16 anni

Facebook è una fogna, si sa. E i commenti sotto ai post che parlano dei festini a base di coca e sesso con minorenni ne sono la prova assoluta. Son sempre le ragazzine, le vere colpevoli: prostitute consapevoli, autodeterminate e provocatorie. E mi chiedo, ogni volta: ma questi commentatori seriali se li ricordano i loro sedici anni?

Perché io, invece, me li ricordo benissimo.

Avevo 16 anni nel 1979 (vi allego top chart dell’anno per chiarire che anche la mia generazione ha ascoltato musica demmerda:

https://www.musicoutfitters.com/topsongs/1979.htm .

Erano anni furiosi e feroci, quelli: politica, droga, mazzate, sesso, camperos, kefiah, terrorismo, Khomeini, Thatcher, rapimenti, Il cacciatore, Fuga di mezzanotte, Sinfonia di autunno, I nuovi Mostri, i cineforum con discussione, le borse di tolfa, l’eskimo, naj oleari, le magliette con le scritte, i gruppi di autocoscienza femminista, il punk, le occupazioni e le assemblee.

Nella mia scuola c’era un movimento che si chiamava S.OH.S: Sovversione oh Sovversione.

Uno spaventoso minestrone bollente nel quale entravi per essere frullata senza pietà. Io ero una ragazzina inquieta, indefinita, in guerra con la mia omosentimentalità. Cercavo di essere comunista e mi sentivo una socialdemocratica. Bevevo birra di mattina, fumavo sigarette e canne come uno scaricatore di porto turco e soffrivo di crisi di panico. Volevo i piccadilly o gli el charro o i jeans fiorucci, ma non avevo una lira e i miei non me li volevano comprare (col senno di poi avevano pure ragione). Cercavo di essere etero e mi massacravo di sesso insensato e indesiderato con ragazzi qualsiasi.

Avevo bisogno, fin nelle unghie dei piedi, di essere riconosciuta come uguale, normale, alternativamente omologata.

Trovai varie soluzioni:

  • sperimentare la mia sessualità a qualunque costo (se ripenso alle mie prime esperienze, malgrado io non abbia mai detto di no a nessuno, le sentivo come stupri, ogni singola volta), senza lamentarmi e con lo spirito di una anatomopatologa;
  • metter da parte i soldi del biglietto dell’autobus che mi davano la mattina, 100 lire per il biglietto andata e ritorno, scroccare merende, canne, birre e sigarette MS comprate sfuse al chiosco sotto scuola (ma anche Kim, Marlboro oro e Muratti sottratte a matrigne, zie e nonne) e ottenere le 14.000 lire necessarie per comprare i piccadilly pezzotti grigi.

Fame di riconoscimento, di prove di esistenza, di appartenenza. Ditemi che mi vedete, che sono qui davanti a voi e mi vedete, riconoscete, accettate, stimate.

E se in quella nebbia solida qualcuno mi avesse proposto di prostituirmi per ottenere quello che volevo, lo avrei fatto?

Forse sì. Avrei potuto. Non l’avrei sentita come prostituzione, ma come uno scambio, uno scambio per ottenere quello di cui avevo bisogno. O di cui credevo di avere bisogno. Non solo soldi per comprare i simboli necessari alla mia omologazione, ma anche e soprattutto per diventare qualcuno, sentirmi qualcuno.

Ma non ne ho avuto l’occasione, Immagino sia stata solo fortuna, considerando che in quegli anni era attivo un fiorente giro nell’albergo davanti al mio liceo, con baristi coinvolti e studentesse dai cognomi altisonanti.

Ho avuto amici che mi hanno salvato la vita in tante di quelle occasioni, che non sarò mai capace di dimostrar loro la gratitudine che si meritano.

Quest’è.

I mostri, i cani, i gatti, il sonno

Il Mostro della mia pubertà ed adolescenza era il rimanere da sola in casa.

Ne ero terrorizzata fino allo sfinimento. Soprattutto in estate.

Inventavo ogni genere di implausibili scuse per scappare di casa, la notte e non restare sola, neanche per un’ora.

Una volta ho costretto il mio cane (Sara, un groenlander nano di rara saggezza) ad uscire dalla porta e scendere in paese per poterla inseguire e fingere di recuperarla.

Avevo bisogno di luci accese, radio accese e quando anche l’altoparlante della stazione di Mergellina smetteva di annunciare treni, mi saliva un’ansia dietro le sopracciglia che mi bloccava la mascella.

Intorno ai 25 anni (un tempo infinitamente lungo per decidermi) ho stabilito che questa cosa doveva finire. Sono andata alla casa estiva, a Positano, da sola, per una settimana.

O sopravvivo o muoio, non c’è terza via.

Un inferno.

I primi giorni non ho dormito o mi sono addormentata in terrazza. I rumori ovattati, gli strilli improvvisi dei motori, il vociare che di affievoliva fino a sparire. Il buio e la risacca, il silenzio e l’odore di sale e umidità.

Una notte di disperazione e terrore scesi in spiaggia.

I ristoranti chiusi, la gente a casa, il molo deserto, gli stabilimenti vuoti e un guardiano che mi caccia via. Non è stata una bella idea.

Per niente.

Mi sono seduta su quella bastardissima ghiaia spuntuta che componeva la spiaggia, mi sono appoggiata alla chiglia di una barca e ho iniziato, ovviamente, a piangere.

Piangevo quella sensazione disperante di essere l’unica sveglia al mondo, l’unica viva in un mondo morto, sola da ora e per sempre in una terra deserta. Piangevo la sconfitta che mi costringeva ad aspettare la luce dell’alba per sentirmi al sicuro. Piangevo il fallimento del mio tentativo di trasformarmi in una persona normale, che va a letto, spegne la luce e dorme. Insomma, mi piangevo addosso.

È arrivato un cane nero e grosso. Uno di quelli che crescevano in paese senza avere un vero padrone ma cane di tutti. Cane di paese.

Si è accucciato di fianco a me e mi ha fatto compagnia fino all’alba.

Abbiamo guardato insieme l’orizzonte cambiare colore, sentito quel momento di freddo freddissimo prima dell’arrivo del sole.

È andato via e io mi sono incamminata verso casa per andare a dormire, con la luce, finalmente.

Mi sono impegnata molto per andare oltre il terrore e l’angoscia. Davvero molto.

Mi addormento ancora con la tv accesa e raramente prima dell’una di notte.

E, comunque, ho un gatto. Da almeno trent’anni.

Il mare e il corpo

Oggi dovrei andare al mare. Per la prima volta quest’anno.

È un momento sempre difficile. Il rapporto con il mare e il costume ha una serie di variabili che cambiano, spesso involvendo, di anno in anno.

Prima di tutto, sono una ragazza del sud, ho il mio mare dentro. Ho le mie profondità interiorizzate, i colori, le poseidonie, gli scogli, il sapore del sale forte e bruciante.

Andare al mare da queste parti, di conseguenza, ha un che di avvilente. Acque torbide, quasi dolci, nessuna profondità e il blu ed il verde sono chimere. Ti devi accontentare del marroncino terra di Siena e ocra gialla.

Già così, si fa fatica.

Ma poi c’è il corpo. Il CORPO. Quale? Questo qui non è il mio, non so di chi è e da dove sia venuto. Mi fa fatica portarlo in giro e renderlo visibile.

Succede una mattina: vai allo specchio per lavarti la faccia – sono una selvaggia, uso il sapone – e vedi una perfetta sconosciuta.

Un bulldog con la barba, un papavero spampanato, un alieno grigio con le macchie e l’espressione di un pugile suonato. Ma chi cazzo sei?

E le forme? Da dove vengono? Dove sono finite le fasce muscolari? Quando sono sparite? E sta panza demmerda?

Per una cui dicevano, fino a pochi anni fa, che avrebbe potuto fare pubblicità alle creme per il viso, è un trauma

E il tempo improvvisamente si divide un prima e dopo: quando eri tu e quando un ultracorpo prende possesso di te.

Che poi, per ognuna/o di noi esiste una età ed una immagine di sé ferma nello spazio e nel tempo, un qualche momento di “gloria” fisica, mentale e sociale. Ed è quella faccia e quel corpo che ti aspetti di vedere allo specchio la mattina. Quella, non questa qui. Quella.

Un vecchio nemico di famiglia chiamava tutto questo: “il complesso del verme”. Ma, all’epoca durava un giorno, adesso tutti i giorni tutto il giorno.

Leggere

Ho 10 anni.

Non lo so se sono intelligente.

Mi porto piccolo, lo vedo. Tutti gli altri lì sono più alti e più grossi di me.

Ma sono fighetto.

Non so neanche cosa vogliono tutti da me.

Eppure sono stato bravo. Sono stato bravo in prima e in seconda a non far capire a nessuno che non riuscivo a leggere neanche una singola lettera. Metterne due insieme non sapevo neanche si potesse fare.

I segni neri sul foglio.

Fossero padelle o pagode o brontosauri o pesci o maniglie, avrei saputo distinguerli uno dall’altro.

Ma sono segni.

E dovevo trasformarli in suoni. E metterli insieme. minimo 4. E poi sentirlo. No uno per uno, tutti insieme. E io manco mi ricordavo il primo che segno era e che suono aveva. E se per magia li mettevo insieme, dovevo farli diventare una parola. Che ha un significato, che dovevo conoscere, sennò a che serve?

Ci hanno messo due anni a scoprirmi.

E non hanno più smesso di chiedermi di farlo. Di leggere. Sempre. Tutto.

Dicono che leggere è bello. Ho dieci anni, non mi è permesso dire parolacce. Non si dicono le parolacce.

Ma si leggono segni che non si capiscono. Tutti lo fanno. Tutti son capaci.

Tranne me.

Ma sono forte e intelligente. E allora perché non so raccontare una storia? perché non capisco quello che leggo? perché non imparo a leggere più veloce?

Mi hanno detto che sono dislessico. Ma io sono stupido.

Lo vedo negli occhi di papà quando mi ascolta mentre leggo. E lo vedo nella mascella di mamma che si contrae e si indurisce quando non capisco. Non mi vogliono così. Pensano che non me ne accorgo.

Leggere vuol dire molte cose, mi pare di capire. Si legge per imparare – e io non imparo -, si legge per piacere – e a me non fa piacere -, si legge tra le righe – e io non vedo le righe -, si legge una persona – e io non son capace -. Non sono come tutti gli altri, non sono niente.

Non sono abbastanza. Ci provo, ci provo e ci piango, mi ci addormento, mi ci viene il mal di pancia. Non funziona.

Non sono niente.

Mi hanno portato in un posto assurdo. Ho avuto paura. Tanta paura. Non lo so cosa volevano da me.

Ma mi hanno fatto leggere. E io non lo so fare. E ci ho provato a scappare e anche a dire bugie. Ci ho provato a far vedere che sono fighetto, che so tuffarmi dalla montagna, che so stare sott’acqua due ore senza respirare, che so saltare fino al secondo piano. Ma loro mi hanno fatto leggere e mi hanno detto che sono lento. Che non lo so fare. Che sono dislessico.

Io non sono dislessico.

Io non sono niente.

Il mio papà grida e diventa rosso quando facciamo i compiti insieme. Gli hanno detto di smettere di fare i compiti con me.

La mia mamma a volte piange, quando non capisco. Si nasconde, ma la vedo. Io la vedo. Io voglio essere come vuole lei, io voglio essere come vuole papà, io voglio essere il figlio che vogliono, io ci provo fino a spaccarmi la testa sui libri.

Ma io non ci riesco.

Adesso faccio i compiti con mia cugina. Hanno mandato via due persone perché loro mi leggevano i compiti del libro che dovevo imparare. Mamma e papà dicono che sono un paravento e sono pigro.

Io sono stanco. Sono molto stanco. E non ho ancora dieci anni.

Vado quattro volte alla settimana in quel posto assurdo, pieno di bambini piccoli e bambini strani. Alcuni stupidi. Altri brutti. Altri cattivi.

Mi ci sono abituato.

La mia logopedista dice che qui ci vengono i bambini che hanno bisogno di qualcosa, bisogno di aiuto.

Io non ho bisogno di aiuto. Sono forte io.

Sono tre anni che lavoro. Mi hanno fatto fare delle cose strane, che non capisco. Alcune noiose a morte. Alcune da ripetere e ripetere e ripetere.

Sono stanco.

Sono dislessico.

Non so leggere. Dicono che anche a scrivere va male. Allora io scrivo piccolo piccolo piccolo così nessuno ci capisce niente e non mi possono dire che scrivo pure male. Poi mi hanno detto anche che non so raccontare le storie. Mi danno le mappe. Ma non riesco a ricordare tutto. Non mi posso ricordare tutto. Non ho tempo. Devo guardarmi intorno e carcare di capire negli occhi e nelle facce degli altri cosa vogliono da me, devo guardare le labbra delle persone per vedere quando dicono la prima lettera della parola che mi serve, devo ascoltare chi mi suggerisce e devo calmare i tic che mi fanno spaccare le labbra. Io non posso fare tutte queste cose insieme, sono stanco.

La mia logopedista dice che anche tutto questo è leggere e che, quindi, io so leggere.

Mi fanno lavorare con altri bambini come me.

Allora non sono l’unico niente.

Con quelli come si impara la pazienza e si impara a capire. Che il mondo non è finito qui.

Con quelli come me impariamo a capirci. E se ci diciamo che siamo scemi, è diverso. Con quelli come me, io mi sento meglio.

Poi la mia logopedista non mi fa più leggere. Ha detto che ci sono altre cose da fare nella vita. E ha detto che io non sono stupido. Ma non le credo. Lo vedo con chi lavora, qui dentro.

Mi hanno fatto fare strani giochi che non ho capito per un po’. Guardarsi in faccia per capirsi, provare a dire quello che penso, dare un nome alle cose che sento, dire di che cosa sono arrabbiato. Non ero arrabbiato. Però forse sì. Ma non lo posso dire. Non si dice quello che c’è nella mia testa. Potrebbe fare male a qualcuno. Qui dicono che si può dire. Ma non mi faccio fregare e mica dico tutto.

Adesso devo andare in prima media. Ho una paura gigantesca. nelle ginocchia e nella testa. Mi scoppia la testa dalla paura. Mi dicono che sarà diverso e più difficile, che sarà tutto nuovo e nessuno mi conosce e poi mi dicono che è una bella cosa. No, io non sono stupido, non più, e ho paura e da qui non me ne voglio andare.

Ho imparato che sono dislessico, che questo non fa piacere a mamma e papà a che loro devono imparare che io sono così, che a scuola devo avere cose diverse dagli altri. E sarà pure figo usare il computer a scuola, ma se lo uso solo io vuol dire che non sono uguale agli altri. Ho imparato che in questa classe le maestre fanno le cose apposta per me, lì dove devo andare non lo so. Ho imparato che per stare a scuola devo avere una maestra mia, la logopedista, l’aiuto per i compiti, le schede speciali, il computer, la calcolatrice, la riduzione dei compiti e che le verifiche così le faccio solo io e un altro bambino che non parla nemmeno. Ma come ci vado così in prima media?

Io non so più niente e ho solo paura.

La mia logopedista dice che va bene così, che così mi devo sentire. Che il mondo è costruito intorno alla lettura e io devo trovare il modo per sfangarla. Lei dice che leggere le persone è la prima cosa e che saper ascoltare  stare attento la seconda. Che devo essere forte come un dinosauro e coraggioso come un leopardo. Dice che se so cosa non so fare posso impegnarmi a capire cosa so fare. E che così mi stanco di meno.

Io ho 10 anni e sono stanco. Ma sono un bambino e ci credo a quello che dite voi grandi. Tanto in prima media mi ci manderete anche se piango e vomito e mi faccio venire l’herpes. Mi ci manderete tutti i giorni anche se non capisco e non riesco e ci provo. Mi ci manderete lo stesso.

E se non ci riesco lo stesso?

La mia logopedista dice che, in questo caso, sono autorizzato a menà.