine. Una di quelle modalità di esprimersi sulle donne, sui gay e sul sesso che non ascoltavo più dalla fine della terza media. Ma loro son fatti così. Uno più dell’altro. E, pare, non esistono altri argomenti da intavolare con lui, dato che non è neanche specializzato in psicologia dell’età evolutiva.

Quindi con lui o si parla di sesso, donne a novanta gradi, ricchioni da operetta e mestruazioni assassine, o si parla di cose che crede di sapere solo lui (crede, appunto) raccattate, male, in giro su internet o su qualche pubblicazione porno che gli arriverà per posta, immagino.

Sono abituata e mi presto alla battuta (di lesbiche, ovviamente non si parla, ma non certo per rispetto o perché io sia lesbica ma, ovviamente solo perché argomento che contempla la considerazione dell’esistenza di una categoria non meritevole di riconoscimento: le donne in quanto esseri pensanti e non solo in quanto portatrici sane di fiche, tette e culi). Mi presto alla battuta perché penso non sia sano, sul posto di lavoro, applicarsi a tutte le strunzate che vengono dette. Non se ne uscirebbe.

Detto questo, parliamo di cose serie.

Noi terapiste, noi equipe dei centri di riabilitazione, noi che lavoriamo con bambini con difficoltà, ci troviamo spesso a seguirli fino all’adolescenza. Tanto più gravi sono, tanto più a lungo crescono con noi e noi con loro.

C’è un momento difficile che conosciamo bene e temiamo ragionevolmente, è il passaggio verso l’adolescenza. Uno di quei momenti delicati comunque e per chiunque; terrorizzanti quando coinvolge un ragazzino che, spesso senza colpa di nessuno, a volte con precise responsabilità esterne, non è in grado di stabilire in alcun modo i confini tra lecito e illecito, giusto e sbagliato, pericoloso e sicuro.

Sempre per noi che ci lavoriamo, esiste un altro enorme e angosciante totem: l’abuso sessuale. E’ una di quelle cose (cose? ma come cazzo mi esprimo?) che non sappiamo gestire, tollerare, capire, risolvere. Un orrore dal quale non li possiamo proteggere, un abominio che, in questo paese, non si riesce nemmeno a punire decentemente (vedi emendamento Gasparri ultimo scorso, per ora inserisco questo link, poi ne cerco uno più ufficiale).

Quando ti trovi davanti un preadolescente con difficoltà cognitive e di comportamento che subisce un abuso sessuale, neanche sai più come reagire. Sei stesa. E’ Il Male. E’ tutto quello che vorresti non esistesse. E’ il marcio della natura umana che alza la testa e ti ricorda che esiste.

Il ciclo di  reazione è, più o meno, sempre lo stesso. Almeno per me, che sono una testa calda di cazzo e un’emotiva di bassa lega. Negare, sminuire, cercare un colpevole da punire, sentire l’impotenza, realizzare la realtà, accettare l’impotenza.

Quello quell’è.

Nei prossimi giorni se ne verrà a capo e si capirà cosa fare, per ora è caos e confusione.

Ma quando uno PSICOLOGO, con una battuta composta di un gesto e 4 parole riesce, in un sol colpo, ad etichettare un bambino abusato, insultarlo, insultare una categoria di persone alla quale appartengo anche io che sono presente e dimostrare, candidamente, di essere un omofobo di merda, una criptochecca del cazzo, una blatta da marciapiede e un picchiatore di froci in pectore, io ho trovato un colpevole.

Ho trovato IL colpevole.

Improvvisamente vedo in lui, e in tutta la gente che parla e si esprime come lui, l’allegro ciucciacazzi che si nasconde dietro al suo fottuto orecchio destro. Non posso neanche augurargli di essere sodomizzato da qualcuno nell’androne di casa sua perché, so per esperienza, i ricchioni hanno gusti difficili e un forte senso estetico, quindi non gli succederà mai. Mi addolora profondamente il pensiero che un quarantenne laureato e abitante nella capitale d’Italia, debba soffrire tutta la vita struggendosi nel desiderio mai appagato di prenderlo nel culo almeno una volta nella vita. Mi addolora talmente tanto che sono costretta a rinunciare al privilegio di lavorare con lui. D’altra parte, uno psicologo che ragiona come un talebano afghano decorticato, merita certo di più che lavorare in un centro di riabilitazione per bambini con difficoltà e disturbi di vario genere e tipo. Penso che non voglio tediarlo con inutili riunioni d’equipe su 9enni dislessici con disturbo d’ansia. Immagino che possa aspirare, che so, a presiedere la commissione che depenalizzerà l’abuso sessuale su minori, che possa offrirsi consulente per una nuova legge sulla punibilità degli stuprati o, magari, collaborare con un comitato per l’eliminazione definitiva del ciclo mestruale femminile. Potrebbe anche entrare a far parte dell’OMS e lavorare per la reintroduzione dell’omosessualità nelle categorie di disturbo del comportamento. Vorrei anche si sentisse libero di impegnare il suo tempo ad organizzare una ronda notturna per massacrare allegramente di botte il primo frocio che incontra.

E porca troia, se lo dovesse rifare un’altra volta, lo denuncio e lo faccio sbianchettare dall’ordine degli psicologi.

Pezzo di mmerda, non mi guardare neanche in faccia la prossima volta che mi incontri, perché ti faccio male. E mi faccio male.

Post.it

Devo dire, e mi preme dirlo, che non riesco più a trasferire quello che vivo e penso su questo blog.

Vero anche che la mia vita è governata dalle emozioni e dai momenti che vivo con Biancaneve e che, di fatto, il resto mi sembra fluido e sempre risolvibile.

Al momento, e sottolineo al momento, mi sento forte abbastanza, lucida abbastanza, analitica abbastanza, coraggiosa abbastanza e strafottente abbastanza da affrontare la qualunque delle cose che capitano.

Avrei potuto, in questi giorni, scrivere post politici, religiosi e lavorativi in quantità, ma non mi va, non mi viene, non mi stanno nelle dita.

In compenso ho in mente una unica scena: Biancaneve che rovescia sulla cassettiera la foto del suo matrimonio. Le ho detto che ha fatto come lo psiconano con le foto della Lario sul comodino. Ma in verità mi sono emozionata come una bimba nuova.

Dormire con lei a casa sua, per tutto il resto c’è sticazzicard. 

Detto questo, mi scuso per la scarsezza di post e di parole scritte. Non chiudo Penelopebasta perché non si sa mai, potrei sempre voler ricominciare. E non lo chiudo anche perché Penelopebasta racconta due anni di vita di una persona qualunque in ogni genere di sfumature e nella sua vitale e ovvia progressione.

Magari a qualcuno serve. 

Baci e buona pasqua.

Napoli è in Medio Oriente

Soundtrack: mi sa che ci vuole. Mi spiace per la cattiva qualità, ma non se ne trovano di migliori.

Torno carica di energia rossa e bruciante. Energia rubata. Senza aver dovuto lasciare neanche un grammo di me. Ne sono fiera. E’ la mia vendetta personale.

In questo week end mi è sembrata Istanbul. Non lo so, non conosco la Turchia o la Tunisia o il Marocco. Ma io le ho sempre immaginate così come ho visto la mia città oggi.

Siamo oltre l’imbarbarimento.

Siamo al ritorno alle origini. Siamo a quelle immagini da Gran Tour, quelle raccontate da fancazzisti francesi ed inglesi due secoli fa.

La vera natura dei napoletani e della terra che occupano.

Qualcuno ha detto che i napoletani sono l’unico “popolo” europeo rimasto.

Non lo so.

E non l’ho vista né abbandonata né sciatta.

L’ho vista per quel che è.

Ho portato con me la pastiera. Ero a rota.

E il sapore della frittura all’italiana. Chi la conosce sa cosa intendo.

Scendo le scale del palazzo del fab e attraverso nuvole al sapore di genovese.

Attraverso strade dei quartieri e incontro donne in pantofole e vestaglia urlarsi da un vascio (=basso, unità abitativa essenziale posta al piano strada, N.d.T.) ad un altro. Era un po’ che non ne vedevo.

Roba vecchia agli angoli delle strade. Cantieri. Scavi. Bancarelle di cibo come nelle foto Alinari. Odori su odori.

Palazzi scalcinati. Scirocco caldo e sabbioso. Pioviggina fango di tanto in tanto. Polvere.

Caffè denso e saporito. “Zucchero io?”. Chiede il barista. Lo avevo dimenticato. Avevo anche dimenticato la necessità di specificare “in tazza fredda”. A Napoli le tazzine da caffè sono crateri di vulcano in eruzione.

Folla che grida. La partita. Silenzio e poi urla e insulti. Bestemmie mai. Quelle le ho sentite a Roma per la prima volta. A Napoli non si bestemmia neanche quando il giocatore del milan si butta a terra per finta.

I bar con i megaschermi. I poliziotti che si fermano a guardare la partita.

Volevo anche il pane e la mozzarella. Non avevo abbastanza soldi.

Mi accorgo di aver paura. Che mi rubino la macchina. Che mi rubino lo zaino. Che mi rubino il cellulare. Io non ho mai avuto paura a Napoli. Mai. Non capisco. Forse semplicemente non la conosco più.

Ho fatto le 4 e mezza di mattina, sabato, festeggiando i 40 della R*. Bella festa a sorpresa.

Incontro un Verme e, come un automa, malgrado siano 10 anni che non lo saluto, lo bacio pure. Che cazzo mi ha preso? Automatismi da afasica.

La vita scorre e le storie si incrociano. Napoli è piccola. Ci si ritrova e ci si rivive che lo si voglia o no.

 Prima di tornare a casa caffè e cornetto vicino al mare. Con V*, L* e I*.

Odore di frutti di mare. Folla. Macchine. Rumori. Camerieri sbrigativi. Abitudini consolidate.

Alla festa avevo tacchi 7. Una tortura ma ne valeva la pena. Ci ballo anche. All’una e mezza mi rimetto gli scarponcini anche se sotto al vestitino stanno di merda. La R* mi rovescia un vodka lemon nella scollatura. Santa Pazienza. Mi siedo su un trespolino e organizziamo un taglio e cucito in quattro.

Perché le lelle vestono sempre di nero? (noi siamo vestite di nero). Perché le lelle non sanno comprare pantaloni adeguati alla propria struttura fisica? (meno male che avevo il vestitino).

Ne arriva una che sembra un mafioso russo. Spolverino di lana con cappuccio. Coda di cavallo bassa e gel. Stivali a punta con rinforzi in acciaio. Pose plastiche da bodyguard di hollywood. Nera. Se la incontrassi di notte in un vicolo scuro, chiederei protezione al primo rumeno che passa. Non è vero, ma mi viene di pensarlo.

Donne. Tante donne. Poche solari. E’ la cosa che mi intristisce di più.

La R* è felice. Questa è una buona cosa.

V* ed io, di tanto in tanto, lanciamo un lamentoso “voglio la mia fidanzata”.

Racconto la storia mia e di Biancaneve almeno 8 volte.

Qualcuno mi consiglia di scriverci un libro perché è una storia molto romantica.

Mi viene da ridere. Ma sono fiera come un cavallo arabo.

Dimenticavo: all’andata sono finita sulla Roma – L’Aquila perché mi sono messa a fare una gara di velocità con una opel. Ho perso l’uscita giusta per continuare a correre.

Ma ho vinto io. A Tivoli, ma ho vinto io.

Mi si dice che pontifico. Ci rifletto un po’ su.

Stasera rivedo Biancaneve. Le brillano gli occhi per una bella cosa che ha fatto in questo week end.

Qualcuno mi ha detto “stai attenta”.

Ho risposto quello che dico di solito: “sticazzi”.

Buonanotte gentili sparuti lettori.

la più bella del mondo

Soundtrack: ho i miei buoni motivi

Mi vengono in mente i poeti romantici. Quasi stucchevoli. Quelli che sanno spiegare la pena e la gioia di ogni separazione.

Pensa come sto.

Il fab mi cazzea da lontano sulla mia mancanza di vita sociale. Stavolta non è colpa mia.

Ma anche se fosse, se proprio ci penso, sticazzi.

Un’ora mi rimette in paro con qualsiasi cosa.

Un’ora non mi basta.

Un’ora è un oggetto raro che mi capita tra le mani e mi fa tremare di sorpresa.

Un’ora è la disperazione dell’ora che manca.

Un’ora è l’ora che c’è.

Figurati se ne viene fuori un pomeriggio intero…

La mia donna ha pazienza. Ha la malinconia del lasciarsi. Ha un corpo da mangiare. Ha una voce che ipnotizza. Ha un’anima colorata. Ha i pensieri di una donna. La mia donna.

Detto questo, potrei raccontare dei miei deliri folli del 16 marzo. Un anno insieme. E riusciamo a non capirci per tutta la mattina. E Mr Hyde che sono io, la belva ringhiante che si rifiuta di ascoltare e leggere tra le righe. E la Muta di Sorrento che è lei, che le cose importanti se le tiene invece di scrivermi un cartello luminoso 6 metri per 3, in 4 lingue (compresa quella dei segni, non si sa mai io mi insordissi pure) per spiegare cosa le passa per la testa.

Un anno.

E sto ancora così.

E ancora mi stupisco.

Mi chiama il fab da tolosa, rispondo.

Mando il numero di cell di Biancaneve a mia sorella. non si può mai sapere.

Vado a napoli per il week end.

Vado dal fab a pasqua.

Vado affanculo per non starle addosso.

Sono una brava ragazza e seguo i consigli sensati.

Ho fatto gli auguri al pater per la festa del papà. Mi fa strano. Va bene così.

Non ho più argomenti da blog.

Perlomeno aggiorno gli amici.

E’ già qualcosa.

Baci a tutti.

 

Assenze

Soundtrack: Mum Green Grass Of Tunnel

Mood: malinconico.

Miiii, manco da quasi un mese.

Un record, direi.

Eppure avrei avuto cose da dire. Su molte cose. Anche politiche.

Sulla CGIL del mio settore che funziona come qualsiasi altro posto politicamente appetibile in Italia.

Sui favolosi che sono stati qui ed hanno conosciuto Biancaneve.

Su Biancaneve che riflette e si dimena nel suo sentire e nei consigli di buon senso.

Su me che perdo colpi ed ho bisogno di tre paia di occhiali diversi.

Sul pater che invecchia.

Sul mio lavoro che mi fa dannare.

Sulle mie serate in solitudine.

Sui miei week end in solitudine.

Sul mio perdermi le cose che mi fanno star bene.

Sull’idea che, dopo i quarant’anni, invece di disperarti di quello che non ti piace, sarebbe il caso di compiacersi di quello che si è raggiunto, per quanto schifo possa fare. Ma lo si è pur sempre ottenuto.

Sulle mie attese e sulla stanchezza di aspettare.

Sulla mia indecisione di andare a pasqua dal favoloso o restare a casa ad aspettare eventuali, possibili, vagamente potenziali 4 ore di contatto diretto con Biancaneve.

Sul mio sentirmi amante di nuovo, senza oggettivi elementi che mi definiscano tale.

Sul leggero senso di spossatezza primaverile, che non ha senso con questo freddo bestia.

Sulla mania per il patchouly dell’erbolario.

Sul mio non riuscire più a mediare il mio pensiero con le sensibilità altrui.

Su gatta Penelope centenaria che fatica a tenersi in piedi.

Su farmville che è una droga e mi ruba il tempo e le passioni.

Sulle lenti a contatto che dopo 35 anni si ribellano e nell’occhio non ci vogliono stare. E io mi trasformo in Willy il Coyote con gli occhi viola e iniettati di sangue dopo che è caduto dalla rupe. Questo lo considero un tradimento. Il Tradimento. Manco il cappello posso portare, che con gli occhiali il borsalino mi fa schifo.

Minchia, meglio se facevo passare un altro po’ di tempo.

 

Il ritorno di Woody

Soundtrack: Gabin – Lost and found

Si grattava il Becco, Woody. Poi il ciuffo al centro della testa. Poi di nuovo il becco.

Seduto su un sasso grigio fatto di das.

“Come cazzo si fa a stabilire quale è la voce del cuore e quale quella della testa?”

Era la domanda che prudeva.

Avessero una voce diversa, diverse tonalità, magari proprio parlassero due lingue diverse, venissero da due punti diversi nello spazio, sarebbe facile, le orecchie sarebbero in grado di stabilire la fonte.

“Ma a me sembrano la stessa voce”, si diceva senza smettere di grattarsi.

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Questo gli succede. Questo succede ad un uccello blu che poco altro sa fare che battere con il becco sui tronchi d’albero.

Aveva parecchie altre domande da farsi e, mentre cercava di fare ordine nei suoi pensieri anarchicamente disposti dietro al ciuffo blu, si accorse di essere sotto una coperta.

Come il sogno che aveva fatto la notte prima.

Nel sogno parlava a gente su un palcoscenico e altre cose di quelle tipicamente assurde e senza senso che succedono nei sogni, sempre e comunque da sotto una coperta di lana pesante e scura.

Woody credeva di poter sostenere qualsiasi cosa, di poter lubrificare ogni attrito, reggere ogni peso, ragionare su ogni sentimento, incassare ogni piccola sofferenza. Non si accorgeva mai che, da qualche parte, i liquidi cominciavano a ribollire, i fumi a crescere, le fiamme a scottare.

“E all’improvviso è troppo tardi” – si disse “troppo tardi per parlarne, troppo tardi per dirlo”.

“Dire cosa?”. Le domande ormai circolavano liberamente sotto la coperta come moschini in una sera estiva calda di scirocco.

“Dire che fa male”. Woody in fondo è solo un uccello eccentrico ed irreale, fa quello che sa fare e risponde al dolore come qualsiasi altro animale: attaccando e cercando di ferire.

“Forse Woody è cattivo”. Cattivo. Qualcuno aveva detto questa parola per la prima volta parlando di lui. “Sei cattivo”. Se la rigirava in testa questa parola. Con quell’aura un po’ infantile che si porta dentro, con quel senso così forte, preciso e definitivo. Senza appello. Senza possibilità di farlo dissolvere in una qualche sfumatura dialettica alternativa. Senza giustificazioni. Non si era mai sentito “cattivo”, non aveva mai subito l’onta di tale aggettivo in vita sua. Mai.

Si chiese che faccia aveva la sua cattiveria. Che forma e che colore. Ripescò ricordi e memorie di vendette più o meno sottili, più o meno velate, più o meno gratuite, più o meno necessarie.

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

Troppo neutra e matematica questa.

Occhio per occhio, dente per dente.

Sì, forse Woody ha questo comandamento scritto da qualche parte nell’anima. E la sua cattiveria ha la forma di un cane di quelli piccoletti, con le zampine miserabili legnetti pelosi e le orecchie dritte con le punte in avanti. Un cagnetto isterico e nevrastenico che lascia scattare la mandibola ogni volta che gli girano le palle. E sembra avere sempre buoni motivi per farsi girare le palle. Soprattutto quando qualcuno si spinge ad accarezzarlo.

Un’altra domanda che circolava sotto la coperta era: “Perché non riesci mai a fare altro che questo?”.

Woody sudava sotto la coperta. In altri momenti gli era sembrato tollerabile, in questo momento gli sembrava di impazzire. Ma non poteva tirarla via. Doveva aspettare qualcuno che lo facesse per lui. Era una questione di buona educazione. No, era una questione di sentimenti. Evidentemente qualcuno aveva bisogno che lui restasse lì sotto. E lui non voleva far del male, a questo qualcuno, tirandosi via la coperta da solo.

Quindi ha trovato un altro modo di far del male.

“Complimenti?”

Chiesero le domande in coro.

“In genere questa è una affermazione”, disse Woody, “mica si chiede il permesso per fare i complimenti”.

“Noi siamo delle domande, sappiamo fare solo delle domande?” domandarono le domande volanti.

“E’ una conversazione assurda”. Mormorò Woody grattandosi il collo.

“ma tu sei una tale testa di cazzo che non potevamo farne a meno?”.

No, non sono una testa di cazzo. E’ vero, non so fare altro che colpire, non so fare altro che incazzarmi perché non sono capace di dire quello che sento mentre lo sento, e non lo so fare quando riguarda me, le mie intolleranze, i miei limiti, i miei punti deboli. E lo so che sarebbe bastato dire che ci ho messo 30 anni per imparare a volare e stare sotto una coperta, adesso, mi mette parecchio a disagio, so che qualcuno mi avrebbe risposto di avere un altro po’ di pazienza e fiducia. E io l’avrei avuta se fossi riuscito a dirlo. Se fossi riuscito a spiegare che io sono questo: un uccello blu che frantuma il legno a beccate e se mi tollerate bene, altrimenti andatevene affanculo. E mi è costato. A volte costa ancora. Potevo dirlo mentre lo sentivo, con calma e sincerità.

Ma mi pareva ci fossero cose più importanti da fare, da risolvere, da sistemare, da vedere, da concludere, Credevo di poter aspettare. Credevo non mi avrebbe fatto male. Credevo che dirlo avrebbe svegliato la bestia e acceso uno di quegli incendi che per domarli ci vuole il canadair. Ed ho avuto paura che, magari, alla fine, mi sarei bruciato ‘ste cazze di piume blu.

“Non è questo il punto? e questa è una affermazione?” le domande domandarono, con l’aria di prenderlo pure per il culo.

No, non è questo il punto.

Sono un cartone animato con la tendenza alla drammatizzazione. Che si incarta mani e piedi appena le emozioni superano la soglia di sicurezza.

E per quanto la soglia di sicurezza io l’abbia ampiamente e gioiosamente superata, Biancaneve, non ho ancora capito se dentro di me c’è altro che questo, altro che cattiveria, altro che mascelle da serrare, altro che silenzio fino all’urlo, altro che una bestia che si sveglia.

Io sto qua.

 

 

Sant Valentin

Soundtrack: proprio niente.

A me San Valentino mi fa strano.

Non lo so perché.

Credo di non averlo mai festeggiato.

Non mi ricordo.

Non mi pare.

Ma ho pranzato ieri con Biancaneve. Con la candelina rossa accesa sul tavolo della cucina. Addirittura.

Non mi piace fare una cosa codificata.

Ma non mi piace neanche sapere quello che so.

Evabbè, c’amma fà? gelosia retroattiva panica.

E pure panico nello specifico.

Ma questa è complicata da spiegar.

Intanto oggi non mi va di fare un cazzo.

Per quanto vorrei vedererla.

Son in pijiamino a cazzeggiar su fb.

Che post oscuro e dissennato.

No no, adesso mi attivo. Voglio vederla. E le porto pure un regalo.

A modo mio.

Grazie Cigno!

Nientemeno mi hai fatto schizzare le visite manco la borsa di Milano sotto Craxi.

Anche se non ho capito come ci si arriva da facebook.

Grazie ancora.

Penelope

Sono linkata sulla pagina fb di for lei per lei. Da non credere. E, in qualche modo, si arriva a me dalla pagina di una del grande fratello. Noccipozzocredere.

Il curioso caso di Penelope Human

Soundtrack: Sì, lo so, è esagerato. Ma non mi viene in mente altro.

Dunque.

Parrucchiere e medici specialisti, io, ce li ho a Napoli. Sarò l’unica che scende al sud per fare le visite e tagliarsi i capelli? Non lo so, sticazzi.

Il parrucchiere è lo stesso da 35 anni. Sono la prima persona sulla quale ha usato la macchinetta lasciandomi una storica zella (=buco sul cranio, N.d.T.), mi ha fatto i capelli verdi e fucsia. Me li ha tagliati da lunghi a corti senza passare dal via innumerevoli volte. Mi ha fatto baliage per anni, colpi di sole, tinte platino, rossa menopausa. Insomma, si può dire che i miei capelli li chiama per nome a uno a uno.

Un mesetto fa mi ha chiesto come cazzo mi è successo che mi sono diminuiti i capelli bianchi. Ha voluto sapere anche il nome del mio shampoo. Me li tagliava e ripeteva “Gesù, ma tu li avevi tutti bianchi qua, cumm’e fatt (=come hai fatto, N.d.T.)?

Ho pensato fosse lo shampoo doposole dell’erbolario.

Una ventina di giorni fa, il ginecologo, interpellato sullo stato di funzionamento del mio apparato riproduttivo, dopo tagliando e consigli di manutenzione ordinaria, mi ha detto che è vivo e attivo a puntino.

Malgrado le caldane e altre amenità, il processo è fermo.

Oggi il mio oculista, semper partenopeo come parrucchiere e speleologo ginecologo, dopo le mie lamentazioni sulla cecità che avanza, dopo aver ascoltato le mie preoccupazioni su cateratte e glaucomi e distacchi di retina (allarmista che sono), ha sentenziato che mi è aumentata la miopia.

A 46 anni.

La miopia.

Aumentata.

No, dico.

Era diminuita negli ultimi 5 anni per far posto alla mitologioca presbiopia. Quella che ti fa portare gli occhialetti appesi al collo e che quando te li metti fai quell’aria da vecchia zia un po’ accigliata e concentrata. Quelli che pure se ti metti il laccetto colorato e te li compri fichissimi, sempre occhiali da presbite sono. E sempre indicativi del passaggio over 40 restano. Dovessero farli con le lucette intermittenti e la soundtrack trance incorporata, semp’ ‘na vecchia sì.

E mi aumenta.

Come dopo ogni estate della mia adolescenza.

Rompevo gli occhiali ogni anno prima di ferragosto. Restavo una decina di giorni senza per ovvi motivi di chiusura laboratori e, anche, perché un tempo per fare un paio di occhiali ci volevano 10 giorni. Quando li rimettevo non andavano più bene. Aumentata. Mi sono fermata a -8 a destra e -6 a sinistra. verso i 30 anni. Dai 5 anni che ho cominciato a portarli.

Cinque anni fa è arrivata la suddetta presbiopia. E la miopia ha cominciato a calare, piano piano. Mi sono fermata a -4.75 e -3,25.

Oggi mi ritrovo mezzo grado in più (in meno? insomma sono peggiorata) per occhio.

Sticazzi, direte voi. Cosa mai ve ne può fottere?

A voi niente. A me sì.

Sto a ringiovani’?

Mi verrebbe da fare una danza brasiliano oba oba. Frullar di piume e sederi ondeggianti, urletti da viados e trenini TAV.

A questo proposito vorrei riportare breve e poco significativo aneddoto.

Intercity Napoli roma delle 11 e 30.

Vagone pieno.

D’improvviso qualcuno molla una loffa da annoverare tra le armi chimiche iraniane.

Pensavo di morir.

Ma mi ha preso a ridere. Da sola. In treno. Soffocando. Ridere. Da non riuscire a fermarmi. E se ci penso rido ancora.

Se ne deduce, quindi, che se andate dall’oculista, vi conviene ridere molto, prima della visita o, in alternativa, immergervi in una flatulenza.

Non abbiamo dati per stabilire quale delle due sia la strategia vincente.

Fatemi sapere.

Satisfaction

Soundtrack: Black Eyed Peas Meet me halfway

Il mio lavoro, certe volte, è fichissimo.

Il mio lavoro, certe volte, fa rizzare i peli dietro la nuca per l’orrore.

Il mio lavoro, qundo funziona, mi pompa benzene su per il sistema venoso e mi provoca effetti pirotecnici tra i neuroni.

Il mio lavoro, quando non serve, mi sgonfia come un canotto abbandonato, d’inverno, sul legno secco e salato di uno stabilimento balneare chiuso.

Rientrata da 19 – e sottolineo 19 – giorni di vacanzetta transannuale, ho bisogno di rientrare nel ritmo che ho perso del tutto, considerando anche il mese di presepe.

Per regolarmi io, sottopongo i cicci piccoli a tornate di test di ogni genere e tipo. Li torturo e mi torturo per obbligarCi a restare soli nella stanza e concentrarCi sul lavoro che dobbiamo fare.

E ho sempre sorprese. Splendide e terrificanti. Alternativamente.

Il ciccio piccolo che pare bilingue, ma non lo è, che non parla mai e che non sapeva neanche il significato della parola “feroce” (in compenso ha una madre da urlo per quanto è bella), ho da dimetterlo, ormai, sta una favola. Il calcolo va ancora una chiavica, ma viene da una scuola dove ce ne fosse uno che sa far di conto. Per quanto io l’abbia cazziato parecchio, se lo guardo bene, con la sua forma da orsetto orientale, mi chiedo come cazzo faccio ad essere così orrendamente senza cuore. Ma dato che ha funzionato, ed ha funzionato in un annetto, viva la Signorina Rottenmeier!

Il ciccio piccolo che sta con me da tre anni, forse anche qualcosa in più, dislessico come un palo della luce, peggiora. E peggiora di molto. Ed io non so il perché. E’ bello e moretto, scattante e muscoloso, piccoletto e furbetto. Ma peggiora. Mi sento una logopedista di merda. Poi penso all’orsetto orientale e mi arripiglio. Ma sono pur sempre una logopedista di merda con questo ciccio qua. Sono troppo protettiva con lui. Sarà perché è adottato e non lo sa, sarà perché i genitori lo torturano di richieste sull’unica cosa che fa una chiavica, sarà perché dice bugie che se il naso crescesse davvero, avremmo risolto gratis la questione del ponte sullo stretto di Messina, sarà perché l’ansia se lo mangia vivo, letteralmente, dovreste vedere gli herpes che lo avvinghiano. Mah. vedremo.

Ho rivisto il ciccetto minuscolo che mancava da più di un mese. Un grissino da mangiare a morsetti piccoli piccoli. Con tutte le sue adenoidi che, più che altro, sono alieni che hanno invaso e conquistato la sua faringe. Sta meglio, parla da schifo, ma sta meglio. Questa è una buona cosa.

Ho una ciccia non tanto piccola da poco, problematica, seriamente problematica. Per ora ci troviamo bene e ci divertiamo abbastanza. Ma c’è da scoperchiare una compostiera niente male, che poi è la sua famiglia. Non so, è una sfida che mi attira oltremodo, peraltro la NPI ne è attratta anche più di me, ma non so se siamo il posto giusto e le persone giuste.

La madre di questa ciccia non tanto piccola è sicuramente una criptolesbica. Cripto solo per lei, credo, perché le manca solo un cartello luminoso con la freccia intermittente sulla fronte. Questo, di pe sé, non c’entrerebbe un cazzo con tutte le problematiche di sua figlia ma, di fatto è, secondo me, un punto nodale.

E non è che una madre lesbica non sia una madre equilibrata, non provate a pensarlo neanche per un attimo o il blog di penelopebasta vi invierà un fulmine polverizzante, è che una madre che non riesce a sentirsi addosso la libertà di esprimersi per quello che è, è una madre pessima.

E se non è possibile, per una donna dell’hinterland di una capitale europea, esprimersi e mostrarsi e viversi come si sente, come è, come si vive, questo mondo è una merda. Assolutamente una merda. E questo mondo si deve piangere una ragazzina devastata dalla patologia mentale altrui. Perché quella patologia nasce e cresce solo e unicamente sul pregiudizio, sulla pseudo-morale cattolica, sulla piccolezza mentale di un paese che si chiude invece di aprirsi, sulla miserabilità di un individualismo da decerebrati che non porta e non porterà che a niente altro che dolore e malattia e miseria mentale e pratica.

Marò che pippone.

Aggiungerei che, seriamente, se andassi in sinagoga a Roma a vedere giuseppina che si incontra con la comunità ebraica, non potrei fare altro che lanciargli addosso la suddetta ciccia non tanto piccola. Sintetizzando in una botta sola sia il finto attentato con finto lancio del duomo, sia la psicolabile che ha abbattuto il droide vestito da papa.

Ma come sto strana stasera.

Vorrei dichiarare pubblicamente che io, Biancaneve, la sposerei domani mattina e che, in questo caso, meglio che non sia possibile farlo. Metterei anche un annuncio su Repubblica con la sua foto e, sotto, la scritta “questa sgnacchera sta con ME”.

Infine, last but not least, registro una personale soddisfazione nel riscontrare, con gioia, che me la faccio con persone di qualità.

 

 

Ladre di identità (LDI).

Soundtrack: Rage against the machine Killing in the name

Esiste, sulla faccia della terra, gente che non essendo in possesso di una sua propria personalità ed identità, tende ad appropiarsi di quella degli altri. O almeno di quella che crede di vedere negli altri.

Ed è così che pastori delle montagne lucane arrivano ad adornarsi di pashmine di cachemere e/o (a volte contemporaneamente) di giubbotti di pelle nera borchiati quando, ovviamente, gli starebbe molto meglio una pelle di pecora o, tutt’al più, di mucca.

Questa tipologia umana, fiorisce particolarmente nel mondo lesbico. Potremmo dire, più o meno, 1:3.

Potrebbe apparire un controsenso, abbiamo spesso parlato della fatica e del percorso tipico di una lesbica per guadagnarsi il suo posto nel mondo, abbiamo parlato di consapevolezza e sofferenza, di profondità e comprensione.

Ma non parlavamo di loro.

Esse, le ladre di identità, mollano ben presto per pigrizia, per incapacità specifica o semplicemente perché non si può costruire una cattedrale nel deserto e, una volta arrivate alla maggiore età (che per loro si manifesta intorno ai 30/33 anni), si rendono conto che manca qualcosa.

Parte quindi la corsa all’appropriazione indebita.

Ovviamente prediligono puntare la propria attenzione sulle lesbiche della tipologia “banana”. Appaiono sempre come le più malleabili e distratte.

Quindi, le LDI, iniziano la loro opera di sottrazione.

Alcune hanno affinato le proprie abilità a tal punto, da mettere in difficoltà i borseggiatori della metro di Roma.

Dovessero metterci anche un intero anno, di certo ci riusciranno.

La malcapitata banana verrà espropriata delle proprie azioni, creazioni, relazioni e, nel caso manifestasse l’intenzione di protestare, affermare se stessa o denunciare il furto, verrà subissata di improperi e accusata di ogni possibile e impossibile nefandezza. Le LDI sanno sfruttare molto bene la conoscenza della personalità che hanno acquisito con il dolo e usano con estrema disinvoltura i punti deboli per definire ed ottimizzare la sottrazione.

Una volta terminato il lavoro, però, sorge qualche piccolo problema sulla breve, media e lunga distanza.

La personalità rubata, senza l’apporto del suo legittimo proprietario, non evolverà, non sarà in grado di creare, non potrà nutrire le relazioni.

Facile immaginare che, nel giro di un semestre, la LDI avrà bisogno di un’altra identità/personalità da rubare. E comincerà la sua caccia, non sempre fortunata in verità.

Perché bisogna accontentarsi di quello che capita e, i colpacci, avvengono un paio di volte nella vita.

E la lesbica banana?

Non c’è problema per lei, per quanto banana sia e per quanto manipolabile sia, ha imparato a proteggersi il poco che ha. Ha anche imparato, negli anni, che le cose che fanno parte di lei a lei ritorneranno, è una legge di natura. Quello che lascia andar via son briciole, briciole e incarti di cioccolatini.

E se qualcuno si è lasciato ingannare dal luccicore, son squisiti cazzi suoi.

 

 

 

Le notti di Penelope

Soundtrack: Air All I Need

Sogno poco, di solito.

E i sogni che faccio non me li ricordo.

A volte sono proprio film, vere e proprie sceneggiature con attori e fondali dipinti. Dialoghi e colpi di scena, cambi di inquadratura e di luce. Mi capita anche di esprimere, mentre sogno, giudizi sull’andamento del plot; più o meno lusinghieri, si varia. Se me li ricordassi avrei materiale per una ventina di lungometraggi. Ma non me ne ricordo mai.

E’ dall’inizio dell’anno, invece, che sogno tutte le notti. Spesso anche incubi. Forti, affollati, densi, con cambiamenti di scena continui e da girar la testa. Sensazioni violente e corporee, risvegli in un bagno di sudore e bisogno di lucidità. Mi sono ripromessa di scriverli.

Nelle parti iniziali c’è sempre Biancaneve, quando le situazioni nascono e ci son discorsi da fare (che naturalmente non ricordo manco lontanamente). In mezzo c’è sempre una bambina, un cucciolo e qualche parente.

Non so “interpretarli”, so solo che quando mi prende male devo, a 46 anni, riaddormentarmi con la luce accesa comm’a ‘na creatura (=come una bimbetta, N.d.T.). Dopo essermi fumata una sigaretta sedante.

Malgrado tutto (divano attaccato al culo, facebook, pigiami ad oltranza anche 36 ore di seguito, cibo disordinato e improbabile, parole scritte e quasi mai parlate), questo è un periodo denso. E non so spiegare quanto, come, cosa e perché.

Non ho paura di questo 2010 (di solito temo molto gli inizi d’anno), ma so che mi aspetta al varco. Vedremo. Sapremo quando sarà il momento.

Questioni in gioco ce ne sono tante da atterrare un toro.

Di palo in frasca.

E’ una strana sensazione, per me, ma quando mi ritrovo con i cicci piccoli di Biancaneve, mi viene voglia di far vivere loro delle cose che ho vissuto io e che ricordo con piacere.

Credo mi stiano cambiando le priorità. Diciamo così. Mi sta cambiando lo sguardo sul mondo, il mio mondo. Come se mi fossi spostata. Al momento è tutto un po’ brodoso. Si schiarirà.

Stasera sono andata a vedere “Il riccio”. Non ho letto il libro. Il film mi è piaciuto moltissimo. Tecnicamente e sostanzialmente. Lo consiglio urbi et orbi.

Orbene, dopo ‘sta palla di post, andiamo ad elencare non già i “buoni propositi” per quest’anno (che me ne passa per il cazzo dei propositi e del loro valore specifico), ma le cose che vorrei fare durante il 2010:

  • sciare (e portarci anche i bambini);
  • andare in barca (idem);
  • andare a Londra;
  • andare a Tolosa;
  • andare in elicottero;
  • guadagnare di più senza ammazzarmi di fatica;
  • fare cose nuove, di qualsiasi genere;
  • vincere ad una qualche lotteria e sistemare i miei amici e i miei parenti;
  • non lasciarmi manipolare da nessuno;
  • dormire con Biancaneve;
  • imparare cose nuove;
  • distinguere le persone sane da quelle da evitare;
  • ritrovare i miei affetti veri;
  • non sentire debiti di gratitudine per cose delle quali sono, in realtà, in credito:
  • sentirmi capace;
  • ritrovare la voglia di scrivere;
  • portare lo spettacolo a Napoli;
  • sfanculare chi è il caso di sfanculare;
  • mangiare giapponese;
  • mangiare messicano;
  • far l’amore per 48 ore di seguito;
  • modificare il concetto di “terapia logopedica”;
  • mettere su una attività mia.

Mi pare abbastanza, per ora, ma mi riservo di aggiungere qualcosa.

A bien tot.

 

 

 

Favole e duelli.

Soundtrack: Astor Piazzolla – Violentango

Intorno ai miei otto anni, in casa mia, è arrivata una perfetta sconosciuta.

La sconosciuta avrebbe preso il posto di mia madre, secondo voci diffuse.

La sconosciuta era solo una sconosciuta. Per me.

E’ andata via più di 30 anni dopo, e non di sua volontà.

E’ stato il rapporto più complicato e denso che io abbia mai avuto.

Si chiamava Leda.

Era una donna coraggiosa, dura e molto determinata.

Lo ero anche io.

Ma ero anche molto piccola.

Quello che ricordo bene, con certezza e nitidezza, era la difficoltà che avevo, io, ad ammettere che mi piacesse. Che mi ci trovavo, che la sentivo.

Ci ho lottato per quasi 30 anni.

E i miei amici lo sanno bene.

Era il bersaglio preferito delle nostre cattiverie. Delle mie.

Se nell’apparecchiare la tavola c’era una forchetta spuntata, la mettevo al suo posto, salvo pentirmi un attimo prima di sedermi per il pranzo e cambiarla di corsa con la mia.

L’ho fatto per anni. In questa sequenza, senza saltare una singola volta.

La odiavo perché era matrigna, e le matrigne si odiano per definizione. Te lo insegnano con le favole da subito. Se sei orfana, tale devi restare e non sia mai detto che tu possa scoprire che la maternità non è solo faccenda biologica. Le matrigne abbandonano, tramano, rubano, invidiano, eliminano. E io le favole le leggevo da me.

Certo, un paio di cosette aiutavano.

Nella mia casa chiattilla (=borghese, N.d.T.) c’erano ben 2 bagni, anzi tre. Comunque in quello di noi bambine non c’era la doccia. La mattina attraversavo il corridoio come fossi uscita dalla tenda di un campeggio, con in mano accappatoio, sapone, shampoo, asciugamani e asciugacapelli. La mia roba non poteva stare nel suo bagno.

Sarà per questo che in vita mia non ho mai sopportato vivere in case che non fossero mie (quantomeno come intestataria del contratto di affitto).

Sono stata buttata fuori più volte e da più case (sempre di famiglia chiattilla…), sono stata estromessa e usata, insultata deliberatamente e aggredita. Credo come in ogni famiglia, credo come in quasi tutti i rapporti tra madri di forte carattere e figlie fragili e irrequiete.

Dopo 30 anni ci siamo guardate in faccia e ci siamo dette che, tutto sommato, ci siamo volute bene. Lei si è assunta la responsabilità di crescermi ed educarmi (questo credo di averlo già detto) e io la responsabilità di essere una figlia difficile. Senza troppi sensi di colpa io, con molti sensi di colpa lei, Che pure non se li meritava. Alla fine conta l’agire. E conta il riuscire a farlo in un contesto che la pressava e spingeva incessantemente. Perché nessuno voleva quella donna evoluta e ostinata a sostituire l’icona che era diventata mia madre da morta ed il pater, ovviamente, si è guardato bene dal mediare o da far sentire la sua presenza in questa guerra da sussidiario. In fin dei conti ce l’ha fatta a fare le cose che voleva fare. Anche lasciare la sua impronta su di me.

Me la sento, la riconosco. E non solo nel saper tagliare la frutta con forchetta e coltello.

E se penso a questo, penso che tutto è possibile.

Ho alle mie spalle esempi enormi di questo.

Mio padre, mia madre, Leda, mia nonna, mia sorella, mia nipote. Un’intera famiglia con la testa dura come il marmo e il culo imbottito di kapoc: cadi e rialzati, cadi e rialzati, cadi e rialzati.

Mi ritrovo nel dna tracce che arrivano da ogni parte e sono marcate tutte allo stesso modo. Ebrea, turca, calabrese, napoletana, romana.

Mah.

Difficile raccontare da dove parte questo sproloquio. Ma io so esattamente da dove parte.

La notte di capodanno sono uscite fuori delle strane carte “oracolo”, oltre ai miei tarocchi invecchiati e quasi dimenticati (non li so più leggere, questa è la verità, proprio non riesco più a mettere insieme le cose e vedere il quadro finale, ma è meglio così). Il mio “oracolo” diceva che ho da fare un duello all’alba.

Io so che è così. Mi sto preparando.

Per il resto tutto bene?

2010

Soundtrack: Florence and the Machine You’ve got the love

Quando avevo 15 anni, pensavo al 2000 come una data lontanisssssima. Avrei avuto 37 anni. Non credevo neanche di arrivarci. Come è tipico di una guagliona cresciuta tra i 70 e gli 80.

Invece ci sto. Come tutti sapete. Con orgoglio e sorpresa, devo dire. Lo stupore degli anni che passano e mi vedono qui, non mi abbandona mai. Immagino sia una buona cosa.

Dunque è classico tempo di propositi e auguri.

Nel frattempo aggiorno la folla trepidante: tutto bene.

Ordunque. C’è da augurare cose a persone. Vediamo cosa viene fuori oggi.

Per il 2010 auguro, a chi conosco, ma anche a chi non conosco (suvvia, un po’ di generosità l’ultimo dell’anno):

autostima a chi non ne ha,

chiarezza a chi naviga nella nebbia,

remi a chi ha la barca senza governo,

consapevolezza a chi manco si ricorda come si chiama,

cuscini a chi finisce sempre culo a terra,

formine prestampate da ritagliare a chi ha sempre idee irrealizzabili,

una ricetta semplice e veloce per chi non riesce mai a concludere un cazzo,

tempo a chi non ne ha,

zappe da orticello a chi ha preso la forma del divano,

sesso selvaggio a chi si è dimenticato come si fa,

carezze sulla faccia a chi ne ha fame,

baci sconsiderati per chi ha sete,

energie molto colorate per chi capisce solo il grigio,

una personalità a chi non ne ha,

la calma a chi ha il cervello in fumo,

e, in generale, il meglio che ognuno si augura per sé.

Nel frattempo ci tengo a nominare e ringraziare le cose che, nel 2009, sono state importanti per me. Non ho di che lamentarmi, su quest’anno che se ne va, e non voglio peccare di ingratitudine. Quindi ringrazio:

Biancaneve in tutto il suo essere e agire, è la mia droga e la mia gioia, la mia avventura e la mia adrenalina, la mia sorpresa e la mia certezza; you&me della Vodafone, come più volte detto, che mi permette di viverla anche quando siamo lontane; i cellulari Nokia per lo stesso motivo, l’inventore degli auricolari, Piazza Re di Roma, il mio culo per i parcheggi, il mio padrone di casa, questo blog, un bar del testaccio, la fermata della Metro Piramide, Ostia, la mia macchina, la sua macchina, il mio divano, i collant autoreggenti, una sua amica, molte mie amiche, i suoi figli (che non sono bambini, ma prodotti di Intelligenza Artificiale made in Japan), i miei ricordi, la sua voce, la sua intelligenza, le sue mani, il suo sguardo e il suo coraggio, il Nik’s bar di Largo Somalia e il ristorante Thailandese sotto casa, la sua testa di cazzo seconda solo alla mia, le sue scollature, l’alcool, gli sms, la sua schiena, le sfide, la comprensione, la pazienza, le emozioni, la resa, il mio spettacolo, Napoli, “ci sarà occasione”, i Centri Commerciali, i parcheggi, parco della Caffarella, sua madre, suo marito, la codina. E la chiudiamo qua, questa parte, ché potrebbe andare avanti per tutto il secolo XXII.

 

Gli amici: Penelope che è ancora qui malgrado la mia scarsa cura; mia nipote che è bella come il sole e coraggiosa come un guerriero ninja; mia sorella osservatrice e saggia come un consiglio di anziani su Marte; Marco che è lui, che sa cosa dirmi, che riesce a dirmelo e che sconta l’ergastolo con me; Francesco che osserva e parla, che c’è sempre e mi infila dappertutto; Raffaella che mannaggia alla miseria, non smette di fare domande che servono solo a non vivere, ma è fatta così, che ci vogliamo fare? Ziasaimon e la sua saggezza oltre che le sue fantastiche cene; papà che è, tutto sommato, uno che sa campare, Francesca Romana che è stata amica e musa, sicurezza e colore, casa e generosità; Vanessa che è colonna e certezza, limpidezza e protezione;  Chiara e Imma che partecipano e ascoltano con molta pazienza; Margherita che non si assenta mai. I miei colleghi, che in fondo sono famiglia anche loro. E, naturalmente, le persone che seguono il mio blog: Crila, Tribus, Vita, Deepgreen, Dandy, Imogene, Nelson, Francesca di milano, LaVale, Mah, CaporaleReyes, Omaha, Saffoco, Beatrix,  Bettyloop, Coraggio e tutti quelli che non conosco o che potrei aver dimenticato.

I luoghi: la colombaia che mi ha accolto in ogni possibile mood; “Io sto una favola è Naomi che non è normale” ovvero il sogno di una vita realizzato;  la spiaggia di Ostia e il mio coraggio di farci il bagno; la casa di Alice e Da Queen a Ostia e pure a Roma, rifugio e canile; San Lorenzo; Monterotondo; la CGIL; Senigallia e la riviera romagnola; ikea, Zara ed H&M.

Cose varie: latte e cornetti, caffè, cioccolata, pane, mozzarella, mousse all’arancia, il computer, facebook, il silkepil, i libri, il mio cuscino di lana da cardare, la musica, la radio, il lettore MP3, il lego, il presepe, vaporella e swiffer, il tavolo della cucina, la distrazione altrui, il carrozziere, la moto in disuso, le belle giornate, il freddo, il caldo, la vaniglia e il tabacco, le mie protezioni, la mia voce dentro.

Ecco, per ora mi sembra abbastanza.

La mia donna

Soundtrack: Ludovico Einaudi – Lady Labirinth

Io ho lottato molto per non lasciarmi andare.

Ho lottato molto per non finire lessa come un pollo.

Ho lottato per resistere alla voglia di comunicare, costantemente, al mondo, quello che vivo.

Ho lottato perché non mi riempisse la vita.

Ho lottato perché non diventasse la gioia più grande e l’emozione più forte.

Ho decisamente perso.

Ho resistito alla voglia di vivere solo di questo.

Ho ceduto come un foglio di carta bagnato.

Sono scappata cento volte dai suoi abbracci.

Sono ritornata almeno una volta di più.

Mi sono detta che era necessario essere più dignitosa e realistica.

Non mi sono ascoltata.

Mi sono vergognata dei miei livelli da bacio perugina e mi sono vergognata delle parole melense e adolescenziali che mi scorrono nella gola e nelle dita.

Le ho dette e scritte arrossendo.

Mi sono sforzata di mantenere il mio personaggio, di restare cinica e disincantata, sarcastica e incazzata.

Vano, sforzo vano e senza risultato.

Ho cercato di restare presente nel mio mondo.

Non ci sono più.

Mi sono rifiutata di restare in attesa dei momenti da infilare in una qualche ora del giorno.

Per poco, per pochissimo tempo.

Ho ascoltato annuendo le voci degli amici dirmi che no, non è così che si fa, e che, per carità, stai diventando una donnetta sdilinquita senza personalità.

Ho smesso di ascoltare.

Io so di essere completamente assorbita, concentrata, tesa, direzionata, rincoglionita, incatenata, accecata da Biancaneve e dal suo passo lungo e morbido, dall’odore del suo ammorbidente, dal colore del suo rossetto e dalla sua voce di seduttiva manipolatrice di vecchie lesbiche rincitrullite.

Sono fiera di camminarle accanto, di ascoltare quello che sogna, di sentirmela addosso e di perdermi per trovarla.

E, in questo momento, è la vita più bella del mondo.

Arrossisco, gongolo, sorrido e posto.

 

Buone feste 2009

Come ogni anno, ma quest’anno ben più personali.

Auguri e buone feste a Biancaneve spesso stanca e spesso felice, che si addormenta con me attaccata al filo dell’auricolare e, di conseguanza, buone feste a You&me della Vodafone.

Che stiate bene tutti,  che i regali siano belli, anche per chi mi cancella da facebook come fosse vita vera e come se bastasse davvero a cancellare 15 anni di vita attorcigliata, per chi legge e scrive ancora su questo blog, per chi si è perso per la strada, per chi esce da un negozio e non ricorda più da che lato è venuto, per chi scappa e scappa e scappa.

Che gli affetti siano caldi e morbidi per me, per chi dimentica la macchinetta sul fuoco, per chi aspetta bambini nuovi nuovi da regalare al 2010, per chi ha trovato chi amare e per chi ha trovato da chi lasciarsi amare e per chi ha capito che, tutto sommato, è la stessa cosa.

Che la mente sia serena e il corpo pronto, a chi è malato, a chi non ce la fa, a chi si tappa le orecchie con i sensi di colpa, a chi non sa leggere e a volte neanche scrivere, a chi non capisce e a chi capisce troppo, che è uguale.

Auguri e buone feste alle amiche che fanno finta di non capire, alle calabresi orgogliose, alle napoletane laviche, alle romane diffidenti ma presenti.

Auguri a chi legge l’oroscopo dell’internazionale e ci crede pure, a chi lavora da ciuccio senza sapere cosa succederà domani, a chi sfanga la giornata, a chi arriva alla sera col cappio al collo, a chi ne ha e a chi non ne ha più, a chi ci crede, a chi ha smesso ma si rifiuta di cedere.

A chi non si aspettava di trovarsi così a Natale (e così può essere tutto, nel bene e nel male, ognuno lo sa per sé).

Serene giornate a chi è stanco da morire, a chi cerca pace, a chi deve fare i conti con quello che non c’è più, a chi le feste le odia, a chi sente la mancanza, a chi vorrebbe sentirla, a chi resta incastrato e a chi è sgusciato via, a chi si è preso randellate senza aver fatto niente e a chi si è rotto le palle di prenderle e ha deciso di meritarsele, a chi risponde, a chi si alza in piedi, a chi tira su il mento, a chi va dal parrucchiere per sentirsi nuovo nuovo, a chi preferisce l’estetista e a chi usa il silkepil.

Che le ossessioni si sciolgano, almeno per qualche giorno, che la mente si liberi, che il sangue scorra con quel passo da fiume di montagna limpido e fresco.

E, stavolta, proprio non mi va di far gli auguri agli avidi, agli avari, agli arrivisti, agli strateghi, ai mascherati e ai miseri d’animo. Più che altro mi auguro io di incontrarne lo stretto necessario e posso, al massimo, sperare che si riescano a guardare per quello che sono.

Fuori dalle metafore, perché è necessario, auguri a Raffaella, perché mi manca, ma non ancora abbastanza da perdonare, ma arriverà. Auguri ad Alice, perché questo prescinde. Auguri a Margherita che nuota nel fango e si rifiuta di vederlo, auguri a Francesca che è incinta di nuovo, auguri a Da Queen che mi manca moltissimo, auguri a Marco che vedrò stanotte e sarà il mio vero natale domani, auguri ad Imma e Chiara, che si sono sempre, anche quando.

Ecco, mi pare abbastanza.

Buone feste, buoni regali, buoni amici, buoni amanti e buone emozioni.

Che altro si può volere?

Le trappole

Soundtrack: Jazzamor Nuit Magique

Le trappole di facebook: non scrivo più, non comunico più, non mi informo più, non mi stacco più. Con la testa infilata tra una Farmville e un Cafè World, con puntate agli Happy Pets, non ho più scambi umani e non mi interessa nemmeno. Mi ritrovo a pensare a cosa piantare e a come staranno i 18 gatti che mantengo virtualmente. E Penelope rimane con la ciotola dell’acqua vuota. Non mi piace più. Se esco da questo gorgo, mollo tutto.

Le trappole di Napoli: Giri l’angolo del Maschio Angioino e mi ferisce gli occhi e il petto la luce di quel colore, di quella consistenza, di quell’odore. Capisco, improvvisamente, le Ladies in Gran Tour. Non che io ne sia all’altezza, ma non mi stancherò mai di ripetere che vista da fuori, questa città, è davvero una delle più belle del mondo. E poi il pater tutto sommato dolce, l’annuale albero di Natale con il Fab2, il suo presepe, le passeggiate, gli acquisti economici e risolutivi, la mazzamma (=termine specifico per indicare la torma di umanità di dubbia educazione che invade le strade dello shopping durante i periodi festivi, N.d.T.), il freddo mai mortale, gli amici che non si riescono a vedere, quelli che si incontrano inaspettatamente, il viaggio di ritorno con la pioggia e il carico dei doni rimediati qui e là.

Le trappole del corpo: questo week end dovevo essere di nuovo a Napoli. Con Biancaneve. Mi sono ammalata. Uno straccio. Mi sarei presa a schiaffi da sola. Non è dato sapere quando avremo un’altra possibilità per passare la notte insieme. E io mi ammalo. Freud ormai si è consumato a furia di rivoltarsi nella tomba. E io le impedisco di restare da me, perché se si ammala lei sono cazzi. E lei mi dice “se fossimo una coppia dormiremmo insieme” e io le dico “se fossimo una coppia sarei lì a portarti il brodo di pollo a letto se ti ammalassi tu”. Ma io sono qui e lei è là. Il brodo di pollo e i bicchieri d’acqua fresca, via sms, non si possono inviare. Ma era il nostro week end, e io l’ho svampato.

Le trappole della mente: “tu sei talmente preoccupata di prenderti cura di me, che non permetti a me di prendermi cura di te.” Dice Biancaneve. E ha ragione. Mi guardo indietro per vedere se è sempre stato così. E, sì, è sempre stato così. Ho amato donne più giovani di me e ad alto tasso di confusione mentale. Me ne occupavo io. Fino a quando non mi prendeva lo sclero assoluto da mancanza di attenzione. Bel modo di sfangarsi l’impegno di lasciarsi coccolare. In quale nodo dell’anima è incastrata la mia paura nel darmi (perché permettere a qualcuno di occuparsi di te è darsi, non prendere), io non lo so. Deve essere in qualche angolo polveroso tra la paura di perdere e quella di soffrire. La più banale delle cose umane. La più stupida e comune. A volte penso che in questo rapporto non faccio altro che portare panico e terrore, ansia e angosce primordiali. E ben poco altro. Per ora Biancaneve resiste, bisognerà farla santa subito (seeeee).

Quello, quell’è.

marò.

Soundtrack: Imogen Heap – first train home

Eccheppalle.

Ma si può mai stare a lamentarsi se il mondo non è d’accordo co’ tte?

Sticazzi, non lo è mai.

Mimetizzare la mancanza di coraggio dietro la paura dell’altrui giudizio è una bella paraculata, e io non mi fido di sentirla.

Mi annoia, mi rompe il cazzo, mi scioglie le orecchie, mi liquefa i coglioni.

Se avete fatto – o volete fare – una scelta che coinvolge (necessariamente) il vostro prossimo più prossimo, non aspettatevi di vederlo (il prossimo) ai lati della strada con gli striscioni e le trombette.

Probabilmente si starà attrezzando con lunghe mazze di ferro per randellarvi le caviglie mentre correte verso il traguardo.

E hanno pure ragione, cazzo.

E basta.

Stoned

Soundtrack: vintage

Ier sera ho fumato canne, bevuto, mangiato senza ritegno e guardato il grande fratello.

Non saprei dire quali di queste quattro cose mi ha rincoglionito di più.

E tutte cose che non facevo da un bel po’.

Le mie prime ubriacature lievi, entro i 5 anni. E me lo ricordo benissimo. Bevevo di un fiato il bicchiere di vino che il portiere del mio palazzo mi riempiva a pranzo. Mi piaceva molto. Mi piaceva la sensazione di stonamento e dissociazione che arrivava dopo. Non pensate male del portiere, era uno simpatico che, spesso, si teneva interi gruppi di bambini del palazzo a pranzo e poi organizzava per noi giochi in cortile. Oggi gli avrebbero, come minimo, dato del pedofilo. Allora era solo uno che risolveva il pomeriggio a tutti.

La sbronza vera l’ho presa a Positano, a pasqua, più o meno a 12 anni. Mi hanno trovato in un cassettone di un comò. Volevo dormire. Dopo i 30 ho dovuto smettere di bere qualsiasi cosa. L’ultimo Jack Daniel’s: capodanno del 2000.

Anche la prima canna, a Positano. Una lunga notte passata a fumare, mangiare pane caldo con nutella, e difendermi da uno che mi metteva le mani addosso. Avevo 15 anni. Ho smesso a 23. Andavo in paranoia, tachicardia, tremori e ansia patologica.

Sono talmente disabituata che un paio di volte, guidando, mi sono proprio spaventata. Credevo fosse alzheimer. Ci vuole attitudine e abitudine a reggere le dissociazioni da canna. Complimenti a chi ancora ci riesce.

Il grande fratello fa schifo. Ma fa veramente schifo.

Mio cugino ed io siamo speculari. Non si può immaginare quanto. A volte mi fa impressione.

Mi tengo solida. Mi tengo stabile. Mi tengo.

E cerco di non perdermi. E di non arrabbiarmi.

Grande prova di volontà, Penelope.

Buon albero di Natale a tutti, che oggi è il giorno giusto.

Non metteteci solo palle, metteteci anche sogni e desideri e emozioni e cubi e roba che senso non ha, cose rotte, calzini e mutande, mandarini e tappi di sughero, collari di cani e ciuffi di peli di gatto.

Secondo me porta meglio.

 

 

Imparare

Soundtrack: gnente, non mi va di cercarla.

Sei all’altro capo dell’auricolare.

“Ho spento la luce”, hai detto.

Hai detto “mi basta il tuo silenzio”.

Ho detto “non lo so se è una cosa buona”.

Hai detto “neanche io lo so”.

Cercare di spiegare, cercare di spiegarsi, cercare di ascoltare, cercare di ascoltarsi.

Sì, è vero, c’è una cosa che non dico.

Mi manca il coraggio, probabilmente me ne vergogno anche un po’.

Quel tanto che basta per tapparmi la bocca.

Lo sai che potrei venire a vivere con te domani mattina?

Con tutto quello che significa.

Ma non è ragionevole.

Lo sai che sto talmente bene con te che ho il terrore che tu non stia altrettanto bene con me?

E non è neanche così semplice da spiegare.

Dici che sono furastica.

Sono furastica.

Di questo mi vergogno.

E non è la sola cosa.

Mi fidassi di più di me, non avrei paura dei colpi di vento.

Mi fidassi di più di me, non interpreterei ogni cosa come un segno delle nostre distanze.

Il grande lago di casini e quotidiani impegni e priorità reali nel quale navighi, mi sembra sempre più grande e interessante e tuo di quanto lo possa essere lo spicchio di mare che posso offrirti.

Mi sono abituata a starti dietro, a osservarti la schiena, a coprirti le spalle e aspettare.

Non sapevo neanche di essere capace di aspettare e lasciare che fossi tu a guidare.

Oggi mi hai detto molte cose al telefono, una di queste me l’hai riportata detta da qualcun altro.

Come spiegarti quanto conta per me?

Come far capire fino a dove mi penetra?

Rinuncio.

Poi scatto come una tagliola invece di condividere.

Avevi detto che non avevi sonno.

Dormi già.

Il ritmo del tuo respiro, per quanto distante, mi riscalda.

Avercelo vicino.

Tenerlo tra le mani.

Per la prima volta in decenni mi ritrovo da sola a pensare e riflettere, senza poter scambiare e parlare con le persone alle quali tengo.

Il Fab è in Francia, il docfab non mi risponde, la R* è arrabbiata e perduta, Alice è lontana, M* è morbida come la gomma pane ed io non sono abituata.

Incredibile, la prima relazione non collettiva in una trentina d’anni.

Anche Penelope dorme, con la testa sul mio piede. Almeno lei è qui.

Sapessi quanto mi manchi, Biancaneve, anche ora che sei attaccata al mio orecchio.

Anche ora che ti ho mandato affanculo da una mezzoretta.

Anche ora che non capisco bene quello che vuoi dirmi perché ho i condotti uditivi inquinati. Ci si è arenata una petroliera dentro. E non da oggi.

Ti risvegli e non vuoi dirmi cosa ti succede.

Il mio stomaco protesta, niente cena, stasera.

Urge sigaretta.

Hanno tentato di farmi una truffa in questi giorni. Uno strano meccanismo basato sull’altrui ignoranza e sull’altrui presunzione di meritare qualcosa. Hanno trovato me, che non credo di meritare qualcosa. E poi capisco l’inglese, ‘sto truffatore era un coglione che scriveva malissimo.

Forse sono riuscita a vendere la moto. Quattro soldi e molto dolore. Per quanto strano sia, a quella moto tengo molto. Significa molto. Mi ha accompagnato molto. Mi rappresenta molto. Ma non sarebbe ragionevole tenerla.

Non trovo coinquilina nuova. Mi angoscia sottilmente lo stringere dei tempi.

A fare caso sugli annunci, gli uomini sono sempre disposti a spendere di più, per il fitto, delle donne. perché?

Al lavoro stanno saltando gli equilibri e non capisco perché. Forse la stanchezza. Ma il presepe è molto bello. Il più bello, credo.

Stai dormendo, ormai. Non ho il coraggio di chiudere la “conversazione”. Non ho il coraggio di chiudere il canale. Voglio sapere cosa hai dentro perchè penso che riguardi me.

Certe volte ho paura che tu sia troppo etero, Biancaneve.

E fa male.

 

Etero e Lesbiche III (donne vs donne)

Soundtrack:

Eccoci qua.

Non ho neanche comprato il decoder, tanto sono attaccata ai giochini fb tutte le sere, sarebbe una spesa inutile e poi così posso dire che faccio bene a non pagare il canone.

Dunque.

Questa faccenda mi frulla in testa da un mesetto. Vediamo che cosa ne esce, ma non aspettatevi granché, ho ancora punti da esplorare.

Le lesbiche dicono delle etero:

  • che sono fondamentalmente zoccole;
  • che non riescono a fare a meno di troieggiare;
  • che pensano che nessuno possa resister loro:
  • che non sanno interagire sereneamente con le lesbiche, dato che pensano sempre e comunque che le lesbiche ci vogliano provare con loro;
  • che restano etero anche quando scopano con una donna.

 

Le etero dicono delle lesbiche:

  • che sono donne aggressive;
  • che hanno personalità prepotenti;
  • che sono manipolatrici;
  • che non sono femminili;
  • che sono drammatiche.

A me viene il dubbio, e non è manco tanto dubbio, che ognuna accusi l’altra della caratteristica che più le appartiene e, tutte insieme, si tirano addosso il peggio degli stereotipi sulla femminilità. In fondo, delle donne, si dice che sono zoccole e manipolatrici, drammatiche e gatte morte. Se ne cade la letteratura, dalla bibbia in poi, di questo.

Siete mai stati in un locale a prevalenza lesbica?

Dovreste.

E’ una lezione di vita.

Di solito, il locale lesbico, è un trioiaio senza precedenti. Si puttaneggia a destra e a manca, ci si prova con le fidanzate altrui, ci si ammocca (=pomicia, N.d.T.) in ogni angolo e si tromba sul lavabo. Bariste, buttafuori e dj comprese. E manco si fa tanta selezione.

Per quanto riguarda le etero, mi è venuto in mente un pezzo del film che ho postato (dal minuto 5). Del resto, ora che ci penso, conosco parecchie donne che iniziano una relazione con un uomo pensando: “io lo cambierò”.

Noi lesbiche siamo libere di manifestare, festeggiare, reiterare e regalare la nostra femminile quota di “seduttiva leggerezza” altresì denominata: trioiaggine, senza dovere temere o contenere. Una gran fortuna (non ben utilizzata, ma pur sempre una gran fortuna) e, in qualche modo, lo dobbiamo ritenere il nostro peggior difetto. Tanto da finire per assegnarlo alla categoria avversa, le etero.

Le etero sono abituate ad esercitare la sottile arte della manipolazione nei confronti degli uomini che vivono e frequentano (fondamentalmente ritenuti “fessi”), antica arte nata, credo, per ovviare alla differenza di prestanza fisica e alla conseguente impossibilità di imporre scelte con l’uso della forza bruta, Anche loro, evidentemente, se lo sentiranno come una cosa di quelle che “pare brutto”. E così diventa l’insulto per la parte oscura, le lesbiche.

Questa è, ovviamente, la fiera del pregiudizio. L’apoteosi dello sterotipo.

Mi rendo conto di aver ampiamente contribuito. Bisogna trovarvicivicisi nelle situazioni per vederne i limiti e le storture. Almeno io, mi ci devo trovare.

E la questione donne vs donne è vecchia come il cippo a Forcella, si ripete in ogni era ed epoca, come se nulla cambiasse mai.

Eppure molte di noi lesbiche dimostrano concetti validi e belli (anche se in questo momento non me ne viene in mente neanche uno). Quantomeno che una donna può essere indipendente e affettivamente autonoma o “diversamente femminile” senza che caschi il mondo.

E le etero stanno lì a dimostrare che è sulle donne che si regge il mondo.

Ah, ecco, è questo.

Qualche giorno fa Alice mi ha detto: “fra te e Biancaneve la più forte è sicuramente lei”.

Già. E’ così.

E cosa c’entra questo?

Per il prossimo capitolo: Coppie Lesbiche e standard imprescindibili.

scusate

stasera non ce la faccio, ma ho pronto nella capoccia il “Lesbiche e Etero III, ovvero donne vs donne”.

Ce la posso fare a scriverlo, appena mi stacco da facebook farmville cafè world roller coaster kingdom bejeweled bliz e via dicendo.

Ce la posso fare.

Presto, ma non stasera.

Grazie alle nuove entrate e a chi legge ancora.

 

incompleto

Soundtrack:

Tanto ho imparato ad abbracciarti per intero.

Volevo scrivere un post erotico e mi accorgo, credo per la prima volta da quando ho aperto il blog, che la ritengo questione troppo personale per renderla pubblica.

Avevo anche preparato la foto.

Cosa nuova e strana per me.

Quest’anno sono serena, e chi vuol capir capisca. Anche questa una strana cosa.

Tra le altre cose, sono giorni che ragiono sulle “caratteristiche” che le varie categorie di donne addossano ad altre categorie di donne.

Ne parlerò.

Ovviamente la serenità comporta poca voglia di scrivere, ma avevo cominciato e tant’è.

Buon week end.

Arti e mestieri

Soundtrack: Simply Red The right thing

Questa città è una vecchia bagascia.

E come tutte le vecchie bagasce sa esattamente come stimolarmi, come caricarmi e ri-caricarmi e come farmi sentire forte e potente.

Certo lo fa a pagamento, come da mestiere, ma ormai è per me un prezzo leggero, abbordabile, tutto sommato equo.

Perché poi non ci resto.

Ché da bagascia diventa cravattara. E gli interessi non finiscono mai. E da cravattara a spacciatrice. E pensi di non poterne più fare a meno, di non poter vivere senza.

Son ben contenta di utilizzarne i peculiari servigi senza lasciarmi intrappolare.

La colombaia è rinnovata e calda.

Il docfab è delicato e gentile.

Gli amici tanti. un tour di tre giorni che neanche Evita Peron.

Si mangia divinamente (oggi anche impepata di cozze fatta in casa a pranzo e giapponese a cena).

Mi torna voglia di fare cose, ritrovo un minimo di sicurezza e dell’autostima perduta, m sento umana e di sostanza.

Ne avevo bisogno.

In questi giorni niente passeggiate, mi mancano un po’, sono l’unico vero contatto con il territorio e con la sua estetica.

Certo mi fa più paura di quanta me ne facesse qualche anno fa. Ma non sono affatto sicura sia colpa sua, è che io, oggi, ho più da perdere di quanto non avessi 10 anni fa.

Almeno è questo quello che credo.

E il mondo è come te lo fai in testa.

Se pensi di avere qualcosa da perdere, ti metti in condizione di proteggerlo, di difenderlo e difenderti, non importa se, in fondo, non siste quel qualcosa.

Vedo le persone che amo cresciute e un po’ più tristi. Non tutti, ma quasi tutti.

Mi piace anche vedere persone che si rimboccano le maniche e provano a far qualcosa per esser più felici.

In questa città ci vuole coraggio, a far questo.

Per chi fosse in ambasce (!) a proposito della mia storia con Biancaneve, siamo ancora qui, tenendoci per mano e nascondendo la stretta con il cappotto. almeno per ora. Ed è molto bello così com’è.

C’è stata un po’ di devastazione, nella mia vita, in quest’ultimo periodo. Niente di irreparabile, molto di incomprensibile, qualcosa di evitabile.

Di rimarchevole c’è che sto entrando in menopausa.

Posso assicurare che la quantità di vampate che costellano la mia giornata è al di là dell’umana sopportazione. Dovrebbero avvertirti che funziona così. Sono esausta. La stronza, la vampata, parte all’improvviso anche se ci sono -7 gradi centigradi e ti ricopre di sudore ogni millimetro di pelle manco stessi in kenia a mezzogiorno. Oltre questo, non ci si può esimere dall’autocommento, a quanto pare: “fa caldo eh?” o dalla domanda retorica: “ma fa caldo?”, mentre intorno vedi gente con i paraorecchie e i ghiaccioli al naso e tu ti sei levata anche gli orecchini.

Dal parrucchiere, sottoposta alla tortura di guardarmi allo specchio per 60 minuti ininterrotti, ho avuto vari ed eventuali pensieri: sono invecchiata e ne sono perfettamente consapevole; mi riconosco più ora, guardandomi, che 5 anni fa, vado a farmi i capelli dallo stesso parrucchiere da 35 anni. Dal menarca alla menopausa. Mica pizze e fichi. In compenso mi sono spariti gran parte dei capelli bianchi. Miracolo di Biancaneve? Mah, i fitti misteri della vita. 

Non so ancora bene come prendere questa faccenda. In fondo non è niente altro che la fine di un ciclo di fertilità che eterno, giustamente, non può essere. Ma, in qualche modo, coinvolge e travolge ben altro. In fondo quella settimana di lamentazione a cadenza mensile, quelle maledizioni in cirillico che per anni e anni si affinano e si rivolgono alla propria manifestazione di rigenerazione e capacità di riproduzione e quell’argomento di discussione tra femmine (“ti sono venute?” manco fossero un parente autraliano in visita di cortesia) e di ambivalente ansia (“ho un ritardo”, come fosse un treno della ferrovia elvetica e senza mai che si riesca a capire, alla prima affermazione, se si è contentissime o incazzatissime), quando non ci sono mancano. Come una amica di una vita che all’improvviso non si fa più vedere né sentire. Preoccupa e intristisce.

Il commento del pater, sempre lapidario e pragmatico è stato “vabbè, tanto che te ne fai?”.

Come sarebbe “che me ne faccio”? non lo so cosa me ne faccio, non me ne devo fare qualcosa, che cazzo di commento è? Comunque, ne dovrò venire a capo e, d’altra parte, i prossimi rush ormonali non saranno cazzi miei ma di chi li dovrà subire.

Attenti voi…

Paese di merda

Soundtrack: andatevi a risentire Fuck you di Lily Allen che ci sta benissimo

Volevo scrivere un post “Etero e Lesbiche III”. Per ridere un po’ sugli stereotipi e sui reciproci pregiudizi.

Volevo anche chiarire che i post precedenti non riguardano la mia storia con Biancaneve, ma una serie di questioni sorte tra me e due persone alle quali voglio bene.

Volevo sottolineare che, a parte questo, è un periodo che le voci inutili sulla relazione tra Biancaneve e me si sprecano e si espandono come H1N1.

“non pensi che forse tu possa aver incontrato una persona che risponde ai tuoi bisogni e quindi ti sei lasciata andare?” – le dicono – “e non è quello che succede quando ci si innamora?” risponde Biancaneve.

“Sai, le persone omosessuali tendono ad affermare la propria personalità con forza, non è che lei ti sta facendo credere qualcosa che non è e ti manipola e soggioga?” – le dicono – “Com’è che non sono l’amministratore unico della Nestlé se ho tutto questo potere alla Jean Grey Summers detta Fenice?” rispondo io. “E com’è che tutti pensano che io sia fatta di didò?” risponde lei.

Bypassando quello che dicono a me.

E queste sono le questioni personali che, comunque, non sono tanto dissimili dalle questioni generali di questo periodo.

Il trend è questo, bisogna prenderne atto.

Leggete qui, qui e qui, tanto per farvi una cultura tutta italiana.

Il ragazzo (uomo, direi) che hanno aggredito qualche giorno fa qui a Roma, è un mio vecchio amico di Napoli. persona che non vedo da secoli, ma che ho a lungo frequentato. E questa è una nota a margine.

Il fatto è che oggi, la classe politica italiana, con la “sinistra” in testa, ha deciso di sdoganare definitivamente il “sfragnamo i finocchi”. Come da richiesta popolare, evidentemente.

Io non voglio scendere sul piano del vittimismo omosessuale, non voglio lamentarmi, non voglio farne un caso particolare e specifico.

Vorrei che fosse chiaro, per tutti, che è da questo che parte il fascismo del pensiero, la filosofia della prevaricazione, la chiusura mentale e culturale, l’involuzione totale, il libero circolare di stereotipi e pregiudizi che impedisce, da oggi, che si possa alzare anche una sola voce aperta e limpida.

E’ così che si mettono i punti base per stabilire che la diversità è un delitto sociale e, come tale va punita.

Cominciare dagli omosessuali è più semplice, persino più semplice che farlo con gli zingari o gli ebrei.

E’ evidente e chiaro di per sé.

Il governo italiano ha detto, stasera: quello che vi fa paura, quello che non vi piace, quello che vi da fastidio, potete prenderlo a randellate.

A me fa paura.

Fa paura perché sono lesbica, ebrea, donna, logopedista, socialista, in pre-menopausa, terrona, senza figli e non mi trucco (però, almeno, mi depilo).

Questo paese sostiene, con voce ferma e chiara, che la mia vita non vale un cazzo di niente o, quantomeno, vale molto ma molto meno di quella di un maschio bianco etero qualsiasi o di una donna bianca etero con figli.

E quello, quell’è.

Al signor ratzinger è riuscito, in questi anni, di riportare questo paese molliccio e strafottente ad un fondamentalismo da medio evo.

Qui pareva brutto imporre il foulard alle signore e costringerle a restare a casa.

Ma ridurre gli omosessuali a “nemico della società”, questo si poteva fare. E si è fatto.

Se io fossi stata un uomo, le persone che sono intorno alla donna che mi ama avrebbero passato il tempo al telefono o al bar a parlare di quanti peli ho sul petto, di come scopo e di quanto è stata fortunata ad innamorarsi a 40 anni. E ad innamorarsi di qualcuno che ama lei e le da esattamente quello che vuole.

Ma sono una donna e passo il tempo a preoccuparmi di proteggere Biancaneve ed il nostro rapporto, senza sapere come fare.

E la mia sgradevole sensazione di chiusura, sensazione che mi governa, in questi giorni, ascoltando le voci di persone medie e qualsiasi che invece di farsi i cazzi propri cercano di imporre una opinione fatta di chiacchiere senza basi e costrutto e senza ritenere di doversi prima informare, conoscere, vivere, è una sensazione che credo di condividere con molti altri omosessuali come me.

Ovviamente non perché stanno tutti con Bancaneve, spero bene.

 

Non ho l’età

La_salsa

Soundtrack: Israel Kamakawiwo’ole – Somewhere Over The Rainbow/What A Wonderful World

Ho dormito due ore e 45 minuti, stanotte.

Ballato la salsa, che mi vergogno a dirlo. Odio la salsa e odio i balli di gruppo. No, ad essere precisi, mi vergogno. Come una foca tetraparetica.

Non ho più la tempra per reggere.

Non mi regge.

Non riesco poi a lavorare e mi trasformo, invariabilmente, in una bambina capricciosa di età variabile tra i 5 anni e i 7 (appena compiuti).

Ne fa le spese Biancaneve.

E non dovrebbe essere così.

Se voi poteste vedere, la fierezza negli occhi che ha e la sua fatica orgogliosa e serena.

Se tutti riuscissero a vedere la libertà che ha dentro e nelle mani, che ha nelle parole e nei fatti, negli affetti e nelle carezze.

Se io non chiudessi gli occhi (e non solo quando mi cala la palpebra) di tanto in tanto, vedrei quell’espressione da impunita che rivolge a me, e la scritta in sovraimpressione che dice “embé, ho scelto te, il resto non conta”.

E smetterei di metter su quei siparietti di drammatizzazione che, evidentemente, mi piacciono tanto.

Se qualcuno vedesse gli sguardi, l’energia, il calore, la potenza.

Sono una nana, una nana dentro e fuori.

Non ce la faccio, a volte (miii, che autoindulgenza), a contenere tutto quello che mi arriva da lei.

Istinti primari, i miei. Sento dolore: mordo.

E non è lei che mi procura dolore. Ma i denti scattano e si chiudono sulla sua mano.

Mi procurano dolore una gran quantità di cose che, di fatto, non le appartengono.

Gli stereotipi, mi fanno male.

La donna che sceglie diventa una zoccola isterica e torturatrice, l’uomo che non sceglie un tenero senzapalle castrato che cerca di far ragionare la virago, porello, ma nulla può contro la potenza della lussuria femminile.

Il matrimonio che da libera scelta d’affetto e ottimismo e fiducia, diventa un contratto pieno di postille, un luogo non virtuale dove rovesciare il peggio di sé e soprattutto, una buona scusa per sparare giudizi inutili e pesanti.

Sempre sulla donna, ovviamente.

In questo paese non c’è il burqa, non è necessario. Siamo oltre. Qualsiasi donna sia in grado di affermare scelte e personalità, quali che siano, è una fottutissima zoccola posseduta dal demonio e cattiva dentro.

Nel 2009.

Oggi ascoltavo lo psicologo del mio centro, quello fattone (che poi non è vero, ma sembra un fattone preciso preciso) e impazzivo di rabbia.

E dolore.

Si parlava di uomini senzapalle.

Strana caratteristica tipicamente maschile, questa delle palle retrattili.

Vengono fuori pure all’ultimo dei coglioni quando si tratta di minacciare, prevaricare ed esercitare potere su chi non può o vuole reagire.

Poi “sciuap”, si nascondono e diventano introvabili di fronte a fatti da risolvere, persone che hanno cose da dire e da rispondere, situazioni complesse, critiche, richieste di cambiamento.

Il mio capo è un senza palle, poverino.

Poverino un cazzo. E’ un coglione strafottente e presuntuoso. I testicoli non c’entrano una mazza.

Il marito della signora con l’amante (e quindi zoccola) e isterica (perché si vuole separare) è un senza palle. Lui ci prova a parlare con la moglie, ma lei è una stronza che non vuole parlare. E lui è ancora lì, a casa con una che lo schifa. Non schioda.

A me non fa tenerezza, fa rabbia. E le palle non sono in discussione. E’ in discussione la capacità di riprendere in mano la propria vita, quella di affrontare un dolore, il rispetto per le scelte di una donna, la considerazione per le emozioni, di una donna, l’onestà intellettuale di accettare la chiusura di un “progetto” senza dover per forza dare la colpa a qualcuno. E, porca puttana, se lei non ha più niente da dirgli, che cazzo deve “parlare”, ancora?

Allora anche io sono stata una senza palle. Lo sono stata quando ho spaccato i coglioni a chiunque sulla colpevolezza e sulla stronzaggine e sulla zoccolaggine della mia “ex” pur di non ammettere che il progetto non aveva funzionato, pur di non dover affrontare il dolore di tornare nella mia vita, una vita che non c’era. Da riscostruire. Con tutta la paura e l’insicurezza che comporta. Non era questione di palle, ma di comodità, vigliaccheria e disonestà.

Di nuovo, mi accorgo che i miei post stanno diventando confusi e inzeppati di cose dette e non dette, mescolate che neanche un minestrone findus.

Ricapitolando, mi hanno rotto il cazzo questi stereotipi che pretendono di governare la vita della gente in generale, e delle donne in particolare. Mi hanno rotto il cazzo i giudizi non richiesti, l’assenza di rispetto per l’altrui sentire, il non ascolto, l’orgoglio a cazzo di cane. Mi hanno rotto il cazzo quelli che, su queste basi, rendono la vita spinosa a Biancaneve. Mi hanno rotto il cazzo ma non posso fare niente. Non sono wonder woman, non ho i superpoteri e non sono la Fenice degli X-men che può controllare altrui pensieri e azioni.

Poi avevo pure dormito troppo poco.

Ma a me Biancaneve non basta mai. Vederla andar via perché deve, mi svampa i neuroni e mi attorciglia l’anima.

Pazienza, ci vuol pazienza.

Con una nana in terza età, isterica e manco zoccola. Come me.

Domande epocali e cotolette impanate

barnbuddy

Soundtrack: Lily Allen Fuck You (ormai c’è)

Qualcuno di voi sa dirmi il titolo di quella canzone di De André che parla di un tipo al quale una donna chiede il cuore di sua madre?

Mi frulla in testa da un paio di giorni ma il neurone del titolo non si attiva.

In secondo luogo ci tengo, ma proprio ci tengo, a specificare che il post precedente è stato tolto dopo una difficile notte passata battendo i denti e cercando di riscaldare il sangue nelle vene raggelato dall’immane spavento provocato dalla muscolare dimostrazione avuta su codesto blog.

Detto questo, passiamo alle domande epocali che mi attanagliano da qualche giorno e che mi innervosiscono non poco.

Quanto riusciamo ad affermare noi stessi in quanto tali e con le nostre sole forze e quanto ce lo permettono gli altri per gentilezza, pigrizia, opportunità, strafottenza, affetto?

Quanto ci si può fidare di qualcuno che è disponibile a fare ogni genere di favore ma non ad accettarlo, se non nella misura in cui (tiè, una botta anni 70) è una restituzione di un già dato?

Quanto è corretto imporre una scelta a qualcuno?

L’immagine che noi abbiamo di un altro, quanto è simile a quella che l’altro ha di sé?

Quando si chiede di scegliere, si considera, realmente, tra cosa e cosa, ovvero, si considera il significato della scelta per la persona cui lo si chiede o si valuta solo il peso che ha per chi lo ha chiesto?

Si può essere contenti di aver ottenuto qualcosa che neanche ti appartiene del tutto, attraverso la mediazione di altri?

Perché è così necessario minacciare e alzare la voce durante una discussione?

Perché le discussioni (o questioni, o litigi, o confronti, a seconda) diventano prove di forza?

Perché mi guardo intorno e non mi fido più di nessuno?

Quanto incide, nella vita, il tempo da perdere per far diventare le questioni smisurate e sovradimensionate?

Quanto incide, nella vita, essere troppo impegnati per considerare talune questioni poco più che strunzate pretestuose?

E se per chi ha tempo da perdere sono importanti, è poi giusto non vederne il peso?

E quanto è corretto tenersi fuori guardando da lontano come se il fatto non fosse il proprio?

Qualcuno ha detto che gli amici si vedono, realmente, nei momenti belli e positivi, perché son pochi quelli che riescono a sostenerne il peso. E’ vero?

Biancaneve dice che son brava a “ridefinire”. E allora perché mi resta un campanello luminoso rosso acceso di allarme e una “ridefinizione” non mi esce manco sotto meditazione trascendentale?

Ma davvero io penso con la testa mia o è sufficiente che l’operatore ecologico che mi sfranta i coglioni alle 7 di mattina del sabato con lo sputatore d’aria per foglie secche sotto casa mia mi dica la qualunque per convincermi che il cielo è marrone?

Ha poi importanza che a quello che mi sono costruita in questi due anni potrei tranquillamente rinunciare?

Quanto poco siamo abituati a sentirci dire le cose in modo diretto e inequivocabile?

Quanto siamo bravi a costruirci un mondo fatto a misura sartoriale per non mettere in discussione le parti di noi che proprio ci da fastidio mettere in discussione?

Ma l’ironia, è un’arma?

Sono vendicativa?

Da dove arriva questo senso di delusione profonda e di svalutazione delle mie capacità di relazione e di individuazione dei nuclei di personalità?

Quanti di noi hanno il coraggio di definirsi “narcisisti” e di addossarsene il peso?

Perché ho la sensazione di essere stata impanata e fritta perbenino come una cotoletta di pollo del macdonald?

Su facebook c’è un giochino che si chiama Barn Buddy. Hai la fattoria e ci pianti gli ortaggi. Gli altri possono venire nel tuo campo e annaffiare. Ma, anche, rubare il tuo raccolto ormai maturo e mettere erbacce e bugs su quello non ancora pronto, per impedirne la crescita.

Annaffiare, rubare, impedire la crescita.

Ognuno fa quello che può.

E quello che sa.