La giornata della memoria – the week after

 

Soundtrack:

Ovviamente ero distratta.

Ovviamente, come ogni bravo italiano medio, essendo presa dai cazzi miei, ho ignorato ogni genere di informazione proveniente dall’esterno.

Ovviamente non ho partecipato a ninguna manifestazione.

Ma, su questo, mi giustifico dietro un “abbiamo già dato”.

Ogni natale, per esempio, ogni compleanno dei miei paterni parenti, ogni volta che, per un qualche motivo, la mia parte di famiglia ebraica si è riunita sotto lo stesso tetto.

La memoria dell’olocausto, a casa mia, fa parte della formazione della personalità di ognuno di noi.

Spesso penso che gli ebrei della seconda parte del 900 hanno una caratteristica che li rende molto, molto diversi dalle generazioni precedenti.

Nessuno di loro crede più che conservare, tesaurizzare, progettare, programmare, prevedere, serva ad una mazza di niente.

Gli ebrei lo hanno sempre saputo, lo sanno e ce l’hanno inscritto nel DNA che nessun posto al mondo è un posto sicuro (tranne Israele, e la necessità di proteggerlo è tanto forte da giustificare qualunque orrore difensivo) e, per secoli, hanno imparato a viaggiare leggeri ma sostanziosi.

Poi, dopo i campi di concentramento, per chi ne è uscito e per chi l’ha sfangata, è stato chiaro che niente serve a niente. Niente è servito a un cazzo di niente.

Magari è una visione un po’ semplicistica, ma è esattamente l’imprinting della mia famiglia.

Conservo la Gazzetta Ufficiale del 1939, quella che definiva in legge e comma l’inferiorità della “razza ebraica” e ne giustificava l’annullamento sociale ed economico.

Conservo una lettera disperata di una impiegata della banca dalla quale fu cacciato mio nonno, perché ebreo.

Conservo la laurea di mio nonno, con la scritta “DI RAZZA EBRAICA” giusto sotto al suo nome e cognome. Per impedirgli di usarla, credo.

E conosco la rabbia di mio padre che, ancora oggi, a 70 anni di distanza, sogna di essere cacciato dalla squadra di atletica della scuola (lui, il più bravo) e, altre volte, urla di notte mentre scappa dai tedeschi che lo cercano.

Ho perso le carte di identità contraffatte, con il cognome cambiato.

Ho visto mio nonno doversi battezzare di nuovo secondo il rito ebraico, da vecchio, perché durante le persecuzioni, per potersi nascondere in un convento con la sua famiglia, ha dovuto abiurare.

Certo, preti e suore hanno fatto quello che potevano, ma il piccolo obolo della conversione forzata se lo sono fatto pagare senza troppo stare a pensare che, più che altro, era un ricatto da usurai.

Gli italiani sono gente strana, alcuni li denunciavano senza pietà, anche quando ormai era chiaro che il destino di un ebreo in mano ai tedeschi era la morte. Altri offrivano tetto e cibo. Senza fare domande.

Mio nonno ha fatto scelte fortunate, in parte le ho già raccontate. Si è mosso per l’Italia in uno strano, discutibile modo, ma gli ha detto culo.

In toscana, a Siena, nel pieno della guerra e dei treni piombati, poi a Napoli, mentre arrivavano gli americani e sotto i bombardamenti.

E’ così che ha assicurato cibo alla moglie, due figli ed una suocera rompicoglioni, e la salvezza dai rastrellamenti finali delle truppe tedesche in risalita.

Nessuno di noi sa come riuscisse a guadagnare i soldi necessari per gli spostamenti. Tutti pagati. Dimenticavo di dire che c’era anche un’altra categoria di italiani, quelli che si facevano pagare, con abbondanza, le vie di fuga.

Non avevano niente e niente potevano avere.

Mi sono chiesta per anni perché mia nonna non avesse conservato quello che tutte le nonne mi pareva conservassero (tovaglie di pizzo, cianfrusaglie di inizio secolo), ma solo poche e strane cose. Lei mi rispondeva che erano cose inutili e le aveva gettate. Strano, detto da una che possedeva una scatola di ritagli di stoffa. Poi ho capito, o forse mia zia lo ha semplicemente detto, che avevano dovuto lasciare tutto. Tutto. Per viaggiare veloci, per essere pronti a scappare senza troppi pesi o pacchi da portare.

Perché non avevano diritto ad una casa, così diceva la legge. E nelle pensioni e nelle case che riuscivano ad abitare (tante, davvero tante che neanche se le ricordano tutte), prima o poi capitava qualcuno che faceva partire la denuncia, o passavano le camicie nere a controllare, o i tedeschi a deportare. La carta di identità ritoccata a mano dall’impiegato del comune di Roma compiacente non bastava. Bisognava scomparire.

Poi c’è l’ufficiale tedesco che portò via mio nonno per una rappresaglia, con tutti gli uomini del paese, e mio padre nascosto per non farsi vedere e le donne a piangere ed urlare. Ma i due tedeschi da vendicare non erano morti, erano solo scappati e, l’ufficiale, era un uomo d’onore. Gli uomini del paese tornarono a casa.

Com’è crescere sapendo che non hai il diritto di vivere?

Fuori dalle scuole, dalle case, dal lavoro.

Com’è vivere sapendo che sei un bersaglio umano?

Se ti riconoscono sei morto, se non ti fai riconoscere con la tua brava stella gialla cucita sul bavero, sei morto lo stesso. Se cerchi cibo, sei morto.

Com’è ritrovarsi in un mondo che non ti vuole o ti vuole morto o ti vuole umiliato e inutile?

Ebreo di merda, usuraio e taccagno, col naso affilato e le sopracciglia unite, con la tua lingua incomprensibile e il sabato ad oziare, senza la pasqua e senza il natale, tu che hai ucciso il nostro dio per avidità e per conservare il potere, che non vuoi condividere il nostro pane e la nostra carne. Ancora oggi, ancora oggi sento persone sparar cazzate sugli ebrei, senza accorgersi di aver bevuto la propaganda nazista antisemita con il latte della centrale. Gli hanno tolto la storia, agli ebrei, hanno coperto e nascosto le secolari porcate che gli sono state fatte e ancora esiste qualcuno che non si preoccupa di verificare, prima di sciorinare puttanate.

Per 10 anni di seguito. Giorno dopo giorno dopo giorno. Senza vie d’uscita.

Senza sapere se ce la farai.

Senza sapere se, dopo, le cose torneranno come prima.

Senza capire il perché.

La mia famiglia era ed è italiana, prima, vagamente e variegatamente religiosa, poi.

E come si fa a continuare a credere in Dio, dopo questo? Ma questa è un’altra storia.

La mia famiglia non è finita nei campi di concentramento e la memoria sono io.

E’ la memoria della sua metà ebraica a rimettere, ogni volta, Penelope in piedi. A ricordarle che, quando è nella merda, non le resta che nuotare e lasciarsi aiutare da chi ne è capace. La metà ebraica di Penelope le ha insegnato a viaggiare leggera, possedere poco, stabilizzarsi mai. Perché è così che funziona il mondo: cercare nemico, trovare nemico, eliminare nemico.

E il nemico è sempre quello che non è uguale.

E l’uguale non esiste.

Mazel tov

Di Madri, nonne e matrigne

NON HO TEMPO PER TROVARE L’IMMAGINE

Soundtrack: Forest for the trees Dreams

Ho un mal di schiena che la metà basta.

Troppo tempo stesa. Sono presa in un gorgo di pigrizia senza precedenti.

Oggi prendo la bicicletta, almeno mi muovo un po’.

Ieri ho cercato di mettere il post sul blog, ma c’è una fottuta incompatibilità tra la mia pennetta e il computer dell’internet point.

Oggi ci riprovo e vedremo se ci riesco.

Sempre ieri si ragionava, con mia sorella, su quello che proprio uno non ha in sé. Su quello che noi, branco familiare, non siamo in grado di dare.

Non si può cavar sangue da una rapa.

Quando si cresce con un imprinting tanto particolare, come quello di non avere una madre, si alza la soglia del dolore. Impari a sopravvivere e, se puoi sopravvivere a questo, puoi sopravvivere a tutto (e questo non l’ho detto io).

E quello che si posiziona, sulla scala del dolore e dei problemi, al di sotto di quella linea rossa, non conta un cazzo e basta. Cosa da niente è.

La maggior parte delle donne che ho avuto a fianco, ma non solo, sempre questo mi hanno obiettato: “per te valgono solo i tuoi, di problemi, il resto lo sminuisci e sottovaluti”.

E’ vero, è sempre stato vero. Dico spesso che in fondo le nostre sono piccole vite e che, inesorabilmente, ognuno ha la propria personalissima linea rossa a delimitare la soglia del dolore. E che per ognuno è spaventosamente alta.

Ma negli anni, una parte di me ha smesso di rispettare le altrui linee. Una parte di me ha semplicemente cominciato a pensare che chi non ha idea di cosa sia il vero dolore, vale poco o, quantomeno, ancora non ha avuto il benché minimo contatto con la realtà e con la vita. Bimbi col ciucciotto in bocca.

Non è bello. Non è giusto. Non mi ricordo quando ho cominciato a diventare così.

Appartengo ad un branco familiare matriarcale, donne soprattutto pratiche, dall’aria inesorabilmente anaffettiva perché, tutto sommato, non c’è tempo da perdere con le smancerie, i poverina e gli abbracci perditempo. Bisogna fare. Fare subito, entrare in un loop di iperattività da emergenza che sia pragmatico, razionale, potente e che non lasci spazio alle emozioni inutili (piangersi addosso, abbattersi, fermarsi, proteggersi). Camminare anzi, correre e non importa chi o cosa si travolge nella corsa.

Siamo fatte così da tre generazioni

Mia nonna, mater ebrea cellula per cellula, che ci ha cresciuto con costanza e ostinazione, non ha mai concepito pause e/o attese. Fare, muoversi, organizzare,  predisporre, correre, agire. Ma lei è stata anche capace di abbracci caldi e partecipativi, sapeva consolare e farti sentire unica al mondo nella sua attenzione, sapeva leggerti negli occhi il dolore o la sofferenza e sapeva come curarla. Aveva nelle mani il potere di sciogliere ogni nodo dell’anima individuandolo con precisione. Io questo non ce l’ho, e me ne dispiace. Mia nonna un giorno ha detto: “avrei preferito morisse tuo padre, mio figlio, invece di tua madre”. Una dichiarazione d’amore e comprensione, il coraggio di capire e di vedere gli strappi dell’anima uno per uno, la consapevolezza che portare un dolore da adulti è, comunque, più sopportabile.

Fantastica mia nonna.

Poi c’era la moglie di mio padre. Madre coraggio per suo il suo figlio bello e dannato, donna fattiva nel caricarsi addosso una famiglia che non la voleva e che l’ha osteggiata apertamente per oltre 30 anni. Senza tregua. Lei non era donna da perdere tempo. Ci ha educate, ci ha dato il suo. E il suo era: sii autonoma, aggredisci il dolore, sappi chiedere aiuto, non dipendere da nulla, non ti aspettare niente mai e tieniti strette le tue emozioni, che condividerle non è di questo mondo. Mai una carezza, mai un abbraccio, mai una parola di comprensione. Ma presenza costante e adeguata in ogni momento difficile con i suoi modi e i suoi mezzi (storico il suo presentarsi con una pillola di tavor e un bicchiere d’acqua mentre al telefono, a 19 anni, mi comunicavano della morte dell’amico Claudio). Fu lei a mediare per l’organizzazione del mio aborto, lei a parlare con me quando morirono Massimo e Gabriella, lei a sostenere la mia andata via di casa. Con una durezza adamantina certo, ma gliene sono grata, ora.

Mia nipote, che è ormai lontana dalla sua bisnonna “panzer” e dalla sua nonna acquisita “don’t panic”, paga l’assenza di rassicurazioni, lo sguardo severo sui suoi momenti di cedimento passivo, la mancanza di parole di compassione (nel senso letterale del termine), l’assenza di abbracci e di carezze da incoraggiamento. Cerca di barcamenarsi e sopravvivere ad una modalità di essere che non prevede sconti, pause, cadute senza risalite, perdite di tempo.

Sarà anche per questo che, almeno io, ho la tendenza a drammatizzare sempre tutto. Se le cose appaiono peggio di quel che sono, forse si riesce a rimediare un abbraccio caldo o uno sguardo di approvazione. Non c’è più nessuno che debba o possa fare questo per me, non è tempo e non è il caso, ma è una sensazione che non muore, una incoercibile tendenza bambina.

Anvedi questa immobilità fisica dove mi sta portando.

Se dovessi riuscire a pubblicare sul blog ‘sti pezzi, saranno cazzi di chi legge. Noia mortale.

Non dovrei ma so che lo farò.

P.S. Ieri, a Napoli, hanno arrestato un ginecologo che faceva aborti clandestini. E’ lo stesso del quale parlavo nel mio post sull’aborto. Lo hanno preso dopo 30 anni. Il suo collega si è beccato anche una accusa di molestie. Non è cambiato niente.

Irrequietezza

Soundtrack: Frédéric Chopin – Studio op.10 n.12 in Do minore “La Caduta Di Varsavia”

Stasera mi sento irrequieta.

Roma è deserta. Sono tornata in macchina da piazza di Spagna attraversando una città luccicante di pioggia sottile e bella da non credere. Mi sono persa piacevolmente in un gran numero di strade laterali che ho scelto di imboccare senza sapere dove sarei arrivata. E sono arrivata a casa. Comincio a sentirmi meno ospite e più “abitante” e ricordo le centinaia di notti passate in macchina in giro per Napoli, senza un posto dove andare ma molta voglia di non fermarmi.

E’ una sensazione potente.

Un paio di giorni fa, in macchina (bella, la mia macchina, un pezzo di casa è), la pennetta Mp3 ha rovesciato fuori dalle casse – tra i Prodigy e i Cure – la “caduta di Varsavia” di Chopin.

E io ho capito. Ho capito che quello che non mi torna mai, in qualsiasi versione di questa meraviglia io ascolti, quello che me lo fa sentire ogni volta “non esatto” e non completo, è la mancanza del rumore delle unghie di mia nonna sui tasti del pianoforte.

Ho ripetuto spesso che sono, fondamentalmente, rozza e ignorante. Ovvio quindi che la musica classica, generalmente mi annoi mortalmente. Ma Chopin è un’altra cosa. E “la caduta di Varsavia” è un’altra cosa.

Credo che le pareti del mio muscolo cardiaco siano foderate con gli spartiti di Chopin. E’ un pezzo della mia formazione affettiva.

Nel salotto di mia nonna, davanti ad una finestra aperta sul panorama di Posillipo, era steso un pianoforte a tre quarti di coda, nero, con tasti di ebano e avorio. Un Bösendorfer. Mia nonna lo apriva, ogni pomeriggio dopo le cinque – come da orario condominiale – e suonava per noi.

Ero piccola e chiedevo Chopin, chiedevo la Caduta di Varsavia perché, ogni volta, mi pareva che Varsavia cadesse sulla mia testa, come una pioggia di note perfettamente visibili e straordinariamente tangibili. Ben distinte, una per una, le conoscevo tutte, compagne di gioco dei miei pomeriggi a casa della nonna.

Sentire queste note, da bambina, seduta sotto la coda del pianoforte, guardando i piedi di mia nonna sui pedali (e quel rumore, ogni volta che un pedale veniva abbassato, di meccanismo e fili che si tirano), era una emozione che mi prendeva dalla testa ai piedi. Ogni singolo senso era compreso, avvolto, coinvolto, stravolto, stropicciato e, quindi, abbandonato, su quei quattro accordi finali che aspettavo e dei quali conoscevo il preciso tempo e momento.

Le unghie di mia nonna sui tasti e il “tic” dei pedali dalla strana forma, non ci sono mai nelle registrazioni ufficiali, e io non ne ho una sua.

Vedevo muri che crollavano, mattoni sbriciolati, polvere e dolore. Aspettavo le scale con un’ansia vicina al terrore, terrore dell’emozione che sarebbe arrivata e scivolata di lato, appoggiata sulle mani di mia nonna, agili e ferme, veloci e straordinarie. E il parkinson spariva sempre, quando suonava. Le dita lunghe, la pelle chiara, le macchie a milioni che ci ricordavano i suoi capelli rosso tiziano che noi non avevamo mai visto.

Gli occhi semichiusi, ad un tratto il movimento veloce della mano destra per girare la pagina dello spartito (ma era solo per abitudine, sono sicura che non lo leggesse affatto). Qualche volta l’onore di aspettare un suo gesto per essere io quella che girava la pagina, più veloce e silenziosa possibile. Precisa, sennò la magia si interrompeva.

E mi chiedevo ogni volta come fosse possibile emettere tanti suoni con sole 10 dita. E come fosse possibile arrivare al cuore e all’anima così direttamente, profondamente, irrevocabilmente.

Magia.

Quelle scale da brivido, troppo basse, troppo alte, troppo piene. le note tra i capelli, sugli occhi, nel naso. Soffocare di musica e guardare mia nonna mescolarsi con Chopin, con il pianoforte nero, con la mia gioia, con l’amore che provava per quello che stava facendo, per noi, per la vita.

Poi qualcosa nella musica si apriva e a me pareva il mare, parevano le onde, pareva un guardare la foschia dopo la battaglia di non so cosa. E fuggire e fermarsi e ripartire per morire.

Ha suonato finché ha potuto, malgrado il parkinson ed il glaucoma, un giorno ha cambiato il piano con uno Yamaha rosso, a mezza coda, corde incrociate. Io non volevo, mi pareva un abbandono, una perdita, un lutto. Niente più rumore di meccanismi che si muovono, niente più arpa nascosta nel pianoforte, sparito il terzo pedale, nessuna emozione nell’alzare quel copritasti nero e lucido e scoprire la scritta gotica dorata.

Ma lei diceva che era diventato impossibile accordarlo. Ci impazziva per quelle stonature incorreggibili.

Prima di andar via, mia nonna disse a mia sorella che, in quel pianoforte, lasciava la sua anima.

La mia amica B** lo ha suonato, quel pianoforte, e ha detto che la sua anima l’ha vista.

Mia nonna è nata ad Alessandria d’Egitto, sua madre era italiana e suo padre greco di Salonicco. Parlava 5 lingue ed era una regina.

Ma questa è un’altra storia.