MAD WORLD

Adoro i film catastrofici americani.

Mi mettono allegria e mi rilassano.

Li guardo pensando che, in fondo, è così tipicamente americano vedere il mondo in quel modo. Calvinisti fino al midollo e quindi sopravvive chi se lo merita, chi non fa compromessi e rimane duro e puro fino all’ultimo minuto del film.

Ed essere duri e puri prevede violenza, omicidi, abbandoni e scelte drastiche.

Eterni adolescenti: bianco o nero e nessuna sfumatura nel mezzo.

La cosa più importante è, comunque, avere una buona arma e un numero indefinito di pallottole.

Guardavo questi film pensando che no, il mondo umano non è davvero così, non si divide in buoni e cattivi, attivi e passivi, leader e gregari, è solo pellicola.

O forse no.

Questi giorni – che nella vita non mi aspettavo di vivere e vedere – sembrano dare ragione alle sceneggiature catastrofiste statunitensi.

Ci sono persone che cercano di fare i conti con l’incontrollabile, l’inaspettato, l’ingestibile e cercano di farlo con quel mix di raziocinio e ansia protettiva, paura e logica che aiuta ad accettare che esistano cose che non si possono controllare, che accadono e basta e bisogna imparare ad averci a che fare senza la possibilità di inventarsi cazzate.

E poi ci sono quelli che non ce la fanno, che devono costruire cazzate campate in aria per poter sopravvivere, Mutanti e mutati che teorizzano di nuovi ordini mondiali e fake news per tollerare la propria impotenza, per farsi capaci che non c’è nessuno cui sparare per risolvere il problema, che non esistono colpevoli.

Bellilli loro, campano meglio senza dubbio. Non hanno idea della fatica che ci vuole per ridimensionarsi, abbracciare l’impotenza e volersi bene lo stesso.

Suppongo che sia necessario essere centrati, solidi e adulti per accettare qualcosa che può solo essere subita. Per accettare la nostra mortalità, caducità, piccolezza. Dopo esserci illusi per decenni di avere tutto sotto controllo, di essere invulnerabili ed immortali.

Ieri era l’anniversario della morte di mia madre: 2 novembre 1969; sono passati 51 anni. Un tempo enorme. Tutto il tempo che mi ci è voluto per fare pace, per non avere più conti in sospeso, rabbia e persino dolore. Quest’anno per la prima volta ho capito cosa vuol dire avere qualcuno “dentro”, non avvertire più la perdita né il vuoto, ritrovarmi con la memoria del corpo finalmente in pace.

Non so bene come sia accaduto, credo un insieme di cose, compreso un lockdown passato in assoluta solitudine tra 40 metri quadri ed un terrazzo che mi ha salvato le giornate.

Mi sembra di aver compreso il senso del passare del tempo, la sua utilità e il senso di vita che ti dà.

Per un lungo periodo il tempo l’ho anticipato: non c’è cosa che io abbia fatto senza pensare a quando sarebbe finita o diventata una abitudine. Una strada nuova per un lavoro nuovo? Il pensiero dominante era: “quando diventerà una abitudine e non dovrò più stare attenta ad ogni cosa?”. Anticipare per annullare lo scorrere del tempo.

Nel lockdown ho imparato cose diverse: vivere il tempo. Faccenda incredibile. Ma non c’erano alternative e bisogna prendere il buono da quello che hai. Quindi impara a starci, esserci, tollerarne la lentezza o la velocità (dipende).

Insomma fattelo amico, il tempo, o potrebbe ucciderti.

16 anni

Facebook è una fogna, si sa. E i commenti sotto ai post che parlano dei festini a base di coca e sesso con minorenni ne sono la prova assoluta. Son sempre le ragazzine, le vere colpevoli: prostitute consapevoli, autodeterminate e provocatorie. E mi chiedo, ogni volta: ma questi commentatori seriali se li ricordano i loro sedici anni?

Perché io, invece, me li ricordo benissimo.

Avevo 16 anni nel 1979 (vi allego top chart dell’anno per chiarire che anche la mia generazione ha ascoltato musica demmerda:

https://www.musicoutfitters.com/topsongs/1979.htm .

Erano anni furiosi e feroci, quelli: politica, droga, mazzate, sesso, camperos, kefiah, terrorismo, Khomeini, Thatcher, rapimenti, Il cacciatore, Fuga di mezzanotte, Sinfonia di autunno, I nuovi Mostri, i cineforum con discussione, le borse di tolfa, l’eskimo, naj oleari, le magliette con le scritte, i gruppi di autocoscienza femminista, il punk, le occupazioni e le assemblee.

Nella mia scuola c’era un movimento che si chiamava S.OH.S: Sovversione oh Sovversione.

Uno spaventoso minestrone bollente nel quale entravi per essere frullata senza pietà. Io ero una ragazzina inquieta, indefinita, in guerra con la mia omosentimentalità. Cercavo di essere comunista e mi sentivo una socialdemocratica. Bevevo birra di mattina, fumavo sigarette e canne come uno scaricatore di porto turco e soffrivo di crisi di panico. Volevo i piccadilly o gli el charro o i jeans fiorucci, ma non avevo una lira e i miei non me li volevano comprare (col senno di poi avevano pure ragione). Cercavo di essere etero e mi massacravo di sesso insensato e indesiderato con ragazzi qualsiasi.

Avevo bisogno, fin nelle unghie dei piedi, di essere riconosciuta come uguale, normale, alternativamente omologata.

Trovai varie soluzioni:

  • sperimentare la mia sessualità a qualunque costo (se ripenso alle mie prime esperienze, malgrado io non abbia mai detto di no a nessuno, le sentivo come stupri, ogni singola volta), senza lamentarmi e con lo spirito di una anatomopatologa;
  • metter da parte i soldi del biglietto dell’autobus che mi davano la mattina, 100 lire per il biglietto andata e ritorno, scroccare merende, canne, birre e sigarette MS comprate sfuse al chiosco sotto scuola (ma anche Kim, Marlboro oro e Muratti sottratte a matrigne, zie e nonne) e ottenere le 14.000 lire necessarie per comprare i piccadilly pezzotti grigi.

Fame di riconoscimento, di prove di esistenza, di appartenenza. Ditemi che mi vedete, che sono qui davanti a voi e mi vedete, riconoscete, accettate, stimate.

E se in quella nebbia solida qualcuno mi avesse proposto di prostituirmi per ottenere quello che volevo, lo avrei fatto?

Forse sì. Avrei potuto. Non l’avrei sentita come prostituzione, ma come uno scambio, uno scambio per ottenere quello di cui avevo bisogno. O di cui credevo di avere bisogno. Non solo soldi per comprare i simboli necessari alla mia omologazione, ma anche e soprattutto per diventare qualcuno, sentirmi qualcuno.

Ma non ne ho avuto l’occasione, Immagino sia stata solo fortuna, considerando che in quegli anni era attivo un fiorente giro nell’albergo davanti al mio liceo, con baristi coinvolti e studentesse dai cognomi altisonanti.

Ho avuto amici che mi hanno salvato la vita in tante di quelle occasioni, che non sarò mai capace di dimostrar loro la gratitudine che si meritano.

Quest’è.

I mostri, i cani, i gatti, il sonno

Il Mostro della mia pubertà ed adolescenza era il rimanere da sola in casa.

Ne ero terrorizzata fino allo sfinimento. Soprattutto in estate.

Inventavo ogni genere di implausibili scuse per scappare di casa, la notte e non restare sola, neanche per un’ora.

Una volta ho costretto il mio cane (Sara, un groenlander nano di rara saggezza) ad uscire dalla porta e scendere in paese per poterla inseguire e fingere di recuperarla.

Avevo bisogno di luci accese, radio accese e quando anche l’altoparlante della stazione di Mergellina smetteva di annunciare treni, mi saliva un’ansia dietro le sopracciglia che mi bloccava la mascella.

Intorno ai 25 anni (un tempo infinitamente lungo per decidermi) ho stabilito che questa cosa doveva finire. Sono andata alla casa estiva, a Positano, da sola, per una settimana.

O sopravvivo o muoio, non c’è terza via.

Un inferno.

I primi giorni non ho dormito o mi sono addormentata in terrazza. I rumori ovattati, gli strilli improvvisi dei motori, il vociare che di affievoliva fino a sparire. Il buio e la risacca, il silenzio e l’odore di sale e umidità.

Una notte di disperazione e terrore scesi in spiaggia.

I ristoranti chiusi, la gente a casa, il molo deserto, gli stabilimenti vuoti e un guardiano che mi caccia via. Non è stata una bella idea.

Per niente.

Mi sono seduta su quella bastardissima ghiaia spuntuta che componeva la spiaggia, mi sono appoggiata alla chiglia di una barca e ho iniziato, ovviamente, a piangere.

Piangevo quella sensazione disperante di essere l’unica sveglia al mondo, l’unica viva in un mondo morto, sola da ora e per sempre in una terra deserta. Piangevo la sconfitta che mi costringeva ad aspettare la luce dell’alba per sentirmi al sicuro. Piangevo il fallimento del mio tentativo di trasformarmi in una persona normale, che va a letto, spegne la luce e dorme. Insomma, mi piangevo addosso.

È arrivato un cane nero e grosso. Uno di quelli che crescevano in paese senza avere un vero padrone ma cane di tutti. Cane di paese.

Si è accucciato di fianco a me e mi ha fatto compagnia fino all’alba.

Abbiamo guardato insieme l’orizzonte cambiare colore, sentito quel momento di freddo freddissimo prima dell’arrivo del sole.

È andato via e io mi sono incamminata verso casa per andare a dormire, con la luce, finalmente.

Mi sono impegnata molto per andare oltre il terrore e l’angoscia. Davvero molto.

Mi addormento ancora con la tv accesa e raramente prima dell’una di notte.

E, comunque, ho un gatto. Da almeno trent’anni.

Il mare e il corpo

Oggi dovrei andare al mare. Per la prima volta quest’anno.

È un momento sempre difficile. Il rapporto con il mare e il costume ha una serie di variabili che cambiano, spesso involvendo, di anno in anno.

Prima di tutto, sono una ragazza del sud, ho il mio mare dentro. Ho le mie profondità interiorizzate, i colori, le poseidonie, gli scogli, il sapore del sale forte e bruciante.

Andare al mare da queste parti, di conseguenza, ha un che di avvilente. Acque torbide, quasi dolci, nessuna profondità e il blu ed il verde sono chimere. Ti devi accontentare del marroncino terra di Siena e ocra gialla.

Già così, si fa fatica.

Ma poi c’è il corpo. Il CORPO. Quale? Questo qui non è il mio, non so di chi è e da dove sia venuto. Mi fa fatica portarlo in giro e renderlo visibile.

Succede una mattina: vai allo specchio per lavarti la faccia – sono una selvaggia, uso il sapone – e vedi una perfetta sconosciuta.

Un bulldog con la barba, un papavero spampanato, un alieno grigio con le macchie e l’espressione di un pugile suonato. Ma chi cazzo sei?

E le forme? Da dove vengono? Dove sono finite le fasce muscolari? Quando sono sparite? E sta panza demmerda?

Per una cui dicevano, fino a pochi anni fa, che avrebbe potuto fare pubblicità alle creme per il viso, è un trauma

E il tempo improvvisamente si divide un prima e dopo: quando eri tu e quando un ultracorpo prende possesso di te.

Che poi, per ognuna/o di noi esiste una età ed una immagine di sé ferma nello spazio e nel tempo, un qualche momento di “gloria” fisica, mentale e sociale. Ed è quella faccia e quel corpo che ti aspetti di vedere allo specchio la mattina. Quella, non questa qui. Quella.

Un vecchio nemico di famiglia chiamava tutto questo: “il complesso del verme”. Ma, all’epoca durava un giorno, adesso tutti i giorni tutto il giorno.

Esercizi di Recupero

Qui necessita recuperare l’abitudine e l’attitudine alla scrittura quotidiana. E allora, anche se non sono sicura di avere qualcosa di rimarchevole da scrivere, meglio iniziare.

Sono cambiate tante di quelle cose da quando ho smesso di prendermi cura di questo blog, che non so da dove iniziare.

Sono alla mia scrivania, un regalo di mia zia e dei cugini; legno tosto e pesante e ben 4 cassetti per organizzare maniacalmente la mia cartoleria e tutti i documenti utili. Ho smesso di fare la logopedista – troppo vecchia, troppo stanca, troppo annoiata dagli stessi copioni e comportamenti e reiterazioni – e mi occupo di gestire lo studio.

Incapace è dire poco. Fare i conti è croce e delizia della vita mia. Mi soddisfa l’ordine che danno i numeri, i risultati, i fogli excel che fanno tutto da soli e tutti i meno i più e il rosso e il nero e i rettagolini ordinati e definiti.

La pace della mente proprio.

Ma resto una incapace, non so bene se discalculica o più probabilmente ignorante e con difficoltà conclamate nel ragionamento logico.

Odio amore per quello che ho cercato tutta la vita. Autoflagellazioni e trionfi narcisistici, perdite di sonno (ad avercelo avuto, il sonno, nella vita), e crisi di iperefficienza, giornate “non ho voglia” e giornate che mi fanno crescere di due o tre centimetri.

Sono la più vecchia, qui. L’unica digitalizzata e la sola con 35 anni e passa di esperienza alle spalle e finalmente mi pare di poterne fare qualcosa.

Non so voi ma io ho passato la vita cercando di fare di me una persona di sostanza. E quando sono arrivata in un qualche punto che mi è sembrato soddisfacente, mi sono accorta che non avevo che farmene di tutta questa “sostanza”.

Niente. Nada. Nisba.

Non che io mi penta, solo mi sembra sprecato tenere quello che ho imparato per me. Senza condivisione, (ed è una citazione), non c’è gioia.

Fortunatamente, essendo la capa, qui, sono costrette ad ascoltarmi.

E so’ soddisfazioni.

Mi si chiede

Mi si chiede di continuare a scrivere su questo Blog.

Ci sono difficoltà banalmente logistiche – non ho internet a casa e dovrei usare il cellulare – altre dipendono dalla “disabitudine” ad immaginare i post, così come mi accadeva in passato.

Comunque, mentre ci penso e valuto, cambierò il sottotitolo (non il nome e non l’icona) perché essere una lesbica vintage strepitante non è cosa che mi appartenga più.

Sono una donna in menopausa da tempo (argomento interessante, del quale si parla poco e che meriterebbe qualche approfondimento e condivisione), appaciata nel lavoro – sarei una imprenditrice, adesso, ma anche di questo si potrebbe parlare -, Biancaneve è ancora al mio fianco, faccenda stupefacente.

Sono pigra e vivo in un paesello pigro e le mie interazioni sociali sono ridotte. No, non ridotte: pressoché nulle.

Sfogo il mio bisogno di scrivere su facebook, con frammenti di memorie e litigi furiosi con omofobi, razzisti, leghisti e carogne varie. Mi si consiglia di lasciar perdere, non si arriva da nessuna parte.

Vedremo.

Detto questo, intanto cambio qualcosa al blog, come detto.

Buona giornata a voi che ancora passate di qui.

Da quanto

Da quanto tempo non ripassavo su questo blog, non saprei neanche dirlo.

Mi fa strano.

Questo blog è stato compagno fedele di giochi, di rabbia, nutrimento per narcisismo e bisogno di essere vista. E’ stato gioia pura, appuntamento fisso, crescita, diario.

Il parto della mia rabbia, il bisogno di piacere, la voglia di condividere.

Furore, quiete, rimembranza, costruzione, amore.

Tornavo a casa la sera con in testa l’intero post da scrivere. Intero. Ci pensavo in macchina, camminando, vivendo.

Questo blog mi ha fatto conoscere persone, ha fatto innamorare la mia donna, mi ha creato un personaggio che sento ancora mio. Qualcosa, poi mi ha fatto fermare. Ma più che un evento esterno, è stata la morte del bisogno.

Non ne ho sentito più l’urgenza. Non c’erano più post nella mia testa. E poi facebook e la possibilità di condividere subito il pensiero minimale, i giochini, la mancanza di wifi e una vita che cominciava a scorrere come volevo io.

Una vita che ha preso una direzione. Cosa anomala nella mia storia. Una direzione precisa e perseguita.

Non so bene se chiudere o continuare.

Sono legata a Penelopebasta profondamente. Quindi non è facile decidere.

Mi manca, ma non ho post nella testa.

Quest’è.

 

 

Mio padre

Soundtrack: Samuele BersaniUltima chance

L’8 febbraio 2014 se ne è andato mio padre, Sergio, ad 84 anni e 5 mesi.

Spiegare le cose per come sono andate non è facile come non è facile spiegare cosa, esattamente, significa per me.

Un lutto già elaborato, questo è certo. Per mille e uno motivi. Per mille e cento motivi. Per tutti i giorni dei miei 51 anni, più o meno.

Ma non è neanche esattamente così.

Dovrei ammettere che per me è stato liberatorio: finalmente poterlo guardare senza giudicare e senza provare rancore. Miracoli che solo i lutti possono fare. I lutti ed i salvataggi.

Anche se i salvataggi sono inutili, quando qualcuno non vuole essere salvato da se stesso.

C’è una storia dietro, c’è la storia di una terza moglie avida e stupida, una donna troppo concentrata sul suo bisogno di danaro, da usare poi in modo inutile. Di un uomo sempre solo con i suoi mostri ed i suoi fantasmi fatti di mogli morte, padri troppo ingombranti, persecuzioni razziali, fughe, primogeniture ebraiche, passioni travolgenti.

C’è una storia che si avviluppa sull’impossibilità di accettare una decadenza dolorosa che colpisce quello che si considera il vero e assoluto punto di forza della propria vita: la mente.

E c’è anche la storia di un uomo che non riesce ad accettare aiuto da due figlie che, malgrado lui, lo hanno amato.

E’ esattamente quello che gli ho detto, un giorno a casa mia, dopo averlo portato via da un ospizio che sembrava un canile, accompagnata dai carabinieri (l’ospizio risultava chiuso perché nascondiglio di armi e droga, un posto di merda per gente abbandonata e sola; un canile appunto).

Piangeva e diceva che non credeva che a noi importasse di lui. Ho risposto: “ti vogliamo bene malgrado te, papà”.

Quando l’ho portato a casa mia speravo, profondamente speravo, fosse possibile ricucire brandelli di stoffa emotiva dispersi negli anni del dolore e della incomprensione. Averlo visto così indifeso, così disperato e fuori dal suo ruolo, dalle sue caratteristiche, così pronto a farsi prendere tra le mie braccia, mi ha permesso di vedere un uomo e non un cattivo padre.

C’è gente che si spara 15 anni di psicanalisi freudiana per arrivare a questo. Ho avuto la possibilità di farlo gratis ed in un singolo attimo che è valso una vita.

Intorno a me le persone che amo. Una mobilitazione senza precedenti. I “favolosi” (che adesso sono unità distinte) che mi accompagnano all’ospizio e ci riportano al paesello, Biancaneve che recuperava badanti giorno/notte, FS che cucinava le polpette morbide, mia sorella che arriva per portarlo su da lei, la nipo con il guaglione suo a cucinare pesce fresco per far mangiare mio padre. Che già non mangiava più, che prendeva 8 antipsicotici al giorno, che ha dormito solo la prima notte di filato, che si stava perdendo le procedure per fare le cose, che non trovava le parole che solo mia sorella ha imparato a recuperare e spesso a tradurre.

Abbiamo sperato insieme che tutto questo fosse il modo.

Il modo per tornare ad essere famiglia, il modo per farci capire nel nostro amore inutile, il modo per riscattare anni di dolore e lontananza, il modo per farci VEDERE.

Guarda queste tue figlie, padre. Frutto dei tuoi lombi e sangue del tuo sangue. Queste due figlie a loro modo integre, malgrado te (di nuovo), che aprono il baule dell’affetto sepolto sotto chilometri di distanze e tonnellate di coperte di lana grezza e litri di lacrime e parole rancorose e ti mostrano il tesoro. Il loro tesoro fatto di qualcosa che non ha, lucidamente senso, ma è lì ugualmente, anche se non dovrebbe.

Le figlie depredate delle madri, degli affetti, delle case, dei ricordi. Le figlie senza protezione che si proteggono da sole. Le figlie che restano quando potrebbero andar via. Le figlie che non discutono mai le tue scelte e che, sempre, hanno sperato che quello che facevi fosse il meglio per te. Questo lo hai fatto anche tu per noi.

Queste figlie hanno poi deciso di fare qualcosa. Di tenerti lontano da quel parassita di tua moglie e costruirti una chance di vita altra. Più dignitosa, pensavano le tue figlie. Più in salute, pensavano le tue figlie. Più vicino alla tua famiglia. Pensavano le tue figlie.

E pensavano male.

Un mese di ospedale per rimetterti in piedi. Via gli psicofarmaci, per scoprire che eri troppo depresso per toglierli tutti. Cercando di farti mangiare per scoprire che avevi deciso di non farlo più. Avviando l’organizzazione di terapie per recuperare gesti e parole.

Poi nella migliore delle case di cura possibile. Comunque legato al letto di notte. Comunque col bavaglino. Comunque imboccato. Comunque pulito e lavato da una sconosciuta. Non c’erano alternative.

Ma io te l’ho visto negli occhi che non era quello che volevi e non volevi sentire ragioni.

Hai scelto di tornare dal parassita che, nel frattempo, ha cominciato ad inseguirci a botte di avvocati e denunce.

Lei sì, noi no perché tu non volevi lo facessimo.

Avremmo dovuto proteggerci. Avresti dovuto proteggerci.

Sei tornato a Napoli.

Ho pianto come se fossi morto. Ho provato tutta la rabbia del mondo per l’occasione mancata, per la preoccupazione di quello che poteva accaderti, per il dolore di saperti tra le mani di una persona che cercava solo di spremerti con tutta la forza e la violenza che ci vuole con una arancia avvizzita. Ho pianto per la delusione, per la vergogna nei confronti delle persone che mi hanno aiutato credendo di fare la cosa giusta. Ho pianto per me che ho perso l’occasione, ho pianto per mia sorella che ha dovuto fare appello a tutta la forza che aveva da parte per occuparsi di te che non ti sei occupato mai di lei. Ho pianto per mio cognato che si è sputtanato in tutta Senigallia per darti una mano, papà. Ho pianto per te che non hai imparato mai. Per te che non ti sei mai dato occasione di trovare pace, per te che saresti morto solo.

Ho pianto per le tue colpe e per i tuoi sensi di colpa.

E non ti ho più visto.

Tra mail di avvocati, avvisi di garanzia e patetiche strategie parassitarie, ci fanno sapere che sei di nuovo in casa di cura.

Un tuo vecchio amico mi urla in testa che non stiamo facendo abbastanza e che dobbiamo fare un sacrificio per salvarti.

Mi viene da ridere. Dov’eri un mese fa? cosa ne sai di quello che è successo? Mi dice “lasciate a lei i soldi e occupatevi voi di vostro padre”.

Già, lasciamo a lei i 3600 euro di pensione mensile di mio padre e facciamoci carico di papà, io al momento senza lavoro e mia sorella part time a 800 euro al mese. “Fate un sacrificio” mi dice il vecchio amico.

Mavaffanculo, va’.  Stai zitto e vaffanculo. Tu e tutta la razza tua di gente senza contatto con la realtà. Tu e la razza di quelli che si svegliano all’ultimo momento ed hanno la verità in tasca. Tu che mi hai messo le mani addosso quando avevo 12 anni, stai zitto e non rompermi i coglioni. fatti i cazzi tuoi.

Con gentilezza ho risposto che avremmo tenuto in considerazione i suoi consigli. Lady Penelope.

Vengo giù a Napoli per vederti e invece mi ammalo. Febbre a 38 la sera. La mattina alle 11 mi arriva l’sms che sei morto in clinica.

Il favoloso mi accompagna a vederti.

Sei piccolo piccolo. Con la kippà in testa e la stella di David al collo. Un tempo la stella era attaccata ad una catena d’oro. Ora è un laccio di cuoio. Giacca scura e cravatta. Sei molto carino. Se questo si può dire di un cadavere. Ed hai un aspetto molto ebreo, con il tuo naso tipico e le macchie sul viso uguali a quelle della nonna ed alle mie. Gli occhi chiusi, il viso scavato (sei anche senza dentiera, la faccia è minuscola).

Ti seppelliamo al cimitero britannico senza funzione. Almeno questo la parassita lo ha rispettato, mi pare una buona cosa, sarei persino disposta a salutarla. Poi il direttore del cimitero mi chiede soldi per la lastra di marmo. A nero ovviamente. Non li ho, me li presta/regala “qualcuno”.

Al cimitero ci sono le persone che mi aspettavo, quelle che amo. Rivedo anche mia zia, la cugina di papà che è identica a lui. Mia sorella non è voluta venire. Ed è giusto così.

Il favoloso si siede sul cannello acceso che serve per chiudere la bara. Punito per aver cercato di fraternizzare con il nemico…

Non ci sono più tornata.

Non ho pianto, era già successo.

So perfettamente che volevi morire.

No judge, no pain.

Eri vergine ascendente vergine. Qualcuno mi ha detto che è l’ultima possibilità per modificare il karma. Dopo c’è la regressione.

Mi sa che se è vero, rinasci sasso, papà.

Ed è la cosa che mi addolora di più.

Mi sto prendendo del tempo per capire la tua parte più profonda e oscura, quella che ti portava gli incubi tutte le notti. Vorrei capire se poi, alla fine, la tua vita sia stata tutta un cazzeggio da narcisista patologico o un continuo punirsi per essere ebreo, vedovo, fedigrafo e irresponsabile affettivamente.

O entrambe le cose.

Ancora oggi, a 3 mesi dalla tua morte, ti voglio bene malgrado te.

Ciao papà.

Penelope se ne è andata

Il 27 novembre, nel pomeriggio, Penelope è andata via.

Dopo un paio di giorni di agonia, a 24 anni e 8 mesi, si è convinta che poteva lasciarmi continuare da sola. 

Io non ne sono tanto convinta, ma è pur vero che era stanca e malatissima. 

Si conclude così un anno complicato, profondamente frustrante e pieno di cose nuove troppo nuove e troppo pericolose.

Penelope mi mancherà molto, senza di lei mi sento vulnerabile e scoperta. Infreddolita. Non è facile salutare un peloso quattrozampe che ti ha accompagnato per quasi la metà della tua vita seguendoti ovunque e ribadendo, ogni singolo giorno, che ha scelto te malgrado tutto. 

E di “malgrado” ce ne sarebbero parecchi. 

Troppi traslochi, pochi veterinari, poca attenzione per le lettiere, il cibo, l’acqua, il caldo, il freddo. Doveva avere una genetica di adamantio per aver resistito così tanto. 

L’amavo molto e la amo ancora. A volte la sento, a volte no. Mi manca.

Entro fine anno vorrei fare gli auguri a chi è rimasto in contatto con codesto blog e fare un aggiornamento sull’intero, frustrantissimo 2013. Nel frattempo, statv buon.

Aspettativa

Soundtrack:  Subsonica Up Patriots to Arms (feat. Franco Battiato)

Sono in aspettativa.

3 mesi fuori da quell’inferno.

Perché come un inferno l’ho vissuto.

Dovrei rientrare ad orario ridotto. Non ci credo se non lo vedo. Dicono una marea di cazzate lì.

Credevo di avere la mononucleosi per quanto mi sentivo debole e priva di energia. Malata di mal-lavoro. Dis-lavoro. A-lavoro. Scegliete voi.

Mi sono svegliata lunedì fresca come una rosa e iperattiva. Ho persino smesso di mangiare spaventose porcherie.

L’aspettativa è una strana dimensione. Aspettare cosa? Aspetta un attimo che mo’ torno. Aspè, tienimi il posto che vado di là. Aspetta che ora sono impegnata.

Appunto. Altro da fare.

Con un po’ di mie colleghe abbiamo messo su una associazione sanitaria per fare riabilitazione sul territorio a prezzi da discount.

Un’idea e non un’impresa.

Ci ha dato una mano il comune, praticamente regalandoci i locali e le utenze.

Già i centri privati ci corrono dietro con le mazze di scopa.

Parassiti.

Direi.

Abbiamo avuto faccia tosta sufficiente da andare a chiedere aiuto perché, persino in questa nazione ridotta a letame fumante, se hai una buona idea utile per tutti, qualcuno che ti sta a sentire e ti offre una mano lo trovi.

E perché non è di certo un modo per far soldi.

Ma il ragionamento non è alla portata di tutti. Non ora, non in questo momento storico, non in questo marasma sociale incattivito, incazzato, individualista e delirante.

E provatemi il contrario.

Vorrei mettermi in aspettativa anche da questo paese.

Scusate mi assento per un po’ e torno tra 3 mesi, conservatemi il posto.

Ma sono una ragazza anni 80, cresciuta sulla coda di un brontosauro convinto che la risposta fosse nel collettivo, nell’azione “pubblica” e finalizzata al benessere di tutti. Il brontosauro è morto ed estinto, questo è evidente.

Ma io sono viva.

E voglio fare quello che mi va e che mi fa stare bene.

Quindi, stay tuned, avrete notizie su questo, soprattutto vi racconterò come usciremo fuori dagli attacchi dei privati di qui. Magari faremo scuola. Fanculo.

Altro da aspettare?

Oh sì.

Aspetto i momenti da passare con Biancaneve perché son sempre i migliori.

Aspetto di trovar la volontà di dimagrire che serve sempre.

Aspetto di diventare un fenomeno mondiale a Ruzzle per battere la R* che è un mostro.

Aspetto che questo paese torni umano e solidale.

Aspetto il momento in cui smetterò di stupirmi per la bellezza delle cose per morire convinta di aver concluso.

Aspetto di capire come cazzo mi pago l’affitto il mese prossimo.

Qualcosa da aspettare c’è sempre.

Difficili decisioni

Soundtrack: Vadoinmessico – Pond

Non è facile prendere decisioni di lavoro in tempi difficili come questi. E non è facile stabilire se sia più importante la propria dignità o la pagnotta.

La battaglia tra pancia e testa è assolutamente epocale. O forse è il cuore, non lo so, non la so fare questa distinzione. So solo che la voce della ragionevolezza, di mia sorella, di alcune colleghe, mi dice che uno stipendio fisso (anche se ipotetico, dato che non abbiamo visto il mese di dicembre né la tredicesima), è meglio di niente e che, tutto sommato, si può aspettare, si può abbozzare, si può sopportare.

Qualcosa di molto primordiale dentro di me, però, si agita, suda, digrigna i denti, lacrima e stringe gli occhi. 

“Qualcosa”. Ovvero una emozione non meglio identificata. Una spinta. Un conato. 

Ah bè, hai un lavoro ringrazia iddio. 

Anche un po’ sticazzi.

E se fosse proprio questo continuo cedere alla ragionevolezza a fare di me, e delle persone come me, delle pedine senza peso sacrificabili ed evanescenti come fumo di sigaretta industriale?

Io so che, se in questo momento scrivessi una lettera di dimissioni, mi sentirei leggera e felice, realizzata e dignitosa, sicura di me e fiera.

Leggera perché questo posto ha una pesantezza sovrumana (per gli orari di merda, per la dirigenza codarda e avida, per lo spirito zombie, per la segmentazione tra colleghe), perché liberarmene mi farebbe sentire forte. Come in altre occasioni. Forte.

Forte di quell’energia che si libera e si sprigiona ogni volta che cado per terra, ogni volta che devo ricominciare, ogni volta che sono spalle al muro.

Poi la testa mi dice che non ho l’età.

E se ne andasse affanculo pure la testa. L’età… cosa cambia? sono viva, sono viva oggi, in questo momento, in questo preciso istante.

E la mia vita vale più di uno stipendio promesso e non dato, più di un contratto che è un cappio che si stringe un po’ di più ogni fottutissimo giorno. 

Ma davvero vale la pena di vendersi per 1200 euro al mese. Ne siamo sicuri? 

Ohhh, non lo dico per tutti, lo dico per me. Per me che non ho famiglia, non ho figli, ho una compagna con la quale non convivo e che ha la sua indipendenza. 

Per la pensione che non avrò comunque?

Per il mensile che non arriva mai quando dovrebbe?

Per i ragazzini che tanto si organizzano lo stesso?

Per non dover affrontare un ennesimo cambiamento?

Non ha alcun senso il mio permanere qui. Nessuno.

Ho chiesto la riduzione dell’orario da 36 a 24 ore, ma pare che non sia il momento per valutare la mia richiesta.

Ho chiesto l’aspettativa di 3 mesi. Ma non mi fa sentire meglio. Ho la sensazione che mi resterebbe questa fottuta catena al collo anche a distanza.

Avverto il suono del risucchio.

Vampiri di merda, lliuatev a cuollo (levatevi di dosso, N.d.T)

Peraltro sto wordpress ha fatto dei cambiamenti che non mi piacciono proprio. 

Molto da raccontare

Soundtrack4Hero Morning Child

Sì, davvero molto da raccontare e anche da fare gli auguri di buone feste.

Ho cambiato casa a giugno, ho potuto abitarci da settembre, avevo una invasione di scleroderma. Insetti fastidiosi che si sono cibati di me.

Ora mi piace, mi ci ritrovo, un po’ di Napoli e un po’ di quiete di paese: il salumiere, il tabaccaio, il bar, i genitori dei pazienti.

Buongiorno, buonasera, come va?.

E’ piacevole.

La Agos oramai mi insegue disperatamente. Sono una buona latitante. Ma rivogliono la macchina. E questo sarà un problema.

I favolosi non stanno più insieme da tempo, a me dispiace, mi pare di essere orfana due volte. Anzi tre. O forse 4? Bah.

Ascolto con stanchezza e profondo dispiacere gli attacchi della chiesa e del pastore tedesco inquisitore contro di me e contro persone che, come me, si fanno i cazzi propri e non danno fastidio a nessuno (conta la strage di scleroderma fatta con il disinfestatore?). Sapere di essere una minaccia per la pace, una malattia, un insulto, una causa di disgusto, non mi ferisce neanche più, semplicemente di annichilisce. Immagino fosse quello che volevano. Direi, che per quanto mi riguarda, hanno vinto. Dicessero quello che vogliono, sono il miglior capro espiatorio che si possa immaginare. Sono anche una donna. Ed è strano come io mi stia accorgendo solo ora di quanta misoginia ci sia al mondo. Non me ne ero mai resa conto.

Stanca anche di attendere un riconoscimento ufficiale da parte della famiglia di Biancaneve, ho deciso che se ne andassero affanculo, adesso sono io che non ho voglia di riconoscerli.

Uno dei motivi per i quali ho smesso di scrivere qui, “uno dei” e non “il solo”, è stata la scoperta che il marito di Biancaneve medesima lo ha trovato. Mi ha dato uno strano senso di invasione e violenza. Strano a dirsi considerando che questo è un blog pubblico, reperibile su google e, con un po’ di pazienza e cazzimma, collegabile al mio nome e cognome. Ma è stata una sensazione forte, molto forte, che mi ha fatto sentire codesto blog – improvvisamente – lontano da me, opaco, torbido.

Oggi il centro dove lavoro ha chiuso definitivamente.

Non perdo il posto di lavoro, mi sposto a Roma. Dovrei esserne contenta. Salvo le mie 1200 euro al mese e mi assicuro la sopravvivenza. E’ una buona notizia.

Invece è doloroso.

Ne ho parlato spesso qui, in vari modi. Ci stavo bene, mi piaceva il modo di lavorare, mi piacevano e mi piacciono le colleghe, mi piaceva lo spirito, l’anarchia, la fantasia, la creatività, la solidarietà, l’entusiasmo, la collaborazione, il cazzeggio, le liti. Il piacere di svegliarsi la mattina per andare in un posto di lavoro ad incontrare amici con i quali condividere 8 ore facendo cose di ogni genere. Cose che comprendono la terapia ai ragazzi, ovviamente, ma non mi pareva il motivo principale.

Questa chiusura fa tristezza. Mi ricorda il penoso stato in cui versa questo paese. Mi ricorda quanto è importante, nei momenti di crisi economica, avere capri espiatori e capre da macellare.

I genitori sono furiosi, ma non serve a nulla, assolutamente a nulla. A nessuno importa. E alla fine si va tutti a far la terapia a Roma. Costi quel che costi.

Non so cosa succederà, non so quanto resisterò, non so quanto mi terranno lì, mi considerano un pessimo elemento già da ora. Sono troppo “aggressiva”.

Dimenticavo, a tal proposito, di menzionare una rissa durante una assemblea sindacale. Rissa da me provocata. Mi hanno  portato via in tre. MANTENITM!

Spettacolare.

Mi rifugio tra le braccia di Biancaneve e mi sento meglio (stiamo ancora qua, evidentemente).

E ora, veniamo agli auguri per l’anno nuovo.

Quest’anno non è facile.

Auguro a tutti la cannuccia giusta per restare vivi sotto queste badilate di merda che ci hanno rovesciato addosso.

E di trovare la giusta muta da sub, per far sì che la merda medesima non penetri sotto pelle e faccia di ognuno di noi materia decaduta e decadente della stessa specie di quelli che la merda la spalano.

Auguro a tutti di togliere le mani dagli occhi ed imparare a guardare in faccia la vita che abbiamo. Con lo sguardo fermo. Solido e orgoglioso, un filo sopra l’orizzonte, perché il mondo non finisce alla punta dell’alluce.

Auguro agli uomini che uccidono le donne, agli uomini che le donne le hanno uccise e a quelli che le uccideranno, di restare vivi abbastanza a lungo da capire che un omicidio non li ha resi più grandi, non ha risolto le loro depressioni, non ha spento la loro rabbia, non ha innalzato la propria autostima, non li ha resi più uomini, non li ha guariti dall’omosessualità. Che hanno solo ucciso. E perso tutto.

Non basta, lo so.

Auguro a tutti noi di sopravvivere dignitosamente all’anno che verrà, senza svenderci, senza tradire, senza perdere qualcosa di importante di noi.

Auguro a me e a voi di ricordare che la libertà è uno stato mentale, un delicato e prezioso stato mentale. Da curare e  nutrire con delicatezza e gentilezza, da preservare, da proteggere e far crescere.

Quindi siate tutti delicati e gentili . Siate protettivi con voi stessi e con il prossimo. Tenete lontani i pensieri puzzolenti, non aiutano e fanno male a noi e a chi ci sta intorno. Siate comprensivi con questi tempi di merda.

Siate assertivi, che serve sempre.

Siate pronti a difendervi.

Siate voi stessi.

Buon 2013.

P.S. Gatta Penelope è ancora viva, si avvia al 24esimo anno d’età.

Aggiornamenti

Soundtrack – Niente, perché con la chiavetta è complicato.

Ebbè, manco da molto.

E molte cose sono cambiate.

Immagino non solo per me.

Recalcitrante ho traslocato. Mi sono spostata al centro storico de lu paese. Ho una casetta con il terrazzino sui tetti. Come la desideravo.

Sarà stato il mio undicesimo trasloco, credo. Il peggio organizzato. Il più difficile.

La porta rotta, le utenze staccate, l’acqua che arriva il giorno del trasloco, troppi mobili, i primi giorni aggredita e divorata da insetti fastidiosissimi, impossibile avere la linea telefonica perché mancano linee disponibili, una cosa da secolo scorso; temperature infernali (asteco e cielo, si dice a Napoli; sopra di me solo le tegole) fino a 30 gradi nella stanza da letto di notte. Poi la febbre. Con 38 e mezzo non ho corso rischi di colpi di calore, devo dire.

Dicono che questo sia un brutto “quartiere” (come cazzo fanno a chiamarlo quartiere non lo so, sarà che per ognuno le dimensioni son personali e soggettive) e che non devo dare “confidenza a nessuno”. Ho risposto che vengo da Napoli, non da Stoccolma.

Ho naturalmente finito i soldi troppo presto.

Ma questa è la casa che volevo, credo da sempre e realizzo che, come al solito, non riesco a godere di quello che riesco ad ottenere. Che fa anche rima.

La R* ha detto che è una “nido sui tetti”, Biancaneve ogni volta che viene immagina nuove soluzioni di arredamento (ben sapendo che tanto farò di testa mia), il docfab è già venuto 4 volte,  e il tutto non è ancora come lo vorrei. Ma ci arriverò.

Di giorno le voci dal vicolo, gente affacciata alla finestra che parla al telefono, giovanissime madri che bestemmiano contro figlie di un anno e anziane signore che dispensano consigli. Nel palazzo odore di cipolla e aglio, bambine (con evidenti difficoltà di linguaggio) che pascolano nell’atrio, signore che non si fanno i cazzi propri. Le urla delle rondini che volano velocissime a caccia di cibo, piccioni che mi guardano con le loro facce di gesso dalla finestra del bagno. Una finestra piccola piccola con un bellissimo panorama. A volte immagino ci sia il mare, lì in fondo, e mi piace anche di più. Di notte si sente russare, le scorregge dei vicini, i colpi di tosse, uno di quei campanellini che suonano al vento, qualche macchina di tanto in tanto. Ho comprato un’amaca. Ci ho dormito una notte per disperazione.

Penso alla casa di prima e i suoi inverni gelati.

Pare che l’equilibrio non sia nel mio karma. Una cosa che non va ci deve stare per forza. A ricordarmi che niente è mai veramente facile e che niente può essere “perfetto”.

Naturalmente la sede di Monterotondo del centro dove lavoro chiude a dicembre. Pare ci sposteremo a Roma.

Per mia scelta non sono più rappresentante sindacale. E’ stato un periodo troppo faticoso quello, troppo costoso. In salute e affetti. Ci ho perso molto, davvero molto. Ma mi è difficile stare al mio posto ora, difficile contenere la rabbia e la voglia di fare qualcosa.

Ci sono varie cose in gioco. Certo, tutte molto egoistiche (marò che parola orrenda e obsoleta questa).

Questo centro è un’oasi assoluta. Poco controllo, molta autarchia, rapporti rilassati, piccole anarchie che alleggeriscono e non danneggiano, ambiente protetto, ecosistema perfetto. Difficile pensare di perderlo per andare a finire in un miserabile lager dove vige la regola del sopruso e della burocratizzazione. E del controllo. Eccheppalle.

E questa è la parte personale.

Poi c’è la parte che riguarda i pazienti. Deportati in un’altra sede. Alcuni dopo oltre 5 anni di terapia sotto casa.

Pacchetti da spostare. E sticazzi alle rivoluzioni che dovranno fare nelle proprie vite e nelle proprie organizzazioni.

Caratteristica del gruppo dirigente di questo centro è, senza dubbio, l’incapacità di considerare l’altro da sé. Una forma di autismo direi.

Bah. Vedremo.

Poi c’è tutto il resto. La paura che ho della “spending review”, il disgusto che mi fa l’utilizzo di parole in inglese per coprire lo schifo che significano in italiano. La paura che ho per questo paese, per i nostri destini (noi, quelli da 1000 euro al mese, quelli che ancora non hanno trovato un lavoro e non ne troveranno, quelli che lo perderanno a 50 anni, quelli che non hanno le stimmate per avviare la moltiplicazione dei pani e dei pesci, quelli che camminano da 10 anni sull’orlo della fossa comune senza cadere e non sanno ancora per quanto potranno mantenere l’equilibrio, quelli che non ce la facevano da soli ma che da soli resteranno, quelli che hanno faticato per un futuro migliore e si trovano questo cazzo di futuro qui).

C’è un po’ di vento oggi in casa. Finalmente posso tenere spenti i ventilatori. E’ piacevole. Le zanzariere di fortuna sventolano lievemente. E’ bello da vedere.

La gatta Penelope, sopravvissuta anche a questo trasloco, si lascia pulire il pelo con sporadiche proteste e si abbatte sulla poltrona per dormire le sue 23 ore giornaliere. La guardo e penso che è sempre qui. Ancora. Dopo 22 anni. Mi commuove guardarla negli occhi.

Le tegole rosse della palazzina di fronte e le grondaie mi mettono una malinconica allegria.

Vado a sistemar.

Buongiorno a voi che ancora passate di qui e, in particolare, un abbraccio a Mah, lettrice e amica che, di tanto in tanto, mi richiama all’ordine con dolcezza.

La fiera delle femmine

Soundtrack: Hooverphonic – Anger Never Dies

Femmine birra, femmine auto, femmine profumo, femmine mutande, femmine shampoo, femmine nude, femmine che ballano inquadrate dalla stessa angolazione di una Risonanza Magnetica lombosacrale.

Femmine ferme, femmine in ginocchio, femmine carta, femmine soldi, femmine sesso, femmine culo, femmine tette, femmine fica come se non se ne fosse mai vista una prima.

Femmine in costume, femmine travestite, femmine nude, femmine velate, femmine a portata di mano, femmine in vendita, femmine di compagnia, femmine schiave, femmine inutili come un soprammobile regalato dalla zia dell’Iowa.

Femmine mogli, quelle che scassano le palle e forniscono testi di cabaret ad attori uomini.

Femmine escort, quelle che servono per farsi fare un favore da un vecchio porco e guadagnare più soldi. Perché alla fine sempre ricottari e magnaccia sono, sotto la cravatta e la valigetta da manager.

Femmine colpevoli, di svegliare passioni incontrollabili in qualche povero cristo che non può fare altro che ucciderle. Sennò perché li chiamerebbero “delitti passionali”.

Femmine che devono coprire le tette la mattina e scoprirle la sera. A comando.

Femmine che devono comportarsi bene.

Femmine che non serve coprirle con il burqa, basta spogliarle alle 7 di sera, alle spalle di un coglione pelato vestito di tutto punto. La dignità si perde meglio così.

Femmine sui manifesti per vendere meglio (con la bocca aperta, con le gambe aperte, con le camicie aperte e con gli occhi chiusi sennò sono troppo aggressive), femmine sulle copertine per vendere meglio (con make up perfetti, seni perfetti, gambe perfette, pubi perfetti perché ogni altra donna sulla faccia della terra si senta meno, poco, nulla),  femmine nei video per vendere meglio (e perché che cazzo te lo guardi a fare un nerone brutto e butterato vestito come un coglione  che urla cazzate pornografiche in rima se non per vedere 14 culi lucidi di femmina che si agitano?).

Femmine in mostra, come un prodotto al supermercato, posizionate sullo scaffale sempre un po’ al lato dei prodotti maschi.

Femmine in fiera, come ai tempi della tratta degli schiavi – guardale i denti, sono sani; guardale i lombi, sono forti; guardale il seno, è florido e adesso compra, paga bene, fammi arricchire e toglimela dalle palle -.

Femmine come alla sagra della salsiccia – è carne soda, è buona da mangiare, ne puoi avere quanta ne vuoi, te la regaliamo, la diamo via per poco -.

Femmine in fila per uno col culo da fuori, come nei bordelli di fine 800 – scegli pure, sono qui per te -.

Femmine bambine che si vergognano al posto tuo.

Femmine bastarde che le devi domare.

Femmine belle che belle devono essere.

Femmine che non devono dire mai di no perché, se dicono no, muoiono.

La giostra

Soundtrack: JonquilIt’s My Part

Ricomincia.

Volendo c’è un che di divertente.

Volendo.

Cerco casa. Di nuovo. A volte credo non troverò mai un posto definitivo dove stare.

A volte.

Sarebbe meglio ci facessi pace, sono arrivata a 49 e non ho un posto definitivo, usare “a volte” mi pare una stronzata autoconsolatoria.

Oddio wordpress ha cambiato tutto e non ci capisco un cazzo.

Ho aperto penelopebasta per mandare un saluto a chi passa, mi è venuta voglia di scrivere ma questo nuovo aspetto di wp mi avvilisce.

Per il resto questo paese va come va.

Omofobico, prepotente, misogino, crudele, menzognero, servile. Son cose che sappiamo tutti.

Nel posto dove lavoro ogni cosa appare come nel resto di questo paese.

Dirigenti incapaci, soverchie scaldasedie aggrappate ad un miserabile potere che si esercita solo ed esclusivamente attraverso la sopraffazione del più debole, parassiti desiderosi di aspirare peti dai culi supposti potenti abbarbicati alla peluria anale dei suddetti. E una marea di persone di umana connotazione che cercano di fare il proprio lavoro, meritarsi uno stipendio, barcamenarsi in un tunnel immaginando un’uscita che non è affatto detto ci sia.

Siamo in Italia, appunto.

Faccio quello che posso. Pratico atteggiamento zen di fronte (ma anche di lato, davanti e dietro) agli attacchi inutili e miseri che arrivano da ogni parte. Ho le mie forbicine e mi ritaglio spazi bidimensionali che, per ora, tengono.

Scrivo poco di Biancaneve e delle nostre montagne russe chilometriche. Siamo appena uscite da un giro della morte e non so quando arriverà il prossimo. Il suo sorriso e i suoi occhi brillanti mi emozionano ancora come 3 anni fa. E questa è una buona notizia, da non dare per scontata.

La menopausa avanza con i suoi tipici momenti di prepotenza umorale. E faccio bilanci. E non è una buona cosa. Quando si fanno bilanci si pesano cose che, per anni, peso non ne hanno avuto. Ma su quel piatto diventano barili pieni di piombo. Non si capisce perché. Improvvisamente mi chiedo perché nella mia vita ho gettato danaro in quantità industriale dalla finestra invece di farne un tetto, una pensione, una assicurazione, un investimento, una cosa di queste sagge e oculate. E’ una domanda totalmente inutile, ma mi ha pervaso e invaso per giorni. Io so esattamente perché non l’ho fatto. Ma la memoria di certe scelte, in alcuni momenti, va perduta come l’acqua in una bottiglia bucata.

Resto con gli occhi sbarrati nel letto chiedendomi come ho fatto a non costruire un cazzo e a ritrovarmi senza niente a 50 anni quasi. Poi mi ricordo che, questa domanda, se la fa qualunque donna in menopausa sulla faccia della terra. Qualunque cosa abbia e qualunque cosa non abbia. Allora cerco di ricordare cosa ho e non cosa non ho. E, a dire il vero, non mi viene in mente un cazzo. Tant’è.

Nella mia vita ho fatto quello che ho voluto, lo ripeto spesso ed è vero. Questo è già molto. E ho imparato a volermi bene. E questo è moltissimo. E sono capace di amare. E questo è oltre ogni ragionevole aspettativa. E sono amata. E qui non ci sono superlativi da utilizzare, non sono previsti tali livelli nella lingua italiana.

In questo delirio autoconsolatorio, mi girano le palle pensando al mio decimo trasloco ( o undicesimo, non ricordo).

Da tempo non compro arredamento, fa volume e pesa negli spostamenti.

Butterò via di nuovo qualcosa. Lo faccio sempre.

Vediamo come va.

Buonanotte

Paura

Soundtrack: Nekta No Need To Rumble

Non credevo fosse possibile, sotto i cinquant’anni e dopo trenta anni di lavoro, ritrovarmi ad avere paura. Proprio paura.

Nuovi pazienti, nuovi ciccipiccoli.

DGS, ADHD.

Quand’è che ho smesso di chiamarli per nome ed ho cominciato a chiamarli per sigla?

Trenta anni fa le sigle dietro cui nascondere i bambini non le avevo. E avevo anche il fuoco sacro e inestinguibile del delirio di onnipotenza e la crassa ignoranza che porta sorprese ogni minuto.

Oggi ho sigle, ho vista lunga, ho precisa percezione di cosa sarà e come sarà.

Cazzo dovrò lottare, consumare energie, comunicare, contenere, accogliere, fissare paletti di cemento, sfondare muri, rassicurare, prendere botte, trasformarmi in un gigante, ascoltare, fermare, lasciar andare, trattenere.

E tutto questo per cosa? Per metterli ad un cazzo di tavolino ad imparare a leggere e a scrivere, per insegnargli ad usare articoli e preposizioni nella frase, perché imparino ad essere aiutati, per dargli i fottuti tempi di attenzione necessari per acquisire nozioni, funzioni, autonomie, relazioni.

Ma io non so neanche più se ne sono capace, se so ancora farlo, se ho le energie, la fiducia e la voglia di accettare la sfida. Cazzo IO-NON-LO-SO.

E mi fa paura da morire. Uscire dalla rassicurante bacinella fatta di DSL e DSA già pensanti, parlanti, educati e pronti.

Io non lo so se ci riesco a ridargli un nome e non una sigla a questi.

Io non lo so se ho la forza di scavare dentro le loro paure, dentro la confusione dei loro genitori, dentro le scuole insufficienti e inadeguate. Dovrei essere quella che non ha paura per accogliere e sfumare le paure di tutto il resto del mondo che ruota intorno a loro.

Ma io non lo so più. Non lo so più. Non lo so più. Non lo so più.

E il mio è un mantra di disperazione. Perché allora, cos’è che so io? io non so fare altro. Sto solo cercando di trovare il modo per fare quello che può bastare senza troppo sforzo, coinvolgimento, fegato e viscere. Sto solo cercando di risparmiarmi. Solo un po’. Solo perché non credo di essere più in grado.

Cosa ancora posso dare io?

Io non lo so.

Non provavo una sensazione come questa da anni. Forse dovrei prenderla come una buona cosa.

Poi ho paura di avere l’alzheimer. Davvero. Con i miei vuoti di memoria, i miei sperdimenti spaziali, i miei risvegli confusionali, i luoghi che conosco e non riconosco, la mia insonnia galoppante.

E ho paura di cambiare casa, di preparare di nuovo gli scatoloni, di organizzare il trasloco, di ricominciare daccapo.

Ho paura di chi imbroglia, di chi mente, dei falsi sé, dei cazzi pieni d’acqua.

Ho paura della menopausa che avanza come una goccia d’inchiostro nero nell’acqua che ho nel corpo.

Ho paura di restare sola fino alla fine dei miei giorni.

Ho paura che stiano uccidendo mio padre (ma questa è una lunga storia).

Ho paura delle cose nuove.

Ho paura di addormentarmi in macchina.

Ho paura di perdere quello che ho.

Ho paura mettermi in costume la prossima estate.

Ho paura che tutto questo sia diventare vecchia. Non grande, quello lo sono già stata. Vecchia, come forse è giusto che sia a questa età, malgrado le stronzate che si dicono in pubblicità.

Abbracciami forte amore mio, perché una paura così, si può solo accarezzare e consolare, si può solo guardare con gli occhi teneri di chi ama.

E lasciami piangere per un po’.

Perché non so che altro fare.

Ostentami ‘sta dentiera

Soundtrack99 PosseCattivi guagliuni

Capitolo I

“quello che non mi piace è l’ostentazione. Poi, se qualcuno li picchia, se la sono andata a cercare”

Capitolo II

“La classe è la più accogliente della scuola, è lei che tende ad isolarsi. Forse trova il programma delle medie troppo pesante e cerca un modo per sfuggire”.

Capitolo III

Ma mi avete cordialmente rotto i coglioni. Questo ributtante 75% di popolazione italiana che crede di pensare, invece rutta cazzate stereotipate e bidimensionali. Voi. Voi che non riuscite a capire che qui si parla di persone e non di foto da pagine di giornale. Voi che non riuscite a connettere il cervello sulla realtà e immaginare che ognuno di questi ragazzi picchiati, vilipesi, umiliati e maltrattati perché diversi da voi, sono ragazzi. Carne sangue lacrime sudore vita dolore gioia madri padri nonni sorelle fratelli cazzi amari sorrisi baci amore cadute risalite passeggiate parole frasi e anima.

Cazzo anima.

Cosa vi impedisce di capirlo? quale neurone vi ha smesso di funzionare ed in quale triste e avvilente occasione? Avete bisogno di una risonanza magnetica per controllare se avete del materiale funzionante tra le orecchie?

Non vi fa schifo la puzza delle vostre parole inutili e cartonate?

Non siete stanchi di ascoltarvi ripetere sempre le stesse tre stronzate?

Davvero credete siano la realtà?

Tu, piccola miserabile segretaria rincoglionita. Tu, coacervo di luoghi comuni e buonsenso da rete fognaria. Tu come i permetti di parlare di ostentazione e di reazione ovvia? che cazzo ne sai tu? e come ti permetti di negare la sostanza di quello che hai detto? tu, stronza rincoglionita che non sei altro, non hai fatto altro che dire che al mondo, qualcuno, che non ti tocca, non ti riguarda, non ti conosce, non incide sulla tua monodimensionale e squallida esistenza, può essere aggredito e malmenato e ucciso perché ama. Questo è il cazzo del senso del discorso che stai facendo. Decerebrata piattola.

E tu, coordinatrice del cazzo di una prima media di provincia, come cazzo ti sei permessa di insinuare che una ragazzina ha inventato le umiliazioni, gli sputi, gli insulti, l’esclusione e l’ostracismo, perché le sue difficoltà la mettono in situazione di inferiorità rispetto alla classe?

Tu, chiavica della categoria, piccoloborghese provinciale e platinata, chi cazzo ti credi di essere?

Siete due rami dello stesso albero di sterco e odio e paura e cattiveria fine a se stessa.

Non so se riuscirò mai a capire cosa mai vi spinge ad essere vivi nelle vostre inutili esistenze e a ritenere degne di nota le vostre opinioni costruite a botte di canale cinque e rete quattro.

Che cosa vi devo augurare? un figlio gay o disabile? e perché mai dovrei maledire due persone in questo modo?

Un gay e un disabile proprio non se li meritano due genitori della vostra puzzolente sostanza.

Aah.

Ne avevo bisogno.

Olocausto – shoah – porajmos

SoundtrackUrsula Rucker1 million ways to burn

C’è sempre qualcosa da imparare. Per quanto la mia metà ebrea ci tenga, orgogliosamente, a sostenere di sapere tutto quello che c’è da sapere sull’argomento.

Invece apro wikipedia e scopro di non sapere un cazzo.

Non conosco il significato vero delle definizioni, non ne conosco le sottili differenze semantiche. Differenze legate a chi la inventa, quella definizione. A chi ha vissuto, quel pezzo di storia. A chi ne porta i segni.

In questi giorni penso spesso che, tutto sommato, se non fosse schifosamente politically incorrect, staremmo assistendo all’ennesima cacciata degli ebrei. In fondo ci risiamo di nuovo. Il potere delle banche, il peso dei prestiti, la povertà delle nazioni. Fino a 100 anni fa, anno più anno meno, la questione si risolveva dando la caccia agli ebrei banchieri ed economicamente conservatori. Si salvavano stati e reami così. Metodo spiccio e, a quanto pare, redditizio.

E siamo qui a ricordare, ancora una volta, l’apoteosi dell’odio immotivato e pretestuoso.

Mio padre, tra poco, non ricorderà più. Piccoli ma efficaci ostacoli bloccano, una dopo l’altra, le vene che nutrono cervello, memoria, parola, gesto.

Senza la sua memoria, resta poco. Restano le prove di sopravvivenza, ma non restano le parole del dramma e del dolore.

A breve, per lui, non ci sarà neanche la memoria di quel che resta. Di me e mia sorella. Della nostra piccola storia.

E forse troverà un po’ di pace. Magari potrà smettere di sognare i tedeschi che lo inseguono, potrà smettere di essere arrabbiato con il mondo che lo ha escuso dai giochi della gioventù, dalla scuola, dalla casa, dal quartiere, dalla sua stessa storia. Magari non avrà più paura di progettare, conservare, proteggere, tutelare, tesaurizzare. Non ne avrà più bisogno. E magari potrebbe non sentire più la colpa. La colpa di essere sopravvissuto alle deportazioni, alle mogli. O potrebbe ritrovarsi immerso e “immedesimato” (come dice lui) nel ricordo della paura, della fuga, del rifiuto, del disprezzo, dell’impotenza. Gli auguro l’oblio. Per lui e per me.

Lo guardo e penso, egoisticamente, che devo proprio essere stata una cogliona ad aver terrore di quest’uomo per quasi 40 anni. A vederlo adesso davvero non capisco come ho fatto.

Penso, giusto per ampliare il mio giardino, che devono essersi sentiti coglioni anche molti ebrei alla fine della guerra. Molte volte ho sentito fare la stessa domanda: “perché non si sono ribellati?”. Quando sento quasta domanda, faccio un po’ fatica a trattenere la capata in faccia.

Sono quelle domande senza senso (un po’ come la mia affermazione di coglionaggine), quelle domande vagamente razziste, superficiali, profondamente ignoranti.

Ho avuto paura di mio padre perché era un uomo irascibile, irruento, emotivo, autocentrato. Ho avuto paura di lui perché era forte, determinato, autoritario e autorevole. Ho avuto paura di lui perché siamo cresciuti così, con i suoi scatti di rabbia primordiali, con la sua voce tonante da orso grizzly, con le sue espressioni di disprezzo nette e limpide.

Non potevo non averne paura.

Che io adesso comprenda, improvvisamente, da dove arrivava quella rabbia, quella violenza verbale e quella severità ottocentesca, mi rende cogliona, è vero, ma mi rende anche una figlia che fa i conti con un ruolo che sta per non esistere più. E se non sei più figlia, non ha molto senso restare nella paura e nel rancore. Non lo si può appoggiare più da nessuna parte.

Gli ebrei non si sono ribellati per molti motivi. E non è esatto dire che non si sono mai ribellati. Ci sono molti episodi dei quali parlare. Episodi nascosti nelle pieghe della storia. Ma, comunque, secondo me, un popolo abituato ad essere buttato fuori da qualunque posto e dalla notte dei tempi, impara a sopravvivere adattandosi, non a fare la guerra.

Doveva essere difficile credere, in quel momento, che l’orrore avesse la forma e l’odore di un forno crematorio.

Doveva essere difficile credere che il treno piombato fosse destinato ad esseri umani.

Doveva essere difficile credere che il vicino ti avrebbe venduto per meno di 30 denari.

Doveva essere difficile credere che i tuoi figli sarebbero stati usati per fare esperimenti.

Doveva essere difficile credere che la vita e la morte sarebbero state, casualmente, affidate alla voce ed al capriccio di un sottufficiale dell’esercito.

Doveva essere difficile credere che non ci sarebbe stato scampo e che li avrebbero presi uno per uno.

Per me era difficile credere che mio padre avesse debolezze. O paure.

Con la generazione di mio padre, la memoria muore. A guardar lui, mi sembra di vedere la rappresentazione di un secolo assolutamente folle che è passato dalla violenza animalesca a twitter. Progressivamente dimenticando cosa è stato, cosa ha creato, cosa ha sofferto e faticato.

Eccoci qua, io a guardare mio padre che si sforza come un dannato per essere presente a se stesso e noi tutti a guardare il mondo che si sforza di fingere di essere migliore.

‘Na botta di vita

SoundtrackTears For FearsShout
(perché è vintage e ci sta bene)

Ieri, botta di vita.

Con R&B, Donnie Darko, V*, invece di vedere la partita del Napoli (appuntamento sacrosanto come da cliché emigrantesco), serata lella al Nylon. Locale a Trastevere. Mondanità inusitata per me che sto diventando paesanella e culo pesante.

In questa casa ci sono 14 gradi. 14. Pompa di calore a palla. Per ottenere 18 gradi da metà casa in poi. Nella prima metà restano i 14. E nella prima metà c’è il divano imperiale nuovo sul quale vegeto gloriosamente. Ho una onorevole gatta centenaria a destra e un ragazzone peloso a strisce a sinistra. Dettagli. Con il loro perché.

Dunque serata mondana.

Mi guardo intorno. Lesbiche vintage  a badilate. Inizio a macinare atrocità da riportare sul blog. Penso sia la volta buona per riaprire la categoria “lesbica quotidiana” che langue da più di un anno. Il cervello rumoreggia osservando stili, atteggiamenti, frasi, approcci, movimenti, colori. Comincio ad immaginare feroci sarcasmi su ogni singola lesbica che vedo, da trasferire in Penelopebasta appena rientrata.

Categorie, standard, segni di riconoscimento, orrori stilistici. Tutto il campionario.

Ma qualcosa non va. Non va per niente. Qualcosa non scatta. Mi chiedo se poi sia così necessario. Mi chiedo a cosa mai possa servire. Sì, lo so che ridersi addosso fa bene. Ma in questo periodo ho anche altre cose in mente e nel sangue.

Ho in mente che sono stanca di essere trattata una merda in quanto omosentimentale.

Ho in mente le frasi che sento da vescovi, cardinali, papi, pidielli, leghisti e piddini.

Ho in mente gli insulti che mi accompagnano, costantemente, in questi ultimi due anni.

Il tono si è alzato sempre di più, ogni giorno un po’ di più, ogni settimana una tacca al volume.

E io mi sono rotta il cazzo. Mi sono rotta il cazzo di essere insultata da indegni rappresentanti di una religione misogina e maschilista che non sapendo come fare per non affondare definitivamente, ha rispolverato il mito del nemico da combattere. Che pare brutto prendersela per l’ennesima volta con gli ebrei e assolutamente sconsigliabile dare addosso ai mussulmani. Quindi cosa c’è di meglio dei ricchioni e delle lesbiche? Il perfetto agnello sacrificale per una categoria che non si fa specie di mescolare pedofilia e omosessualità e che nega umanità, comunione, affettività e dignità ad un pezzo di popolazione come fosse parte integrante e necessaria di una dottrina che predica perdono e comprensione. Preti e religiosi. Omosessuali repressi e repressivi. Omofobici e dannati. Perché ad odiar se stessi ci si danna e niente più.

Sono stanca di questo perché ad ogni rutto di questa improbabile papessa e dei suoi chihuahua con cappottino rosso, io devo fare un passo indietro, avere un po’ più paura, pararmi il culo nascondendomi un po’ di più.

E mi sono rotta il cazzo di questi politicanti miserabili, cafoni ed arroganti, ignoranti come capre e improduttivi come stalattiti di merda in un condotto fognario che ritengono di avere qualcosa da dire su di me, sul mio stile di vita, sui miei amori, sul sesso che faccio affibbiandomi un valore che non ho, un immagine che non ho, una responsabilità che, cazzo, non ho. E questi ragli arrivano da gente che paga trans e puttane, prende mazzette, importuna i bambini, scopa minorenni, mangia stereotipi e banalità da bar di paese, non parla italiano e non vede al di là del proprio miserabile cazzo.

Ho detto cazzo? Sì.

E sono stanca delle donne che lo fanno. Anche di loro non ne posso più. Di queste zoccole rifatte, di queste mezzecalze, servette che dopo essersi vendute la fica fino a consumarla, hanno finito per vendersi il cervello. A forfait.

Sono stanca di sentirmi dire di essere un paria, un virus, una malata, un danno per la società, un pericolo per i bambini, una fantasia pornografica, una peccatrice irredimibile, uno scherzo della natura, una sottospecie umana.

Una che si può picchiare per strada. Che si può insultare. Che si può disconoscere. Che si può sminuire. Che si può svilire. Che si può attaccare. Che si può negare.

Che non merito, che non ho il diritto, che non devo mostrarmi, che non devo affermare, che non devo chiedere.

In questi ultimi 5 anni abbiamo dovuto fare più passi indietro di quanti ne abbiamo fatti in avanti nei 10 anni precedenti.

Io non voglio indietreggiare. Io non voglio cadere in questa fottuta trappola da fine impero. Io non voglio essere il capro espiatorio di un paese che non sa salvarsi e non capisce con chi cazzo se la deve prendere per davvero.

Mentre io ho il privilegio di sapere perfettamente con chi prendermela. Che culo.

Quindi, pensando a tutto questo, ho deciso che quelle lesbiche vintage romane del Nylon io, le amo.

I nostri capelli corti e la nostra intolleranza alla tintura. La nostra mancanza di stile. Il nostro essere totalmente DE-fashion, i nostri stivali, i nostri pantaloni improbabili, la nostra allergia al trucco e al corretto accoppiamento di colori, la nostra grigérie, le nostre mascelle tirate e i sorrisi trattenuti, i nostri sguardi da guerrieri dell’anno mille.

Noi ci siamo. Così come siamo. E fanculo ai vostri fottuti fanatismi da disperati che annegano nella fanga che avete prodotto in questo decennio.

Buffoni.

Tradizionali auguri di natale

SoundtrackDeath Cab for CutieUnderneath The Sycamore

Dal primo anno di vita di questo blog – natale 2007 – faccio gli auguri di Natale. Non posso farne a meno, a quanto pare. Quindi si procede anche in questo strano anno pieno di paura e di rabbia per tutti. Per un motivo o per un altro.

Buon Natale alla mia Biancaneve, prima di tutto, cuore di questo cuore, vita di questa vita. Non ci vedremo neanche stavolta, ancora. Ma stasera infilerò il naso nelle mie lenzuola e mi addormenterò tra le braccia del pensiero di te. E’ già qualcosa, a volte non c’è neanche questo. Buon natale alla leonessa che ti abita dentro, al coraggio che non perdi, all’amore che produci (immagino una fabbrica piccola piccola, nel ventricolo destro, piena di cinesi alla catena di montaggio 24 ore al giorno; lavorano come ciucci, vorrei sapere di cosa mai sono contenti, i tuoi cinesi ventricolari, ma sembrano contenti). Buon natale ai tuoi piedi che avanzano imperiosi in un mondo nuovo e tutto da inventare. Buon natale ai tuoi occhi fatti di acque termali calde e curative. Buon natale alla tua bocca morbida che costruisce con cura parole giuste nei momenti giusti. Buon natale alla tua anima calibrata e curiosa, alle tue mani generose ed al tuo morbido ventre cuccia calda e comoda per me, spuntuta (appuntita, N.d.T.) gnoma drogata di te. Buon Natale, Biancaneve. Che tu sia serena e mai sola, che tu possa allungare la mano e sempre trovare chi te la prende e la riscalda, che tu possa vivere tutta la tua vita come la vuoi, quanto la vuoi, tutte le volte che vuoi.

Buon natale alla mia stracciata, squilibrata e anomala famiglia. Che più passa il tempo e più mi piace. Buon natale a mio padre, guerriero senza armi e senza più guerre da combattere. Buon natale a mia sorella, che non mi è capitata, no. Credo mi abbia scelto e, ogni giorno, vivo il privilegio di questa scelta. Buon natale a mia nipote, anima irrequieta e uccello migratore, piccola donna che se non prova non crede, nipote preferita – e non solo perché l’unica -. Buon natale agli altri piccoli, sparsi pezzi. Buon natale alla zia che non vedo da anni, i suoi figli feriti e ai due cugini che, sorprendentemente, camminano paralleli a me, pochi passi più in là ma sempre là. E ritrovarsi è divertente e sorprendente. Tutte le volte. Buon natale, allora, alla famiglia che ho. Che possa mantenere questo anarchico e scostumato legame e continuare a fingere che non ce ne sia uno. Si vede che stiamo meglio così.

Buon natale ai miei amici. Alle anime in pena che cercano requie, agli uomini che cercano di diventarlo. Buon natale a chi fa i conti con gli anni, con le scelte, con la vita, con il dolore, con l’amore, con se stess*. Buon natale alla loro pazienza, alla loro presenza, alla loro vicinanza, alla loro baldanza, alla loro esistenza. Che mi fa sembrare natale ogni incontro e ogni pranzo fatto insieme. Buon natale e vite nuove. Amori nuovi. Odori nuovi. Parole nuove a tutti voi.

Buon natale a chi lavora con me. Sarte pazienti intente a cucire e ricucire, rattoppare, rinforzare, allungare ed accorciare quella strana stoffa che compone le anime dei bambini che incontriamo. Trovando il tempo per accarezzare le ferite di una di noi, le illusioni dell’altra, il dolore di un’altra ancora e abbracciare chi non ce la fa, aspettando che possa ricominciare. Che si possa continuare a vivere il lavoro come fosse vita e a sentir calore ogni volta che ci si ritrova in cucina a mangiare patatine e cioccolata.

Buon natale a chi ancora legge queste righe, dopo quattro anni, trovandoci ogni volta qualcosa che gli appartiene. Buon natale a chi si lascia abbracciare da queste righe fitte fitte. Buon natale a chi non smette di nutrire. Che possiate essere. Che possiate crescere. Che possiate vivere.

Buon natale alla mia gatta vecchia. Nervosa ed indignata per essere costretta a condividere spazi ed abitudini con due giovani ragazzoni pelosi energetici e irrispettosi. Non so quando mi perdonerà. Ma spero che questo natale impari anche lei che un gattone di 8 chili può essere comodo per stare più calda in questa casa gelida e impossibile da riscaldare.

Buon natale alla famiglia di Biancaneve che, per quanto non mi piaccia, è la sua ed ha le sue ragioni. Che il natale vi porti un po’ di serenità che tanto, qui, non c’è niente da capire e niente da combattere. Fatevene una ragione. Ed al suo ex marito spero babbo natale porti un nuovo amore e una nuova casa. No, non sono generosa né gentile, è che staremmo meglio tutti.

E buon natale a questo paese da medioevo, che trasuda paura e cinismo, che cade sempre negli stessi errori, che non capisce mai cosa deve fare per diventare un paese adulto e, nel frattempo, è diventato un paese vecchio. I periodi brutti finiscono e finirà anche questo, nel frattempo spero che il regalo più bello vada ai ragazzi, quelli veri, quelli che non hanno ancora compiuto vent’anni. Spero che nel pacco ci sia speranza, fiducia, immaginazione, voglia di essere migliori dei propri padri e delle proprie madri e non per la cilindrata delle auto o per il colore delle tende, ma per anima, etica e senso collettivo.

Buon natale alla Agos che cerca di riavere i soldi da me e che, tra un po’, mi manderà qualcuno con una mazza da baseball. Pregate con me che io vinca al superenalotto: è l’unica chance che abbiamo.

Buon natale a me, alle mie converse one star invernali nuove di pacca che sono fichissime. Ai miei umori fragili ed ai miei nervi scoperti, alla mia pazienza ed alla mia voglia di scrivere, alla mia pigrizia ed alla mia voglia di vivere. Mi concentrerò per il superenalotto, come dicevo ma, comunque, di regali ne ho talmente tanti ogni singolo momento ed ogni singolo respiro, che proprio non mi posso permettere di lamentarmi.

Se non fosse chiaro, buon natale a tutti.

Presepe 2011

SoundtrackTwo Doors Cinema ClubSomething Good Can Work

Ogni anno, al lavoro, si fa il presepe. Questo ormai lo sanno anche i sassi. Abbiamo fatto il deserto, il mare, l’isola greca, la collina toscana, l’anno scorso il titanic e quest’anno il condominio.

72 appartamenti/monolocali. Uno per ogni cicciopiccolo.

C’era da scegliersi palazzina e piano, colore dell’interno, numero di abitanti e quale stanza della casa rappresentare. Al centro c’è un giardino. Nel giardino un palco da concerti. Lì ci va la natività che, puntualmente, ogni anno, dimentichiamo di mettere (l’anno scorso finì su una scialuppa).

La novità vera è stata quella di far venire i genitori a lavorare con i propri figli alla realizzazione del monolocale.

E ho visto cose che voi umani non potete immaginare.

Ho visto cose che mi hanno fatto commuovere e cose che mi hanno fatto incazzare. Ho capito che se un genitore mi sta sul cazzo ho il dito puntato e tutto mi sembra inadeguato. Se mi è simpatico giustifico la qualunque. Ho visto cosa “scende per li rami” e cosa rende più facile o difficile il mio lavoro. Ho visto affetto. Confusione. Ansia. Piacere. Imbarazzo. Curiosità. Strafottenza.

Un pomeriggio l’ho passato a guardare una madre e un figlio seduti al tavolino ikea tra das, colori, stecchini, stoffe e polistirolo. Loro chiusi in una bolla morbida, una placenta immaginaria. Il cicciopiccolo di solito iperattivo era calmo, seduto, sereno. A bassa voce si dicevano cosa fare, come farlo. Insieme impastavano e trafficavano. Non era pensabile intervenire. Mi ha trapassato il cuore da parte a parte. La natività erano loro. Essere madri e essere figli erano loro. Essere famiglia erano loro. Essere amati erano loro. Ho dovuto distogliere lo sguardo molte volte. Un’emozione troppo violenta per me, troppo difficile da sostenere. Maddiochebello.

Mi sono divertita a guardar madri che insallaniscono (=rimbambiscono, N.d.T.) figli maschi facendoli credere di far qualcosa mentre è niente che stanno facendo (i figli). Madri preda del peggior delirio di competitività che io abbia mai incrociato. Mamme capaci di accettare i più inguardabili prodotti del lavorio dei figli pur di vederli contenti, madri che hanno lanciato nel cestino produzioni ritenute “non belle”, madri imbarazzate dalla presenza delle terapiste, madri che non sanno lavorare in tridimensionale. Madri maestre. Madri spaventate. Madri cristallizzate. Madri liquide. Madri massicce. Madri alcolizzate alle 2 del pomeriggio.

Il presepone sta venendo bene. Ha qualcosa di caldo e morbido in sé che non so spiegare. Bisognerebbe vederlo.

Nel frattempo tutto questo interagire familiare e tutto questo osservare madri che fanno cose divertenti con i figli, ha come effetto rebound (si dirà così?mah?) il farmi sentire sola. Spaventosamente sola. Irrimediabilmente sola. Perché è così, il senso di solitudine ce lo devo avere di default, evidentemente e, credo, gran parte delle cose che faccio o che uso per riempire la mia testa, poco altro è se non un tentativo di tenere a bada la sensazione di non avere avuto e di non avere, mai, una placenta immaginaria nella quale sedermi e parlare a bassa voce.

A volte mi chiedo come ho fatto ad imparare ad amare (ammesso che io lo sappia fare) e perché mai un figlio non l’ho fatto.

Saranno bilanci da menopausa.

Inizio, poi vedremo

Soundtrack: Arctic MonkeysShe’s thunderstorms

Non so proprio di cosa scrivere, ma ne ho voglia. Molta voglia.

Ho riletto alcune cose scritte un paio d’anni fa e mi viene da sorridere guardando il mio livore, la mia rabbia e il mio bisogno di farmi notare.

Perché alla fine quello quell’è.

Non sarei in grado, ora, di analizzare la vita altrui e mia con cotanta presunzione.

Insomma, mi capisco ma non mi condivido più.

E’ vero, in parte è vero che il mondo è fatto di cose classificabili, riconoscibili e riconducibili ad un modello standard. E’ vero. Ma è apparenza. Armatura. Mimesi. Paura.

Credo sia un ragionamento da pancia piena, questo. Un ragionamento sul divano dell’amore assicurato e del quotidiano accompagnato. Per quanto nel mio caso si applichino parzialmente, assicurazione e accompagnamento.

Ma è così, il cuore caldo spaventa la paura e tutto sembra molto più sciolto, semplice e personale. Sto scialla, direbbero i giovinotti della capitale.

Non ho bisogno di appartenere perché appartengo. Non ho bisogno di sembrare perché sono, non ho bisogno di travestirmi perché posso farmi vedere nuda.

Questo succede, credo, quando ami e sei amata. E mi sembra di vedere tutta la strada fatta strepitando e sbattendo i piedi e agitando i pugni nell’attesa di incontrare l’incrocio che mi facesse smettere.

Ma che tenerezza che mi faccio.

Sto buona stasera. Stanca e buona. Tra poco comincia il presepe annuale al centro dove lavoro. Il tema è “il condominio”. Faremo dei palazzoni con appartamenti vari e ogni cicciopiccolo e il relativo genitore si occuperanno di costruire personaggi e oggetti.

Quest’anno lavoreranno con noi anche i genitori. Perché sono stanca di prendermela con le madri dei miei ciccipiccoli accusandoli di qualunque nefandezza e incapacità. Sono stanca di dare una colpa che non c’è e sono stanca, per l’ennesima volta, di riempire di responsabilità donne che si fanno un culo così dalla mattina alla sera occupandosi di due miliardi di cose contemporaneamente.

Cherchez la femme (ho dovuto controllare su google per vedere se era scritta bene). Ma chi cazzo l’ha detto?

Ho imparato, osservando Biancaneve da vicino, che le madri non sono una categoria. E neanche le lesbiche.

Le madri sono persone (donne, in particolare) che si assumono la responsabilità del nucleo atomico sociale. E lo fanno in maniera totale e assoluta. Anche quando lavorano, anche quando sono matte come cocuzze, anche quando so’ stronze.

E ogni madre educa un figlio in relazione ad una serie di variabili che neanche un elaboratore IBM potrebbe conciliare.

Vedo donne mettere insieme il bagaglio ricevuto “in dote” con le proprie aspirazioni (a volte coincidono, a volte DEVONO essere diversi), considerando il tessuto sociale di quel momento, mediandolo con il bagaglio e le aspirazioni di un uomo e centrifugare l’insieme per renderlo potabile ad un bambino che deve restare vivo per poter poi crescere al meglio di ogni possibilità. Il tutto scartando continuamente attentati emotivi, affettivi e sociali. E incastradosi periodicamente in un imbuto fatto di dubbi e incertezze e messe in discussione. E cambiando direzione all’improvviso, quando le cose cambiano, quando gli eventi lo chiedono, quando il gioco si fa duro. Il non previsto arriva e arriverà sempre, per quanto io veda ognuna di queste donne/madri cercare di pianificare e prevedere anche l’assurdo. In questo bailamme che sfinirebbe un ippopotamo, ci si deve anche dotare di biancheria intima sexy. Non ingrassare. Combattere la cellulite. Leggere libri. Conoscere il programma scolastico di tutto il ciclo della scuola primaria e secondaria. Comprare mutande a tutti e autoreggenti per sé. Fare la spesa e cucinare 14 piatti diversi in una settimana. Uscire la sera e fare bella figura senza addormentarsi con bavetta alle 10 e mezza sul divano del dirigente del marito. Saper aggiustare elettrodomestici. Non sfanculare i figli sotto i sedici anni quando ti sfrantano i coglioni alle 11 di sera perché non vogliono dormire e non spengono la nintendo. Fare il gendarme perché i suddetti figli si lavino, facciano i compiti e mangino decentemente, perché i mariti aiutino, le suocere si facciano i cazzi propri, le nonne non interferiscano, le amanti dei mariti non esagerino e i colleghi non ti facciano lo sgambetto. Pulire casa come un’impresa professionale. Mettere le scarpe coi tacchi. Fare i cambi di stagione al momento giusto. Decidere con 50 euro di comprare i pantaloni ai figli e non una maglia per sè, anche se sono passati 306 anni dall’ultimo acquisto decente. Cucire bottoni. Guidare la macchina come un driver professionista per arrivare in tempo a scuola, al basket, al catechismo, dai nonni, al lavoro, in ospedale dalla zia, dalla sorella depressa, dall’amica che l’ultima volta che l’hai vista il figlio era appena nato adesso sta alle medie.

E mentre sudano come foche in questo perenne movimento iperattivo, arrivano le voci di fuori. Non sono abbastanza educati. Non ti curi di te. Non sono abbastanza fighetti. Non scopiamo abbastanza. Non puoi prendere decisioni così rischiose. Non sta bene. Non è giusto. Non mangiano abbastanza. Non parliamo abbastanza. Non li responsabilizzi. Non puoi fare tutto, devi rinunciare a qualcosa. non si può mangiar pizza tutte le sere. Non ci sei mai. Sei troppo dura. Sei troppo arrendevole. Non sai gestirli. Sei ingrassata. Sei troppo ansiosa. Sei troppo protettiva. Li lasci troppo soli.

Mi pare che mi posso fermare. Ma ci potete aggiungere quello che cazzo vi pare. Tanto ci sta tutto.

Non sarà per tutti così, ma per la maggior parte sì.

Quindi non ho più voglia di ritenere colpevole una madre per ogni figlio iperattivo, inibito, dislessico, con ritardo del linguaggio, balbuziente, maleducato o rompicoglioni.

Le guardo e penso che fanno quello che possono. Al meglio di sé. Impregnate della loro storia, del loro dolore e dei loro dubbi. Con marchi a fuoco che io neanche conosco. Spaventate a morte ma sempre a far scudo. A volte in ginocchio, a volte in piedi, a volte con la testa nella sabbia.

Preferirei imparare a dir loro che va bene così, va bene. Che lo so che più di questo non credono di poter fare. E che qualcosa di nuovo, insieme, ce lo potremmo pure inventare. Per star meglio tutti.

Più sopra ho scritto che il cuore caldo spaventa la paura. Me lo devo ricordare anche quando lavoro.

Ma come sto romantica stasera.

Prossimamente un pippone sul potere sociale dirompente delle lesbiche.

Pigrizia e amori che finiscono

SoundtrackMaroon 5Give A Little More

Ascolto Pesatori, leggo l’oroscopo internazionale e non mi cambia un cazzo. Pigra sono e pigra resto.

E manco ho voglia di far qualcosa. Mille progetti sospesi. Faccio orecchini adesso.

Non proprio adesso. In questo periodo.

Ho delle amiche. In difficoltà di coppia. A volte mi chiedo se il trascinare rapporti non sia una forma di pigrizia sentimentale.

Mi chiedo anche perché mai si creda che portare avanti un rapporto esausto sia da considerare un atto di gentilezza nei confronti dell’altr*.

Ma ricordo anche molto bene quanto sia difficile chiudere quella porta e “mandar via” qualcun* dalla propria vita. Qualcun* cui si è voluto bene, che si è amat*. Qualcun* di cui ci si è innamorat* pazzamente e follemente.

E, come ho detto spesso, quel gesto che ti ha portato al nirvana della mente e della carne diventa, una mattina di un mese qualunque e di un giorno della settimana qualunque, l’intollerabile prova di una presenza inutile, sgradevole, fastidiosa, soverchia.

Nel frattempo ho al telefono Biancaneve che vive la sua prima esperienza di festicciola preadolescenziale dei nani.

Amore mio, abbiamo la memoria corta. Rido ascoltando i suoi turbamenti da violazione di domicilio. Ridiamo da stamattina.

Dicevamo.

Credo di sapere quali meravigliosi discorsi può fare una mente per costruire un’impalcatura di bamboo che sostenga un amore che non esiste.

Ma proprio perché lo ricordo ancora, sono certa che si tratti di pigrizia, pavidità. E forse anche più di questo, la narcisistica pretesa che l’altr*, senza di noi, non ha speranze. Il che la dice pure lunga sulla natura del rapporto.

Se io credo che *l* mi* compagn* non sia capace di badare a se stess* e che ha bisogno di me per campare, non l* amo, non l* stimo, non l* considero un* pari. L* considero un animale da compagnia.

E non è un granché, per un rapporto di coppia. E non può durare. E non ha valore.

Non ci si dovrebbe legare ad una persona che non si stima e, di questo sono certa, lo sappiamo da subito se stimiamo qualcuno. Dalla prima volta.

Ma tira di più un pelo di fica che un carro di buoi. Metaforicamente parlando.

Certo tira anche la sindrome dell’infermiera. E una buona infermiera non può abbandonare il proprio paziente se non è guarito. E se non è guarito non si è state buone infermiere. Tanto vale, allora, farlo morire ‘sto paziente.

E chi si trova dall’altro lato vede lo sfacelo, il fastidio, la putrefazione dell’amore morto e pensa “ci sto provando, ma non so cosa fare”. Ed è una cazzata. Una gran cazzata. Chi sta dall’altra parte non ci prova, non ci prova perché non ama più. E piuttosto che ammettere il proprio non amore, preferisce considerare l’altr* un* bambin* capriccios* che vuole qualcosa che non può avere.

Non sono io a non volerci stare, è l*i che me lo impedisce.

E le cose si trascinano. Si spengono. Si sfaldano. Diventano orrende a vedersi e a viversi e si aspetta.

Si aspetta che arrivi un gancio, un ascensore, una gru, un passante qualsiasi a trascinarti via. Qualcun* che stavolta salvi te.

Funziona, in genere. Alla fine funziona davvero. E serve ad entramb*. Si ritrova amor proprio e voglia di ricominciare. Quasi sempre. Ma sarà difficile ritrovare qualcosa in comune. Non ci si rincontrerà più.

Solo mi spiace vedere le storie finire così. Sarebbe bello avere il coraggio di dire a qualcuno, semplicemente: “non ti amo più”. Il più presto possibile, il più limpido possibile.

Almeno così resta qualcosa.

Stima di sé, stima dell’altr*.

Credo, almeno.

La festa di là continua, i nani sono scatenati. Sentire le loro voci attraverso il telefono mi diverte e mi fa sorridere. Vorrei esserci.

Ma-non-è-ancora-il-momento.

 

Avete ragione

SoundtrackJill Scott Feat Anthony HamiltonSo In Love

Non mi faccio sentire da molto.

Forse è per non turbare questa quiete che sembra una magia. Niente casini, niente difficoltà, niente lutti, niente dolore. E io senza un po’ di dolore non so scrivere.

Oggi sono a casa iperraffreddata. Di quei raffreddori che mi fanno sentire una mappina (=straccio; N.d.T.)  a rotelle.

Mi si prepara un altro anno in questa casa gelida che, però, mi piace e mi appartiene. Mi arrangerò.

Fuggo dalla finanziaria che mi ha pagato la macchina e mi rifiuto di ottemperare alle rate che mi competono.

Sticazzi. Quando potrò, riprenderò.

Guardo con orrore tutto quello che succede a questo paese e penso di aver letto tutti i segnali di questo squagliamento morale e sociale qualche anno fa. Perché tanto, lo sappiamo tutti, la questione non è solo dei governanti e dei partiti. Ognuno di noi ha permesso che una quota di squagliamento si materializzasse senza minimamente far caso alle conseguenze.

E rincoglionita come sto, ho voglia di dire che mi sono rotta il cazzo dei funerali che durano tre giorni passati ai tg tre volte al giorno come un antibiotico. Mi sono rotta il cazzo delle immagini splatter piantate nei miei occhi come se non dovessi cogliere la differenza tra CSI e la morte senza dignità. Mi sono rotta il cazzo dei miei giochini di facebook, che mi drogano e mi attorcigliano il pensiero, mi sono rotta il cazzo dei post su facebook tutti uguali e tutti senza un minimo di critica e informazione aggiuntiva (anche i miei).  Non ne posso più di sentire le stesse identiche fottutissime frasi. Le diciamo tutti. Le recitiamo tutti. Un mantra di ignoranza che nasconde il reale disinteresse per qualsiasi cosa intorno.

Penelope cerca di salirmi sulla tastiera del computer. A 21 anni potrebbe pure stare nu poc chiù quiet. In quell’ora che passa sveglia  si annoia e vorrebbe qualcosa da me che non so cosa sia.

Con Biancaneve va bene, procediamo con lentezza bradipa verso non si sa cosa. Come un gatto sulla vetrinetta degli oggettini della nonna, cerchiamo di non far cadere niente e di non rompere bomboniere e vasi di cristallo. Che poi di cristallo non sono. Ma ogni vetro è cristallo a qualcuno.

Cerco di trovare nuovi modi di lavorare perché, perlopiù, mi annoia fare le stesse cose.

Odio ammalarmi. Mi prende male. Mi prende “vogliomamma” e invece me la devo cavare da sola. Cheppalle.

Il tempo è bigio e grigio. Un albero, davanti alla mia finestra, si è spaccato ed è caduto. Dall’altra parte, per fortuna.

Forse non è tutto così immobile e forse un po’ di dolore, da qualche parte, c’è. Ma non abbastanza per scrivere decentemente.

Sarà la menopausa.

buone vacanze

SoundtrackAmy Winehouse – It’s My Party (feat. Quincy Jones)
(tribute)

Periodo pieno, dove il personale diventa collettivo ed il collettivo personale. Al di là di ognuno.

Sono veramente stanca quest’anno.

Fisicamente e mentalmente.

E non mi è facile fare i conti con la mia impotenza, con le frustrazioni reiterate e con i desideri repressi…

Machissenefotte.

Immagino non molti di voi andranno in vacanza, il periodo è quello che è.

Qui gatta Penelope resiste, con i suoi 21, il suo pelo imbalsamato e le sue urla belluine.

Qui Penelope umana resiste, con i suoi 48, il suo pelo corto e la bruschezza congenita (che non è bruschetta, che sarebbe meno invasiva e anche mangiabile; è proprio maleducazione interpersonale).

Raggiungo mia sorella per qualche giorno e penso di rifarmi una full immersion in Positano anche di poche notti. Mi piacerebbe. Perbacco.

Al di là di questo, che pure esticazzi, mi chiedo casa fate voi, orfani di un blog personale e sfacciato come è stato questo. A volte me ne sento orfana anche io, quando mi accorgo di non scrivere più post nella mia testa mentre vivo qualcosa, quando mi rendo conto che di categorie, comportamenti, analisi e sintesi non me ne fotte più un grande che. E anche quando mi accorgo che non mi va più tanto di scrivere di Biancaneve. Un po’ perché mia nipote ha detto che son diventata mielosa, un po’ perché non mi va di raccontare i cazzi miei al marito di Biancaneve medesima.

Me ne sento orfana quando mi rendo conto che non è più così importante, per me, andare a guardare chi è passato, chi ha scritto, chi è collegato, chi ci ritorna. E’ un piccolo lutto.

Ma di chiuderlo non ho voglia. Ne abbiamo già parlato, questo spazio è la mia oasi e tale resterà, prima o poi lo riprenderò tra le braccia e ne farò il posto dove riposare o qualche altra cosa che ancora non so.

Mi sembra che le cose mi siano cambiate sotto le mani senza neanche accorgermene. E anche la mia pelle, il mio profilo,  il mio modo di lavorare, il mio giustizialismo, la mia rigidità, la mia durezza. Non so cosa sia successo ma è successo.

Qui c’è penombra, che fuori fa caldo. Alla radio ci sono i Genesis, questo pezzo non lo conosco ma i suoni e le voci non possono essere confusi con nessun altro. La lavatrice lavora sullo sfondo. Ultimi panni da lavare e stirare prima di partire. Penso a quello che vorrei fare e che non posso fare. Come tutti. Come sempre. Penso al mare. Che mi ricarica e ripulisce. Penso al sale. Che mi da l’idea di stare meglio, di essere più saporita. Penso a quei paesaggi mediterranei, greci, sardi. Pietre e mare e alberi bassi e siepi secche e sabbia e montagne sofferte e cieli bianchi e mari ghiacciati e piccoli pesci scostumati che vengono a morderti i piedi.

Penso ai pomeriggi tardi sulla spiaggia che smette di cuocere e inizia a cullare. L’ora in cui dormire. L’ora dell’ultimo bagno, quello che ti lascia i capelli bagnati. L’ora che impone al mare di tirar fuori l’odore salmastro e fresco. L’odore del vento e del sale. L’odore del mare. Quello. L’ora delle vele, dei windsurf, delle folate che increspano la baia, dei colori che contrastano forte, che si fanno notare. Che riposano gli occhi dopo una giornata accecante passata con le palpebre strette e gli occhiali da sole. L’ora di birra e patatine. L’ora della soddisfazione guardando i gradi di abbronzatura guadagnati. L’ora di chiacchierare senza tenere la mano aperta sulla fronte per fare ombra.

Il momento di scotoliare l’ascuigamano cercando di non investire nessuno con quintalate di brecciolino e sabbia. Il momento di rifare lo zaino ma cazzo, questo coso è ancora bagnato, me lo tengo sulla spalla. Camminando sulla sabbia con la sigaretta in bocca verso lo stabilimento, la macchina, la casa. Con le spalle al mare ed alla spiaggia che non urla più. Perché cazzo, quanto urliamo noi italiani sulla spiaggia. Un po’ di maestrale ti arruffa i capelli e ti fa venire il prurito sul collo salato. La sigaretta è più saporita adesso.

Prendiamoci un gelato. Io continuo a volere il Camillino. Vanno bene anche i suoi cugini moderni. Ma il Camillino era un’altra storia. E il succo di pomodoro condito e senza ghiaccio, il vizio di famiglia.

Buone vacanze a tutti voi, ai vostri vizi, ai vostri desideri realizzati

cosa è successo.

Soundtrack: Marta sui tubiDi vino

E’ successo che qualcuno ha collegato il mio nome al blog e lo ha letto.

E’ successo che una cosa che riguarda me e Biancaneve e che io ho scelto di rendere pubblica perché me lo posso permettere, è diventata un’arma rovinosa e perniciosa.

E’ successo che chi si è preso la responsabilità di cercare cose che potevano potenzialmnte essere dolorose, non è stato disposto a tollerarne le conseguenze. Conseguenze che sono, appunto, il dolore della scoperta.

Io le chiamo “le prove che non si possono portare in tribunale”. E penso che, quando ci si lascia prendere dalla voglia di farsi male rimescolando nel provato della propria ex (ma anche della propria durante, è uguale), ci si mette a fare capa e muro e non si può colpevolizzare chi, quelle prove, non te le aveva mostrate o non voleva tu le vedessi.

Abbiamo tutti diritto ai nostri margini di clandestinità. Ad ogni livello.

Stamattina sono molto nervosa e sufficientemente incazzata per spiegarmi meglio, per essere più diplomatica e per risparmiarmi le opinioni che ho su questa faccenda.

Il risultato è che ho dovuto chiudere il blog di corsa per proteggere Biancaneve e, paradossalmente, la persona che ha passato qualche ora su internet a cercare informazioni su di me fino a trovare Penelopebasta.

Lo riapro criptando i post che riguardano lei.

Ed è per pura gentilezza che lo faccio.

Questo blog è aperto da un po’, direi quasi quattro anni. E’ il mio blog. Ci scrivo il cazzo che mi pare. Lo legge chiunque ne abbia voglia. Mi ha portato grandi casini e grandi soddisfazioni. Nuovi amici e grandi litigi.

E’ il MIO cazzo di blog.

Se vuoi continuare a leggere, accomodati. Se ritieni di voler commentare, fai pure.

Io non smetto, né di scrivere post sui cazzi miei, né di amare la tua ex moglie.

Buona giornata.

il pubblico è (de)privato

Soundtrack: Raphael Gualazzi Behind The Sunrise

Seguo le elezioni come un gatto col topo. Mi nascondo. Mi acquatto. Questa non è più politica. Non è più democrazia. Ma io sono ancora di parte. Sottopelle.

Per quanto io pensi che dovrebbero tutti, ripeto TUTTI, tornarsene a casa e mollare quelle poltrone rosso fuoco che non si meritano e non rappresentano altro che loro stesse (le poltrone medesime), ho ancora le mie idee e me le tengo strette.

Credo in una cazzo di uguaglianza sul piano umano che non può far differenze tra me, impiegata a 1200 euro al mese e te, imprenditore miliardario con villa alle Cayman. Perché non siamo diversi affatto. Ci ammaliamo uguale, sbagliamo uguale, abbiamo ragione uguale, ci facciamo un mazzo tanto uguale. E se è vero che tu permetti a me di avere uno stipendio, io permetto a te di pagarti l’aereo personale. Con il mio pensiero, il mio sudore, le mie mani, le mie tasse, i miei mutui e le mie vacanzette.

Credo nei diritti civili, perché siamo uguali e viviamo le stesse vite (orpelli e fronzoli sono un fottuto optional cui tieni tu, non io) e che io sia omosentimentale, colorata, idolatra, randagia, schizzata, analfabeta, carrozzata, non son cazzi di nessuno se non miei. In qualità di essere umano, come te, non vedo cosa mai può fare la differenza per stabilire cosa non merito di avere o cosa non farebbe di me una cittadina come altri. Ed in qualità di essere umano, merito il meglio che posso offrire a me stessa. Perché la società è fatta da me e tanti come me.

I giudizi morali, l’etica religiosa, il pregiudizio sociale, lo stereotipo vigliacco, sono fregi dorici di colonne che valgono perché son colonne  e reggono il palazzo, non perché sono ornate.

Qualcuno ha perso di vista il nodo, il punto, la partenza, il cuore. Della questione.

Credo nel merito. Ci meritiamo vite migliori e non perché ce le possiamo pagare, ma perché sono possibili per tutti. Anche per chi vive scavando le montagne 8 ore al giorno. La vita migliore non è nel tipo di lavoro e nello stipendio. La vita migliore è in come puoi fare quello che hai deciso di fare, in cosa ne fai del tempo al di fuori della cava, nella spiaggia che puoi raggiungere senza pagare, nel cibo che puoi scegliere, nell’acqua che puoi bere. Perché io mangio e bevo e la mia necessità primaria non può essere un mercato che serve per arricchire te.

Mi chiedo sempre (soprattutto quando sogno di vincere le cifre folli e spropositate del superenalotto) a cosa, realmente, servano, così tanti soldi. Ah, sarei capacissima di spenderli, per carità, fino all’ultimo euro. Ma per farci cosa? per nutrirli, probabilmente. Per nutrire un oggetto inanimato, costituito di carta e di inchiostro, di valore nominale e non reale, capace di dare parecchi punti a qualunque batterio emofago.

E dov’è il godimento dello spendere soldi mentre il mondo intorno striscia? Non lo so, al momento non lo vedo, il godimento. Forse è una di quelle cose che bisogna vivere per capirle.

Credo nel mutuo soccorso. Sono un essere umano, è naturale che io aiuti e supporti un altro essere umano. Punto.

Credo che si possano risolvere le cose senza uccidersi. Che ci si può provare. Che questo potrebbe avvenire solo se al mondo esistessero altri interessi che non siano il denaro ed il potere.

Credo che il potere possa essere utile. Ma che mangia l’anima. E l’unico modo per non farsi mangiare, è mollarlo dopo un po’. Dopo aver fatto quello che andava fatto. Agisci e poi fuori dai coglioni. Perché credo che fermarsi sia impossibile, quando ci sei entrato con tutte le scarpe.

Credo nell’entusiasmo e nell’energia di chi conosce poco il mondo. Nella scarsa indulgenza di chi si affaccia all’esistenza, nell’utopia di chi non ha ancora fatto i conti con la vita. Sono i ragazzi che fanno il futuro. I vecchi sono quelli che cercano di congelare il presente, di renderlo inattaccabile e fermo.

E questo è un paese di vecchi.

Di quei vecchi che hanno avuto un’utopia e poi ci sono marciti dentro. non hanno più mollato, non hanno più staccato il culo dalla poltrona rossa.

Per le cose in cui credo mi sono dimessa da rappresentante sindacale.

Altri sei mesi così e mi ci sarei attaccata come una cozza, a questo ruolo. Ma, a 48 anni, non sono io quella che deve mettere innocenza ed entusiasmo in una lotta dispari e inutile come questa. Perché a 48 anni ne vedo tutta l’inutilità. E non si cambia niente con uno sguardo così corto. Non si cambia il mondo. E’ solo un bearsi ebete del proprio miserabile potere.

Sia chiaro.

Non so come andranno queste elezioni o i referendum, sono pessimista. Questo paese non mi piace e non vedo luce da nessuna parte.

Allungo il collo dietro l’angolo e aspetto.

Qualcosa succederà.

 

As Usual – Omosentimentale

Soundtrack: Hideo Kobayashi – Beautiful Moment

La tua spalla è il mio posto. Mi ci infilo tra un momento di iperattività e l’altro. Mi ci accomodo.

Ciao.

Dov’eri?

Flash Gordon.

Corri ovunque ed io ti aspetto dietro un albero, acquattata sotto al muro, nel cofano della macchina.

E tu ti nascondi nell’armadio. Posso dire di aver avuto anche io un’amante nell’armadio.

Non sarebbe cambiato niente se ti avessero visto.

Profumo di tiarè.

In questo brutto mondo è sempre bello abbracciarti e legarmi alle tue braccia. Rinfranca, riposa, addolcisce, ridimensiona.

Accarezzo la capoccia del mio gatto che fa il pieno di zucchero. Quello che io ho fatto con te.

Sono diventata la sua badante. Di Penelope gatta, intendo. Le taglio le unghie, le pulisco gli occhi, la spiumaccio ché non è più capace a togliersi il sottomanto da sola.

Il mio sax avrebbe bisogno di una seria revisione: cambiare tamponi, mettere il sughero, oliare i meccanismi, pulire perbenino, sistemare un paio di chiavi che non chiudono bene. Viene fuori un suono orrendo. Ma magari sono solo io che sono una puzza.

Se vivessimo insieme non credo ti piacerebbe molto sentirmi suonare. Ahbbè, lo farei quando non ci sei. Questione risolta. Ho meno forza. Meno stabilità emotiva. Posso essere solida e gassosa e liquida alla velocità della luce.

Aspetto di vincere al superenalotto per comprare una casa a te e una a me… ormai è congenito il senso di coppia no-abitante.

Mastico la mia solitudine senza troppa ansia. Mi intristisce starti lontana. Mi squaglia dormirti accanto. Mi si versa cera bollente sul cuore a vederti rivestire per andar via.

Non riesco a non pensare a te, non riesco ad avere altri argomenti e non riesco a non strutturare la mia vita intorno alla tua. Forse è da cogliona, ma il fatto è che sono innamorata di te comm’a na criatura e non c’è molto che io abbia voglia di fare per evitarlo. Vincerò il premio rincoglionita del decennio e ne sarò fiera. Me lo attaccherò al petto e lo farò vedere a tutti orgogliosa del mio perdermi con te. Perché non è facile a quasi 48 anni lasciarsi andare così, masticazzi.

Del resto a Yoga arrivo con le mani a terra. Anzi i polsi. Quindi. Faccio il cazzo che mi pare e mi comporto come una demente con piacere e soddisfazione. Ecco.

Tra poco è il mio compleanno. Dovrei fare una seria wishlist. Niente festa però. Non se ne parla. Sarò a Napoli per servigi vari. Mi respirerò i 48 dove ho cominciato. E’ un modo per ricordarmi chi sono. Chi sono. “Chi sono” è una affermazione forte e anche un po’ presuntuosa. Chi può dirlo? nemmanco io.

Ci mandiamo sms molli e zuccherati, Amore mio. Avevi dimenticato com’è? secondo me sì. Ma poi riesco a ricordartelo.

Ricette o pappicio vicin a noce: ramm o tiemp ca te spertoso.

P.S. Non ho più intenzione di definirmi “omosessuale”, considerando che si tratta di una definizione ottocentesca e del tutto errata (chiunque può scopare con chiunque, al mondo e di prove ce ne sono in abbondanza), d’ora in poi mi definisco “omosentimentale”, perché è di CHI ti innamori che fa la differenza.

Grazie dell’attenzione.

Signore e Signori:

Buonanotte.