Il Mostro della mia pubertà ed adolescenza era il rimanere da sola in casa.
Ne ero terrorizzata fino allo sfinimento. Soprattutto in estate.
Inventavo ogni genere di implausibili scuse per scappare di casa, la notte e non restare sola, neanche per un’ora.
Una volta ho costretto il mio cane (Sara, un groenlander nano di rara saggezza) ad uscire dalla porta e scendere in paese per poterla inseguire e fingere di recuperarla.
Avevo bisogno di luci accese, radio accese e quando anche l’altoparlante della stazione di Mergellina smetteva di annunciare treni, mi saliva un’ansia dietro le sopracciglia che mi bloccava la mascella.
Intorno ai 25 anni (un tempo infinitamente lungo per decidermi) ho stabilito che questa cosa doveva finire. Sono andata alla casa estiva, a Positano, da sola, per una settimana.
O sopravvivo o muoio, non c’è terza via.
Un inferno.
I primi giorni non ho dormito o mi sono addormentata in terrazza. I rumori ovattati, gli strilli improvvisi dei motori, il vociare che di affievoliva fino a sparire. Il buio e la risacca, il silenzio e l’odore di sale e umidità.
Una notte di disperazione e terrore scesi in spiaggia.
I ristoranti chiusi, la gente a casa, il molo deserto, gli stabilimenti vuoti e un guardiano che mi caccia via. Non è stata una bella idea.
Per niente.
Mi sono seduta su quella bastardissima ghiaia spuntuta che componeva la spiaggia, mi sono appoggiata alla chiglia di una barca e ho iniziato, ovviamente, a piangere.
Piangevo quella sensazione disperante di essere l’unica sveglia al mondo, l’unica viva in un mondo morto, sola da ora e per sempre in una terra deserta. Piangevo la sconfitta che mi costringeva ad aspettare la luce dell’alba per sentirmi al sicuro. Piangevo il fallimento del mio tentativo di trasformarmi in una persona normale, che va a letto, spegne la luce e dorme. Insomma, mi piangevo addosso.
È arrivato un cane nero e grosso. Uno di quelli che crescevano in paese senza avere un vero padrone ma cane di tutti. Cane di paese.
Si è accucciato di fianco a me e mi ha fatto compagnia fino all’alba.
Abbiamo guardato insieme l’orizzonte cambiare colore, sentito quel momento di freddo freddissimo prima dell’arrivo del sole.
È andato via e io mi sono incamminata verso casa per andare a dormire, con la luce, finalmente.
Mi sono impegnata molto per andare oltre il terrore e l’angoscia. Davvero molto.
Mi addormento ancora con la tv accesa e raramente prima dell’una di notte.
Non è facile prendere decisioni di lavoro in tempi difficili come questi. E non è facile stabilire se sia più importante la propria dignità o la pagnotta.
La battaglia tra pancia e testa è assolutamente epocale. O forse è il cuore, non lo so, non la so fare questa distinzione. So solo che la voce della ragionevolezza, di mia sorella, di alcune colleghe, mi dice che uno stipendio fisso (anche se ipotetico, dato che non abbiamo visto il mese di dicembre né la tredicesima), è meglio di niente e che, tutto sommato, si può aspettare, si può abbozzare, si può sopportare.
Qualcosa di molto primordiale dentro di me, però, si agita, suda, digrigna i denti, lacrima e stringe gli occhi.
“Qualcosa”. Ovvero una emozione non meglio identificata. Una spinta. Un conato.
Ah bè, hai un lavoro ringrazia iddio.
Anche un po’ sticazzi.
E se fosse proprio questo continuo cedere alla ragionevolezza a fare di me, e delle persone come me, delle pedine senza peso sacrificabili ed evanescenti come fumo di sigaretta industriale?
Io so che, se in questo momento scrivessi una lettera di dimissioni, mi sentirei leggera e felice, realizzata e dignitosa, sicura di me e fiera.
Leggera perché questo posto ha una pesantezza sovrumana (per gli orari di merda, per la dirigenza codarda e avida, per lo spirito zombie, per la segmentazione tra colleghe), perché liberarmene mi farebbe sentire forte. Come in altre occasioni. Forte.
Forte di quell’energia che si libera e si sprigiona ogni volta che cado per terra, ogni volta che devo ricominciare, ogni volta che sono spalle al muro.
Poi la testa mi dice che non ho l’età.
E se ne andasse affanculo pure la testa. L’età… cosa cambia? sono viva, sono viva oggi, in questo momento, in questo preciso istante.
E la mia vita vale più di uno stipendio promesso e non dato, più di un contratto che è un cappio che si stringe un po’ di più ogni fottutissimo giorno.
Ma davvero vale la pena di vendersi per 1200 euro al mese. Ne siamo sicuri?
Ohhh, non lo dico per tutti, lo dico per me. Per me che non ho famiglia, non ho figli, ho una compagna con la quale non convivo e che ha la sua indipendenza.
Per la pensione che non avrò comunque?
Per il mensile che non arriva mai quando dovrebbe?
Per i ragazzini che tanto si organizzano lo stesso?
Per non dover affrontare un ennesimo cambiamento?
Non ha alcun senso il mio permanere qui. Nessuno.
Ho chiesto la riduzione dell’orario da 36 a 24 ore, ma pare che non sia il momento per valutare la mia richiesta.
Ho chiesto l’aspettativa di 3 mesi. Ma non mi fa sentire meglio. Ho la sensazione che mi resterebbe questa fottuta catena al collo anche a distanza.
Avverto il suono del risucchio.
Vampiri di merda, lliuatev a cuollo (levatevi di dosso, N.d.T)
Peraltro sto wordpress ha fatto dei cambiamenti che non mi piacciono proprio.
Soundtrack – Niente, perché con la chiavetta è complicato.
Ebbè, manco da molto.
E molte cose sono cambiate.
Immagino non solo per me.
Recalcitrante ho traslocato. Mi sono spostata al centro storico de lu paese. Ho una casetta con il terrazzino sui tetti. Come la desideravo.
Sarà stato il mio undicesimo trasloco, credo. Il peggio organizzato. Il più difficile.
La porta rotta, le utenze staccate, l’acqua che arriva il giorno del trasloco, troppi mobili, i primi giorni aggredita e divorata da insetti fastidiosissimi, impossibile avere la linea telefonica perché mancano linee disponibili, una cosa da secolo scorso; temperature infernali (asteco e cielo, si dice a Napoli; sopra di me solo le tegole) fino a 30 gradi nella stanza da letto di notte. Poi la febbre. Con 38 e mezzo non ho corso rischi di colpi di calore, devo dire.
Dicono che questo sia un brutto “quartiere” (come cazzo fanno a chiamarlo quartiere non lo so, sarà che per ognuno le dimensioni son personali e soggettive) e che non devo dare “confidenza a nessuno”. Ho risposto che vengo da Napoli, non da Stoccolma.
Ho naturalmente finito i soldi troppo presto.
Ma questa è la casa che volevo, credo da sempre e realizzo che, come al solito, non riesco a godere di quello che riesco ad ottenere. Che fa anche rima.
La R* ha detto che è una “nido sui tetti”, Biancaneve ogni volta che viene immagina nuove soluzioni di arredamento (ben sapendo che tanto farò di testa mia), il docfab è già venuto 4 volte, e il tutto non è ancora come lo vorrei. Ma ci arriverò.
Di giorno le voci dal vicolo, gente affacciata alla finestra che parla al telefono, giovanissime madri che bestemmiano contro figlie di un anno e anziane signore che dispensano consigli. Nel palazzo odore di cipolla e aglio, bambine (con evidenti difficoltà di linguaggio) che pascolano nell’atrio, signore che non si fanno i cazzi propri. Le urla delle rondini che volano velocissime a caccia di cibo, piccioni che mi guardano con le loro facce di gesso dalla finestra del bagno. Una finestra piccola piccola con un bellissimo panorama. A volte immagino ci sia il mare, lì in fondo, e mi piace anche di più. Di notte si sente russare, le scorregge dei vicini, i colpi di tosse, uno di quei campanellini che suonano al vento, qualche macchina di tanto in tanto. Ho comprato un’amaca. Ci ho dormito una notte per disperazione.
Penso alla casa di prima e i suoi inverni gelati.
Pare che l’equilibrio non sia nel mio karma. Una cosa che non va ci deve stare per forza. A ricordarmi che niente è mai veramente facile e che niente può essere “perfetto”.
Naturalmente la sede di Monterotondo del centro dove lavoro chiude a dicembre. Pare ci sposteremo a Roma.
Per mia scelta non sono più rappresentante sindacale. E’ stato un periodo troppo faticoso quello, troppo costoso. In salute e affetti. Ci ho perso molto, davvero molto. Ma mi è difficile stare al mio posto ora, difficile contenere la rabbia e la voglia di fare qualcosa.
Ci sono varie cose in gioco. Certo, tutte molto egoistiche (marò che parola orrenda e obsoleta questa).
Questo centro è un’oasi assoluta. Poco controllo, molta autarchia, rapporti rilassati, piccole anarchie che alleggeriscono e non danneggiano, ambiente protetto, ecosistema perfetto. Difficile pensare di perderlo per andare a finire in un miserabile lager dove vige la regola del sopruso e della burocratizzazione. E del controllo. Eccheppalle.
E questa è la parte personale.
Poi c’è la parte che riguarda i pazienti. Deportati in un’altra sede. Alcuni dopo oltre 5 anni di terapia sotto casa.
Pacchetti da spostare. E sticazzi alle rivoluzioni che dovranno fare nelle proprie vite e nelle proprie organizzazioni.
Caratteristica del gruppo dirigente di questo centro è, senza dubbio, l’incapacità di considerare l’altro da sé. Una forma di autismo direi.
Bah. Vedremo.
Poi c’è tutto il resto. La paura che ho della “spending review”, il disgusto che mi fa l’utilizzo di parole in inglese per coprire lo schifo che significano in italiano. La paura che ho per questo paese, per i nostri destini (noi, quelli da 1000 euro al mese, quelli che ancora non hanno trovato un lavoro e non ne troveranno, quelli che lo perderanno a 50 anni, quelli che non hanno le stimmate per avviare la moltiplicazione dei pani e dei pesci, quelli che camminano da 10 anni sull’orlo della fossa comune senza cadere e non sanno ancora per quanto potranno mantenere l’equilibrio, quelli che non ce la facevano da soli ma che da soli resteranno, quelli che hanno faticato per un futuro migliore e si trovano questo cazzo di futuro qui).
C’è un po’ di vento oggi in casa. Finalmente posso tenere spenti i ventilatori. E’ piacevole. Le zanzariere di fortuna sventolano lievemente. E’ bello da vedere.
La gatta Penelope, sopravvissuta anche a questo trasloco, si lascia pulire il pelo con sporadiche proteste e si abbatte sulla poltrona per dormire le sue 23 ore giornaliere. La guardo e penso che è sempre qui. Ancora. Dopo 22 anni. Mi commuove guardarla negli occhi.
Le tegole rosse della palazzina di fronte e le grondaie mi mettono una malinconica allegria.
Vado a sistemar.
Buongiorno a voi che ancora passate di qui e, in particolare, un abbraccio a Mah, lettrice e amica che, di tanto in tanto, mi richiama all’ordine con dolcezza.
Quand’è che ho smesso di chiamarli per nome ed ho cominciato a chiamarli per sigla?
Trenta anni fa le sigle dietro cui nascondere i bambini non le avevo. E avevo anche il fuoco sacro e inestinguibile del delirio di onnipotenza e la crassa ignoranza che porta sorprese ogni minuto.
Oggi ho sigle, ho vista lunga, ho precisa percezione di cosa sarà e come sarà.
Cazzo dovrò lottare, consumare energie, comunicare, contenere, accogliere, fissare paletti di cemento, sfondare muri, rassicurare, prendere botte, trasformarmi in un gigante, ascoltare, fermare, lasciar andare, trattenere.
E tutto questo per cosa? Per metterli ad un cazzo di tavolino ad imparare a leggere e a scrivere, per insegnargli ad usare articoli e preposizioni nella frase, perché imparino ad essere aiutati, per dargli i fottuti tempi di attenzione necessari per acquisire nozioni, funzioni, autonomie, relazioni.
Ma io non so neanche più se ne sono capace, se so ancora farlo, se ho le energie, la fiducia e la voglia di accettare la sfida. Cazzo IO-NON-LO-SO.
E mi fa paura da morire. Uscire dalla rassicurante bacinella fatta di DSL e DSA già pensanti, parlanti, educati e pronti.
Io non lo so se ci riesco a ridargli un nome e non una sigla a questi.
Io non lo so se ho la forza di scavare dentro le loro paure, dentro la confusione dei loro genitori, dentro le scuole insufficienti e inadeguate. Dovrei essere quella che non ha paura per accogliere e sfumare le paure di tutto il resto del mondo che ruota intorno a loro.
Ma io non lo so più. Non lo so più. Non lo so più. Non lo so più.
E il mio è un mantra di disperazione. Perché allora, cos’è che so io? io non so fare altro. Sto solo cercando di trovare il modo per fare quello che può bastare senza troppo sforzo, coinvolgimento, fegato e viscere. Sto solo cercando di risparmiarmi. Solo un po’. Solo perché non credo di essere più in grado.
Cosa ancora posso dare io?
Io non lo so.
Non provavo una sensazione come questa da anni. Forse dovrei prenderla come una buona cosa.
Poi ho paura di avere l’alzheimer. Davvero. Con i miei vuoti di memoria, i miei sperdimenti spaziali, i miei risvegli confusionali, i luoghi che conosco e non riconosco, la mia insonnia galoppante.
E ho paura di cambiare casa, di preparare di nuovo gli scatoloni, di organizzare il trasloco, di ricominciare daccapo.
Ho paura di chi imbroglia, di chi mente, dei falsi sé, dei cazzi pieni d’acqua.
Ho paura della menopausa che avanza come una goccia d’inchiostro nero nell’acqua che ho nel corpo.
Ho paura di restare sola fino alla fine dei miei giorni.
Ho paura che stiano uccidendo mio padre (ma questa è una lunga storia).
Ho paura delle cose nuove.
Ho paura di addormentarmi in macchina.
Ho paura di perdere quello che ho.
Ho paura mettermi in costume la prossima estate.
Ho paura che tutto questo sia diventare vecchia. Non grande, quello lo sono già stata. Vecchia, come forse è giusto che sia a questa età, malgrado le stronzate che si dicono in pubblicità.
Abbracciami forte amore mio, perché una paura così, si può solo accarezzare e consolare, si può solo guardare con gli occhi teneri di chi ama.
Ho le orecchie devastate dagli auricolari e divento sorda ogni giorno un po’ di più.
Me ne fotto.
Non posso farne a meno.
Mai stato facile addormentarmi per me. Da sempre.
No, da quando avevo 12 anni.
Per disperazione, dopo un anno passato con gli occhi spalancati fino all’alba, avevo messo su un rituale preciso e inderogabile.
Svegliare qualcuno in casa – non appena addormentati tutti -. Di preferenza la mia Signorina, la fantastica governante che ha regnato a casa mia per 30 anni.
Persiane alzate per vedere se, per caso, qualche finestra fosse illuminata negli altri palazzi.
Radio accesa, per avere la certezza che qualcuno fosse vivo in giro per il mondo.
Luce accesa, per non essere sorpresa dai mostri al buio.
Occhiali sul naso, sennò anche alla luce ogni oggetto della stanza poteva diventare un mostro. E poi non c’è niente di peggio, quando si ha paura, che non poter mettere a fuoco i dettagli.
Spalle al muro. Coperta sull’orecchio. Attesa del crollo definitivo.
Avrò dormito così quasi 10 anni.
E’ per questo che i rituali dei bambini li capisco bene.
Mi verrebbe da prendergli l’anima tra le mani per spiegare che i mostri non sono fuori mai. Non sono sotto al letto né fuori dalla finestra, né nascosti nel buio.
Stanno dentro e c’é da guardarseli un po’.
C’è da capire che se stanno dentro sono tuoi e, in qualche modo, fanno parte di te.
C’è da capire che stanno lì perché hanno paura quanto tu hai paura e che si nascondono quanto tu ti nascondi.
Bisognerebbe guardarli quando dormono, i propri mostri.
Son mostri con la faccia da bambini ed il corpo da adulti. Mostri che sognano il loro peggio e quando si svegliano dall’incubo non trovano nessuno che gli accarezzi i capelli e sussurri che tutto va bene, che era solo un brutto sogno.
I mostri che abitano l’anima dei bambini, e a volte anche dei grandi, sono cicci piccoli soli e senza calore.
Se gli insegni che non sono soli e che il calore, da qualche parte, c’è sempre, si sciolgono senza lacrime e si liberano di loro stessi.
E diventano alleati, qualche volta, perché aver paura di qualcosa è necessario, è vitale, è sano.
I miei mostri, ormai, hanno capelli bianchi e facce stanche, non si può fare i mostri tutta la vita.
Ci parlo, a volte, ci aiutamo a capire dove siamo e dove stiamo andando, ci facciamo compagnia e ci scambiamo carezze per nutrire la parte migliore.
E sono sempre gli stessi, non cambiano mai.
Quelle paure, quelle insicurezze, quelle contraddizioni, quel peggio di sé.
Ora come allora. Quello che cambia è la tenerezza che mi fanno. Che mi faccio.
Di sicuro il tuo respiro aiuta i miei mostri ad addormentarsi, la notte.
Dovessi diventare sorda, sono sicura che troveresti un altro modo, Biancaneve.
Cercare di spiegare, cercare di spiegarsi, cercare di ascoltare, cercare di ascoltarsi.
Sì, è vero, c’è una cosa che non dico.
Mi manca il coraggio, probabilmente me ne vergogno anche un po’.
Quel tanto che basta per tapparmi la bocca.
Lo sai che potrei venire a vivere con te domani mattina?
Con tutto quello che significa.
Ma non è ragionevole.
Lo sai che sto talmente bene con te che ho il terrore che tu non stia altrettanto bene con me?
E non è neanche così semplice da spiegare.
Dici che sono furastica.
Sono furastica.
Di questo mi vergogno.
E non è la sola cosa.
Mi fidassi di più di me, non avrei paura dei colpi di vento.
Mi fidassi di più di me, non interpreterei ogni cosa come un segno delle nostre distanze.
Il grande lago di casini e quotidiani impegni e priorità reali nel quale navighi, mi sembra sempre più grande e interessante e tuo di quanto lo possa essere lo spicchio di mare che posso offrirti.
Mi sono abituata a starti dietro, a osservarti la schiena, a coprirti le spalle e aspettare.
Non sapevo neanche di essere capace di aspettare e lasciare che fossi tu a guidare.
Oggi mi hai detto molte cose al telefono, una di queste me l’hai riportata detta da qualcun altro.
Come spiegarti quanto conta per me?
Come far capire fino a dove mi penetra?
Rinuncio.
Poi scatto come una tagliola invece di condividere.
Avevi detto che non avevi sonno.
Dormi già.
Il ritmo del tuo respiro, per quanto distante, mi riscalda.
Avercelo vicino.
Tenerlo tra le mani.
Per la prima volta in decenni mi ritrovo da sola a pensare e riflettere, senza poter scambiare e parlare con le persone alle quali tengo.
Il Fab è in Francia, il docfab non mi risponde, la R* è arrabbiata e perduta, Alice è lontana, M* è morbida come la gomma pane ed io non sono abituata.
Incredibile, la prima relazione non collettiva in una trentina d’anni.
Anche Penelope dorme, con la testa sul mio piede. Almeno lei è qui.
Sapessi quanto mi manchi, Biancaneve, anche ora che sei attaccata al mio orecchio.
Anche ora che ti ho mandato affanculo da una mezzoretta.
Anche ora che non capisco bene quello che vuoi dirmi perché ho i condotti uditivi inquinati. Ci si è arenata una petroliera dentro. E non da oggi.
Ti risvegli e non vuoi dirmi cosa ti succede.
Il mio stomaco protesta, niente cena, stasera.
Urge sigaretta.
Hanno tentato di farmi una truffa in questi giorni. Uno strano meccanismo basato sull’altrui ignoranza e sull’altrui presunzione di meritare qualcosa. Hanno trovato me, che non credo di meritare qualcosa. E poi capisco l’inglese, ‘sto truffatore era un coglione che scriveva malissimo.
Forse sono riuscita a vendere la moto. Quattro soldi e molto dolore. Per quanto strano sia, a quella moto tengo molto. Significa molto. Mi ha accompagnato molto. Mi rappresenta molto. Ma non sarebbe ragionevole tenerla.
Non trovo coinquilina nuova. Mi angoscia sottilmente lo stringere dei tempi.
A fare caso sugli annunci, gli uomini sono sempre disposti a spendere di più, per il fitto, delle donne. perché?
Al lavoro stanno saltando gli equilibri e non capisco perché. Forse la stanchezza. Ma il presepe è molto bello. Il più bello, credo.
Stai dormendo, ormai. Non ho il coraggio di chiudere la “conversazione”. Non ho il coraggio di chiudere il canale. Voglio sapere cosa hai dentro perchè penso che riguardi me.
Certe volte ho paura che tu sia troppo etero, Biancaneve.
Da un paio di settimane a questa parte codesto blog sta avendo una quantità di visite inusitata. Dopo la moria delle vacche estiva, non si sta capendo più niente. E non è che ne comprenda il motivo.
Mi pare di non avere più argomenti altro dal mio noiosissimo e piatto quotidiano.
Del resto abbiamo già parlato dei misteri della vita del blog tempo addietro, ma non ho la costanza e la pazienza di mettermi a cercarlo.
Io mi sento in gabbia.
Irrimediabilmente in gabbia.
Eppure le cose vanno a sistemarsi.
E questo mi fa sentire ancora di più incastrata. Catena alla zampa destra, come una elefantessa da circo che gira intorno ad un palo da 75 anni.
Uno dei miei cicci, di circa 10 anni, oggi ha confessato di aver paura del lupo.
Stavo per avere una crisi isterica: aver paura del lupo a 10 anni è come aspettare i regali da babbo natale a 45.
Come cazzo si fa a lasciare che un ragazzetto di quarta elementare fantasizzi le paure come uno dell’asilo?
Poi ci ho pensato bene bene.
Anche io ho paura del lupo e, soprattutto, aspetto che babbo natale mi porti i regali. Ancora e sempre. E la voglia che ho di mandare tutto allegramente affanculo, sperando nel sempercerto regalo di babbo natale per risolvere la situazione, è talmente forte da soffocarmi.
Dover resistere, ragionare e stare (come un giocatore di sette e mezzo con un 5): mi opprime.
Voler andare, modificare, stravolgere e squilibrare: mi chiude i polmoni.
E tutte queste cose messe insieme non sono altro che paura del lupo. Paura di niente. Paura di una fantasia fiabesca e senza corpo.
Presumibilmente mi calmerò. Mi calmo, prima o poi.
Passiamo ad altro
Watching Grey’s Anathomy, ho letto da qualche parte che nella nuova serie c’è un amour lesbienne. So anche tra chi e chi. Ma non ve lo dico.
Si porta. Tutte le serie televisive più importanti hanno una lesbica tra i protagonisti.
Spesso muore, oppure le muore la fidanzata, si uccide, si trasforma in un serial killer, si converte. Insomma cose così. Mai che vada tutto normale come vanno le cose nelle coppie. Si incontrano, si piacciono, si amano, litigano, si schifano, si tradiscono, si lasciano. MAI.
I serial italiani si adeguano. Si adeguano con quella pudicizia braghettona tipicamente italiana. Non sia mai che si possano baciare, figurati scopare. Gli amori lesbici italiani sono strazianti, casti, momentanei e soggetti al giudizio del vaticano.
Che culo.
Nei film si va anche peggio. Nel primo film a tematica lesbica del quale ho memoria lei, l’orrido mostro che si era permessa di innamorarsi di Audry Hepburn (e te credo), si impicca.
Poi c’è quello dove le due fedigrafe si ammazzano volando da un burrone.
Poi ce n’è uno dove la ragazzetta si suicida buttandosi dal tetto del college.
In un altro la arrestano. In uno si da fuoco.
Ma non è mica finita qui.
Amori impossibili, non corrsiposti, redenzioni, manicomi… ne ho presente giusto un paio a finale neutro.
Anche qui viene naturale dire: “che culo”.
Volevo seguire l’isola dei famosi ma non ci riesco proprio. Mi fa cagar. Ci ho provato ma resisto circa 25 secondi. Tenetemi al corrente voi.
La mia gatta sembra un persiano col raffreddore. Ha tirato fuori la pelliccetta invernale in 24 ore. Peli lunghi 36 chilometri e starnuti scostumati. In cuollo a me.
Oggi bellissima giornata in quel del Settimo Cielo a Capocotta, in compagnia di Omaha. Ho parlato a macchinetta dopo 4 giorni di silenzio claustrale.
Siamo andate con lo scooterone della Omaha. A 120 all’ora sull’Aurelia.
L’informazione potrebbe sembrare di interesse nullo, invece è un fatto fondamentale.
Perché io non vado mai dietro a nessuno e, se in macchina non guido io, di solito piagnucolo come un cagnetto perché non si superino i limiti di velocità (ma 70 è già troppo).
Invece ci sono andata. E non me ne fotteva niente. Ed era rilassante perché non ero io a dovermi preoccupare. E questo fa il paro con il mio sonno in aereo.
Del che ho realizzato che, almeno una volta all’anno, bisognerebbe fare il check up delle proprie paure. Elencarle e provarle tutte per vedere se sono ancora lì per davvero o è solo una litania che ci si ripete per abitudine.
Farsi un bel giro nel proprio panico, insomma. Mi pare di capire che facilmente si potrebbe scoprire che alcune non esistono più, che magari era solo un periodo, un momento, una teoria.
Lo terrò a mente (maffigurati).
Abbiamo a lungo parlato della questione “normalizzazione/omologazione” del mondo gay.
La sensazione è che, lavorando duramente per la famigerata “normalizzazione”, in vista di obbiettivi nobili come accettazione, diritti, fine delle discriminazioni, apertura mentale eccetera eccetera, i gay tutti abbiano finito per sconfinare in un campo atrocemente pericoloso: l’omologazione.
Dopo una settimana, a mykonos, il prof ed io eravamo disgustati da quello che vedevamo. Erano tutti uguali, tutti palestrati nello stesso modo, con lo stesso taglio (?) di capelli, con le stesse canotte, con gli stessi accessori, gli stessi costumi, la stessa aria cool. Impressionante.
A volte l’effetto era anche comico. Vedevi una capuzzella (=testolina, N.d.T.) minuscola dai linementi sottili e delicati appoggiata su un corpaccione pompatissimo, andatura a gambe larghe (per via dei muscoli e, suppongo, per dimostrare che è necessario più spazio per contenere la belva), braccia spostate dal tronco per non far urtare deltoidi e tricipiti. Effetto fotomontaggio. Che risate.
Ma pare che funzioni così.
E se i gay sono così ora, noi lesbiche ci arriveremo tra 5 anni (spero non con la stessa muscolatura).
Personalmente me ne fotto, ne avrò 50 e avrò altri cazzi a cui pensare (tipo la menopausa?), ma sarà una tragedia. E mi addolora. Non ci sarà più spazio per quello che non corrisponde al canone. Non ci sarà più spazio per l’originalità della bruttezza, per il fuori tempo, per il personalizzato.
Ho parlato spesso della mia visione romantica e ideologica dell’omosessualità, so di essere vintage e out, ma per me resta una questione di minoranza e di diversità da difendere con le unghie e con i denti, perché è questo che ha un senso e che consente l’apertura della mentalità e della società (ma va che pippottino anni 80!).
Minoranza e diversità non possono infilarsi nella trappola dell’omologazione. Così finisce tutto. Così si richiude la mente e non resta spazio per nulla.
Cerco di spiegarmi meglio con un argomento neutro: il rap (questa è pazza).
Se ci avete fatto caso e se ricordate anche solo un paio di pezzi, potete seguire il mio delirio.
I neri (minoranza discriminata) l’hanno inventato. Hanno cantato di ghetti, negritudine, orrori metropolitani, discriminazione e politica sociale per molti anni. Era una musica di nicchia, la compravano solo i neri, era considerata una posizione politica anche scomoda assai per l’estabilishment. Poi è diventato fenomeno di massa (musica, moda, cultura..) e si è trasformato radicalmente. Ora si parla solo di fiche e cazzi. Nel vero senso della parola. Nei video compaiono spesso pornostar, i testi sono tutti sul sesso e sul corpo, maschilisti ed aggressivi. Niente più. E se sei nero, devi fare rap, sennò ti mandano pure affanculo (ci è passata persino Erikah Badu). Vendono anche più di prima e vendono anche ai bianchi. Hanno invaso il mercato e otturato ogni crepa da cui sarebbe potuta uscire nuova musica e nuovi suoni. ‘Na palla colossale. Inascoltabile ormai.
Insomma si sono fatti fottere – i neri – e si sono fatti togliere un modo irrefrenabile e incisivo di fare informazione, denuncia e protesta cedendo all’omologazione assoluta e trasformandosi in un fenomeno di costume che è, ormai, una gabbia. Almeno questa è la mia opinione. Espressa una chiavica, lo ammetto.
Ho la sensazione che stia funzionando uguale anche per gli omosessuali. E questa omologazione, di fatto, ci rende innocui e ci richiude nell’armadio. Abbiamo i nostri codici, il nostro linguaggio, la nostra moda, i nostri luoghi. Nostri, ovvero gay – si dice LGBTQ, è più politically correct -.
Niente più originalità, nessuna rottura, nessuna necessità di confronto. Niente. non più una minoranza, ma un gruppo chiuso e impenetrabile per chi non ne segue i canoni con precisione e adeguatezza. Non più una manifestazione di diversità con tutto quello che ne consegue, ma clan.
Il gruppo, il clan, sono come le mandrie, si muovono tutti insieme ed è per questo che è facile chiuderla (la mandria) da qualche parte, in un qualsiasi spazio ben recintato perché non ne esca e non dia fastidio in giro.
Tutto questo mi fa orrore.
Non c’è differenza tra il silenzio assoluto e il chiasso intollerabile. In tutti e due i casi non si sente niente.
Questa frase non c’entra molto ma mi piace.
Ma si è capito cosa voglio dire? sono stanca e rincoglionita. Avrei fatto meglio a scriverlo domani.
(la mia casa era quella sulle scale, dietro il ficus, in questo cortile ho fatto feste open con almeno 70 persone)
Soundtrack: Cocteau Twins ft R. Smith – Cherry Coloured Funk
Codesti giorni sono pregni. Ma pregni di che?
Non lo so.
Domenica pomeriggio, sulla via delle sette di sera, son giunte nella mia magione R&B con piglio determinato e battagliero.
La B*, che di solito si fa i cazzi suoi e, di solito, pare che scenda dalle nuvole di tastierilandia, aveva una cosa precisa da dirmi.
Precisa come un puntatore laser. E l’ho capita per metà. Perché metà la vedo e metà continuo a non vederla neanche sotto sforzo. Per quanto B* sia stata chiara, limpida, esaustiva e didascalica.
Quello che vedo (e metà di quello che la B* mi ha detto) è che io, quando ho a che fare con qualcuna, cambio. Radicalmente. E mi bastano più o meno 16 ore.
Ed è assurdo, ma succede. Pensavo fosse una parte che assumevo mio malgrado in passato, pensavo fosse una di quelle cose che è collegata all’oggetto della mia interazione (marò quanti giri di parole), invece sono semplicemente io.
Il che è drammatico.
E forse è ancora più drammatico che io sia andata totalmente in tilt. Un flipper cui hanno dato una bottarella di troppo. E non ho più saputo cosa fare, come comportarmi, cosa essere, come mostrarmi, quali limiti darmi, quali non darmi. In un loop di batteria elettronica che manco i Prodigy. Invece di lasciare che le cose andassero, vadano, procedessero, fluiscano (pare una cosa poetica, in realtà ho dubbi sulla consecutio temporum).
Una Lara Croft comandata da un pollice epilettico che continua a finire contro lo stesso identico muro. Accoderò video di conseguenza.
Sul resto devo ancora pensare, mi punge vaghezza abbia a che fare con l’autostima, la percezione di sé, l’accettazione ecc. ecc.
Così, collezionando cazzate dopo cazzate fino a provocare reazioni giustificate nel mio prossimo, mi sono ricordata di vecchie cose che sono ancora lì, cellula terroristica dormiente, ad aspettare un comando qualsiasi per saltare fuori e devastare il devastabile.
Non sono affatto sicura che c’entrino qualcosa con tutto ciò, magari è solo paraculaggine. Ma ho voglia di fare un riassunto.
Il 31 dicembre del 2000 (ehhhh), sono stata licenziata in tronco dal libraio antiquario che fungeva da donatore di lavoro. Licenziata alle 10 del mattino e buttata fuori dalla libreria alle 10 e 02. Per i miei ritardi cronici e per le mie espressioni supponenti che lo facevano andare fuori di testa.
Non avevo già soldi, non riuscivo più a trovare lavoro (troppo vecchia, nessuna specializzazione, troppo conosciuta come testa di cazzo, nessuna affidabilità, troppo sovradimensionata, nessuna umiltà con i capi). Thanx God non stavo con nessuno, ho iniziato a vendere tutto quello che avevo: tv, playstation, corredo, vestiti, oro e persino le stoviglie. Ero, appunto, sola, avevo già spremuto gli amici, aiuto dal pater chettelodicoaffà, non c’era più il negozio di Cd dove riuscivo sempre a lavorare quando mi serviva danaro.
Un pomeriggio mi sono seduta sotto il portico di Feltrinelli, ho realizzato che non potevo più sostenere la vita che mi ero costruita (?), ho fatto i conti col fallimento assoluto, ho pianificato il futuro giurando, in modo molto solenne, che un’altra botta così, culo a terra, non l’avrei presa mai più. MAI.
Avevo una casa di 18 metri quadri, tre gatti, un citofono che suonava a qualunque ora, libertà assoluta di movimento, nessuno cui rendere conto di niente, lavoro a nero. Avevo chi mi dava da mangiare, una vicina argentina che mi portava il caffè la mattina alle 7 e mezza sulla porta di casa. Un macintosh e un collegamento internet che era una rarità. Avevo il MIO territorio, il mio quartiere, il mio palazzo, l’unico popolare in una zona che più chiattilla e radical chic non ce n’è a Napoli. Scendevo a fare la spesa in pigiama, me ne fottevo. Avevo un conto aperto in libreria e uno nel negozio di cd, avevo il pub che mi portava i panini a casa quando mi rompevo di scendere e il contrabbandiere al piano di sopra che mi calava le sigarette nel panaro.
Avevo la vita che volevo, quella che avevo scelto nella ferma convinzione che sarei morta prima dei 40. Avevo il record di uscita di casa – la prima tra tutti i miei amici – e avevo iniziato a lavorare mentre tutti gli altri partivano col calvario universitario. Ho maneggiato soldi in quantità industriale per poi farli scivolar via con godimento e soddisfazione e, quando non li avevo, li trovavo sempre e comunque. Non mi sono negata nulla, che io ricordi.
Un percorso (?) di quasi 15 anni che si è dissolto nel nulla assoluto, lasciandomi l’assoluto nulla tra le mani. Nel frattempo avevo perso amici, parenti, amanti. In senso materiale ma anche figurato.
Ho provato terrore. Cosa mi restava?
37 anni, un diploma di Logopedista (ah, no, adesso è equipollente alla laurea primo livello… dopo 15 anni valeva anche di più), libri in quantità sporporzionata, 320 cd, tre gatti e le suppellettili della nonna.
Il programma futuro prevedeva: ritorno a casa del pater, tirocinio – che dopo 10 anni non mi ricordavo un cazzo di niente – poi ricerca lavoro e sistemazione permanente, definitiva, stabilizzata e sicura.
L’ho fatto e pensavo di morire.
Sì certo, la crescita, sì sì, adulta. E poi il futuro e le certezze e smettila di fare la testa di cazzo e stai zitta, ricostruisci e fai qualcosa di sensato, non ti fottere con le tue mani, stai attenta, impara a fare compromessi, metti i mattoncini al loro posto e non fare colpi di testa. Non litigare, non esagerare, non desiderare, non eccedere, non fare passi più lunghi della gamba. Che un’altra volta nella merda non ci voglio stare.
Oggi io sto vivendo la vita che voglio, come e dove la voglio. Mi fa paura perché ho paura di non saper, di nuovo, controllare me stessa e la mia testadicazzaggine. Vorrei una boa cui aggrapparmi, maancheno. Vorrei sapere cosa fare perché non mi accada di nuovo di restare senza nulla tra le mani.
C’è poi una seconda parte della storia. Magari un’altra volta, questo è il post della metà.