Napoli Pride 2010

Di corsa che sono al lavoro.

Una festa oltre che meravigliosa.

“Giuvinò, che rè stu burdell'” – “Niente signò, è ‘o sciopero re ricchiun'”

Bibbitaro al seguito del pride: “Lesbicaaaaaa, ‘a vuo’ ll’acqua?”

Tassista: “Agg’ accupagnat’ un arcigay all’albergo Vesuvio, marò, signurì, v’immaggginate ‘o burdell che possono fare stanotte tutti questi arcigay?”

A me, ovviamente, ne capita una diversa, al cesso del Mc Donald, una signora mi si rivolge: “Marò, at’ visto ‘o gay Pride?”, io: “Sì, signora, l’ho visto” lei: “Che schif”, io: “signora io vengo dal corteo”, lei: “ma chill stann tutti co’ cul a for…”.

Santa quella pazienza.

Un sabato veramente divertente e colorato.

Niente locale la sera; mi parte una lesione della cornea: occhio blu e rosso, dolore da non poter dormire, sosta al pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini domenica mattina. Non è un ospedale quello, è un cesso del Bangla Desh, con tutto il rispetto per il Bangla Desh che, magari, ha ospedali migliori dei nostri.

Cazzo, ci tenevo ad andare a ballare.

Le amiche. Molte non sono riuscita neanche a vederle tale il casino del corteo. Ma le importanti c’erano.

Trans pochi, con mio grande piacere,  non è politically correct, lo so, ma è l’unico modo per evitare che sui giornali o in tv vadano immagini solo di piume e tacchi a spillo. Almeno si poteva vedere che la gente, al corteo, è gente qualunque. Una questione non da poco e difficile da risolvere.

Napoli è una città assurda, l’ignoranza è tale che non arrivano manco gli stereotipi, si disperdono pure quelli nella incapacità di analisi dell’informazione. A volte è una fortuna.

Anziani e anzianissimi che ballano alle finestre. Belli da guardare.

Noi napoletani siamo un popolo, non siamo abitanti generici di una città. Un popolo. Nel bene e nel male.

Giornata bonaria, sole e venticello che non ti uccide.

Percorso lunghissimo e massacrante.

Bella l’idea dei cartelli di Amnesty International. Bravi.

Perché alla fine al questione è quella: diritti civili negati.

Gira che ti rigira e lì si torna.

E non si riparte.

 

Andatevi a cercare foto e filmati, ne vale la pena.

 

 

Le trappole

Soundtrack: Jazzamor Nuit Magique

Le trappole di facebook: non scrivo più, non comunico più, non mi informo più, non mi stacco più. Con la testa infilata tra una Farmville e un Cafè World, con puntate agli Happy Pets, non ho più scambi umani e non mi interessa nemmeno. Mi ritrovo a pensare a cosa piantare e a come staranno i 18 gatti che mantengo virtualmente. E Penelope rimane con la ciotola dell’acqua vuota. Non mi piace più. Se esco da questo gorgo, mollo tutto.

Le trappole di Napoli: Giri l’angolo del Maschio Angioino e mi ferisce gli occhi e il petto la luce di quel colore, di quella consistenza, di quell’odore. Capisco, improvvisamente, le Ladies in Gran Tour. Non che io ne sia all’altezza, ma non mi stancherò mai di ripetere che vista da fuori, questa città, è davvero una delle più belle del mondo. E poi il pater tutto sommato dolce, l’annuale albero di Natale con il Fab2, il suo presepe, le passeggiate, gli acquisti economici e risolutivi, la mazzamma (=termine specifico per indicare la torma di umanità di dubbia educazione che invade le strade dello shopping durante i periodi festivi, N.d.T.), il freddo mai mortale, gli amici che non si riescono a vedere, quelli che si incontrano inaspettatamente, il viaggio di ritorno con la pioggia e il carico dei doni rimediati qui e là.

Le trappole del corpo: questo week end dovevo essere di nuovo a Napoli. Con Biancaneve. Mi sono ammalata. Uno straccio. Mi sarei presa a schiaffi da sola. Non è dato sapere quando avremo un’altra possibilità per passare la notte insieme. E io mi ammalo. Freud ormai si è consumato a furia di rivoltarsi nella tomba. E io le impedisco di restare da me, perché se si ammala lei sono cazzi. E lei mi dice “se fossimo una coppia dormiremmo insieme” e io le dico “se fossimo una coppia sarei lì a portarti il brodo di pollo a letto se ti ammalassi tu”. Ma io sono qui e lei è là. Il brodo di pollo e i bicchieri d’acqua fresca, via sms, non si possono inviare. Ma era il nostro week end, e io l’ho svampato.

Le trappole della mente: “tu sei talmente preoccupata di prenderti cura di me, che non permetti a me di prendermi cura di te.” Dice Biancaneve. E ha ragione. Mi guardo indietro per vedere se è sempre stato così. E, sì, è sempre stato così. Ho amato donne più giovani di me e ad alto tasso di confusione mentale. Me ne occupavo io. Fino a quando non mi prendeva lo sclero assoluto da mancanza di attenzione. Bel modo di sfangarsi l’impegno di lasciarsi coccolare. In quale nodo dell’anima è incastrata la mia paura nel darmi (perché permettere a qualcuno di occuparsi di te è darsi, non prendere), io non lo so. Deve essere in qualche angolo polveroso tra la paura di perdere e quella di soffrire. La più banale delle cose umane. La più stupida e comune. A volte penso che in questo rapporto non faccio altro che portare panico e terrore, ansia e angosce primordiali. E ben poco altro. Per ora Biancaneve resiste, bisognerà farla santa subito (seeeee).

Quello, quell’è.

Arti e mestieri

Soundtrack: Simply Red The right thing

Questa città è una vecchia bagascia.

E come tutte le vecchie bagasce sa esattamente come stimolarmi, come caricarmi e ri-caricarmi e come farmi sentire forte e potente.

Certo lo fa a pagamento, come da mestiere, ma ormai è per me un prezzo leggero, abbordabile, tutto sommato equo.

Perché poi non ci resto.

Ché da bagascia diventa cravattara. E gli interessi non finiscono mai. E da cravattara a spacciatrice. E pensi di non poterne più fare a meno, di non poter vivere senza.

Son ben contenta di utilizzarne i peculiari servigi senza lasciarmi intrappolare.

La colombaia è rinnovata e calda.

Il docfab è delicato e gentile.

Gli amici tanti. un tour di tre giorni che neanche Evita Peron.

Si mangia divinamente (oggi anche impepata di cozze fatta in casa a pranzo e giapponese a cena).

Mi torna voglia di fare cose, ritrovo un minimo di sicurezza e dell’autostima perduta, m sento umana e di sostanza.

Ne avevo bisogno.

In questi giorni niente passeggiate, mi mancano un po’, sono l’unico vero contatto con il territorio e con la sua estetica.

Certo mi fa più paura di quanta me ne facesse qualche anno fa. Ma non sono affatto sicura sia colpa sua, è che io, oggi, ho più da perdere di quanto non avessi 10 anni fa.

Almeno è questo quello che credo.

E il mondo è come te lo fai in testa.

Se pensi di avere qualcosa da perdere, ti metti in condizione di proteggerlo, di difenderlo e difenderti, non importa se, in fondo, non siste quel qualcosa.

Vedo le persone che amo cresciute e un po’ più tristi. Non tutti, ma quasi tutti.

Mi piace anche vedere persone che si rimboccano le maniche e provano a far qualcosa per esser più felici.

In questa città ci vuole coraggio, a far questo.

Per chi fosse in ambasce (!) a proposito della mia storia con Biancaneve, siamo ancora qui, tenendoci per mano e nascondendo la stretta con il cappotto. almeno per ora. Ed è molto bello così com’è.

C’è stata un po’ di devastazione, nella mia vita, in quest’ultimo periodo. Niente di irreparabile, molto di incomprensibile, qualcosa di evitabile.

Di rimarchevole c’è che sto entrando in menopausa.

Posso assicurare che la quantità di vampate che costellano la mia giornata è al di là dell’umana sopportazione. Dovrebbero avvertirti che funziona così. Sono esausta. La stronza, la vampata, parte all’improvviso anche se ci sono -7 gradi centigradi e ti ricopre di sudore ogni millimetro di pelle manco stessi in kenia a mezzogiorno. Oltre questo, non ci si può esimere dall’autocommento, a quanto pare: “fa caldo eh?” o dalla domanda retorica: “ma fa caldo?”, mentre intorno vedi gente con i paraorecchie e i ghiaccioli al naso e tu ti sei levata anche gli orecchini.

Dal parrucchiere, sottoposta alla tortura di guardarmi allo specchio per 60 minuti ininterrotti, ho avuto vari ed eventuali pensieri: sono invecchiata e ne sono perfettamente consapevole; mi riconosco più ora, guardandomi, che 5 anni fa, vado a farmi i capelli dallo stesso parrucchiere da 35 anni. Dal menarca alla menopausa. Mica pizze e fichi. In compenso mi sono spariti gran parte dei capelli bianchi. Miracolo di Biancaneve? Mah, i fitti misteri della vita. 

Non so ancora bene come prendere questa faccenda. In fondo non è niente altro che la fine di un ciclo di fertilità che eterno, giustamente, non può essere. Ma, in qualche modo, coinvolge e travolge ben altro. In fondo quella settimana di lamentazione a cadenza mensile, quelle maledizioni in cirillico che per anni e anni si affinano e si rivolgono alla propria manifestazione di rigenerazione e capacità di riproduzione e quell’argomento di discussione tra femmine (“ti sono venute?” manco fossero un parente autraliano in visita di cortesia) e di ambivalente ansia (“ho un ritardo”, come fosse un treno della ferrovia elvetica e senza mai che si riesca a capire, alla prima affermazione, se si è contentissime o incazzatissime), quando non ci sono mancano. Come una amica di una vita che all’improvviso non si fa più vedere né sentire. Preoccupa e intristisce.

Il commento del pater, sempre lapidario e pragmatico è stato “vabbè, tanto che te ne fai?”.

Come sarebbe “che me ne faccio”? non lo so cosa me ne faccio, non me ne devo fare qualcosa, che cazzo di commento è? Comunque, ne dovrò venire a capo e, d’altra parte, i prossimi rush ormonali non saranno cazzi miei ma di chi li dovrà subire.

Attenti voi…

Sansiti

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Soundtrack: Seal I can’t stan the rain

Quelle giornate che ti dicono che la primavera arriverà.

Comunque arriverà, questo inverno non è infinito.

Mi scelgo le strade migliori, quelle che si aprono sul mare e sulla luce. Non importa quanto allungherò la strada. Sansiti è un quartiere, in tutti i sensi. Le distanze sono nella testa, in realtà è tutto in pochi chilometri rettangolari.

Mia sorella mi dice che dovrei imparare a dare la giusta importanza alle emozioni, che non si può vivere dipendendo solo dai sentimenti. “Guarda il pater”. Mi dice.

Il pater gioca a fare il vecchio inutile, lo fa per farsi voler bene. Io lo guardo e penso che devo essere davvero orribile per non riuscire a dimenticare la sua potenza di fuoco da incrociatore ora che è diventato una scialuppa senza marinaio. 

Lo guardo in piedi con le sue polacchine di camoscio, il jeans nero, il pulloverino di cachemire rosa e il piumino smanicato, mentre si preoccupa per me.

Si preoccupa per me.

A suo modo, senza ascoltare una sola parola di quello che dico, senza capire un solo passaggio del mio ansiogeno fiume di parole.

Si preoccupa per me.

Vecchie storie rigurgitano e mi accorgo che vent’anni non bastano a cancellare rancori e orrori. In nessun caso. In nessuna relazione. Non basta il sole che riscalda fino al sudore, non basta il libeccio lieve che toglie la polvere di dosso.

Il cuore si affloscia sulle mancanze. Sulle mancanze non fisiche, a quelle sono abituata, ormai.

Qualcuno ha la mia anima tra le mani e ha unito pollice ed indice per lanciarmi in porta come una pedina del subbuteo.

Qualcuna ha qualcosa di me incastrato nella sinusoide della sua voce e me ne ricordo guardando una baia meravigliosa che cerca di liberararsi dell’orrore di una secolare acciaieria.

Chi mi conosce bene ride. Chi mi conosce bene mi dice di tenermi fuori, chi mi conosce bene mi dice di aspettare.

Io non mi conosco molto bene, in questo momento. Mi siedo per terra e guardo la nuova stanza che dovrei abitare. Ci sono giochi e sogni e tatuaggi e palcoscenici e impegno e responsabilità e coraggio, persino. Mi stupisco e mi rigiro le cose tra le mani come le vedessi per la prima volta.

Non ho più risposte, non ho domande da fare.

Faccio cose ed evito incontri. Non sia mai qualcuna dovesse interessarmi. Per questo non sono pronta affatto. Posso provare a mantenere in piedi una azienda che non mi appartiene e credere di riuscire a far qualcosa. Non mi si chieda di condividere la mia vita con qualcuno, non credo di esserne capace.

“Sei cresciuta Penelope”, mi dice un’amica rientrata da una mia vita precedente. E ridiamo delle nostre paure.

La primavera arriverà, questo inverno non è infinito.

Non è la città, sono i legami

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Soundtrack: Rolling Stones Anybody Seen My Baby

Sono a Napoli.

Parto domattina all’alba avendo combinato un casino per via della mia demenza senile allegramente avanzante (ho ben due amiche a Roma, una non la vedo dagli anni 80, ci ho vissuto negli Stati Uniti, l’altra è l’unica che può capire, perfettamente, il mio stato d’animo attuale).

Quando vengo qui cammino per ore senza farci caso. E mi sparo i cinque allucinanti piani per arrivare alla colombaia senza neanche troppo sforzo.

Mi sono addormentata nel pomeriggio sul divano guardando i tre denti del Faito.

Una giornata splendida. E calda.

Ho comprato un borsalino nuovo. Identico. Non l’ho trovato di altro colore. Assolutamente identico ma nuovo. Una ossessione penelopesca.

Non sono andata da mio padre come mi ero promessa e ripromessa. Non ce l’ho fatta.

Ho dormito. Nella mia narcolessia da evitamento tipica.

Dovrò perdonarlo prima che muoia (io o lui?). Credo di doverlo fare ma ben poche cose mi aiutano a coltivare questo dovere. E non si può perdonare per dovere. Bisogna sentirlo.

Con il doc Fab siamo chiusi in casa da due giorni. Non ci viene di uscire. Capita che qualcuno passi di qui e si fermi. Ma stiamo bene nei nostri silenzi e negli scoppi di chiacchiere sintetici e intensi.

Abbiamo fatto l’albero insieme. E’ una bella sensazione. Mi piace fare l’albero e qui dai favolosi è particolarmente divertente. Il numero di palline da sistemare è vicino alle 9 cifre. Tipico del docfab e del suo concetto di quantità minima necessaria.

Tre ore a dirimere rami, sistemare lucette e attaccare palline colorate. E’ bellissimo e sono ben felice di averlo fatto qui. Che resta il mio posto dove tornare. Il posto dove fare il pieno assoluto di calore e tranquillità e energia e quiete.

Casa.

Sempre di più e persino senza il fab1.

Quindi non è la città che mi ricarica. E’ questo posto, senza dubbio.

Sono sul computer del doc, non oso immaginare che musica ci troverò. Ha degli strani e variegati gusti. Vedremo.

Napoli è un carnaio di umanità incazzata nera. La bellezza delle donne affacciate ai vasci (=bassi, N.d.T.) è commovente. Ma non bisogna guardare, neanche nascosti dallo schermo di occhiali scuri. Se ne accorgono e si incazzano come varani. Rischiosissimo.

In questa città uno sguardo diretto è un guanto di sfida che va raccolto prima che cada. Mi chiedo di cosa si abbia costantemente paura.

A vederla da fuori è affascinante come una puttana francese di mezza età. Ha molto da raccontare, ma nun se po’ guardà.

Nei miei pensieri una tromba d’aria in perenne movimento circolare.

E’ tutto inventato. No è vero e questo è pericolosissimo. La voglio. Non mi vuole. Non la voglio. Mi vuole? Ha letto il mio blog?

Non lo so. Non ne ho idea.

Domani vado ad uncontrre una vecchia amica, come detto. I** è stata la mia collega per tre anni al corso di logopedia, mi ha fatto studiare e lavorare venendo a casa mia la mattina presto per svegliarmi. Sono andata con lei a Bethesda e abbiamo vissuto insieme per sei mesi. Il mio primo volo l’ho fatto con lei. Un’amica per un tempo importante e particolare della mia vita. Non ci vediamo da quasi vent’anni. Vuole farmi vedere i suoi figli.

Certo che ho un gran culo, sempre trovato amici/he disposte a trascinarmi per farmi fare cose che mai e poi mai avrei fatto senza un raggio traente.

Buonanotte.

G.C.

Soundtrack: Teresa De Sio Voglia ‘e turnà

La vetrata è aperta sul vecchio padrone violaceo che non si vede, oggi.

La foschia è un velo pesante che lo copre fino a farti illudere che esista un est, in questa città.

Il mare aggiunge un effetto Parkinson alle luci del Golfo.

Bianche, gialle, arancioni. Senza ordine, senza percorso.

Il mare appoggia l’odore dei suoi frutti su uno scirocco pigro e slabbrato.

Dal cortile salgono accenti arabi urlati in cantilene saracene. Non c’è modo di tradurre.

Ma la ferocia si lascia comprendere perfettamente.

La folla è densa, ampia, grassa, invadente, senza confini.

Le donne sono donne.

Gli uomini si guardano intorno costantemente come prede consapevoli.

Il rumore è continuo, ininterrotto ed è fatto di gole e lingue e auto e camion e asfalti accartocciati e motorini e clacson e canzoni e litanie.

Gli odori li conosco. Sono ancora uguali. Sono ancora fatti di pranzi domenicali interminabili e pesce da pulire e friggere. Migliaia di pentole piene della stessa cosa.

Dietro all’angolo qualcosa è stato rifatto, ricostruito, modificato e ti blocca i battiti. Sembra bello.

Ma qui niente è mai bello troppo a lungo. La bellezza è un nemico, un fastidio sgradevole, la prova che potrebbe essere quello che non è. Bisogna rimettere le cose in equilibrio.

L’energia sotto i piedi scorre ad una velocità intollerabile. Come facevo? 

La luce è violenta. Il buio delicato.

La città non dorme.

il mare non dorme.

Il vento non dorme.

Io non dormo e mastico scirocco.

Cerco tracce dei miei affetti come un cane da tartufo. Non ce n’è bisogno. La posso vedere coi miei occhi seduta sul divano. Mi ci accarezzo la faccia. Quello che conta è qui davanti. Non c’è bisogno d’altro. Col naso spingo un po’ perché non si accasci sotto ai colpi del dolore. Con la voce ascolto la voce che arriva da lontano.

Saluto strade e nomi. Torno a casa?

 

Tempo e Voglia

convivenze.jpg 

Soundtrack: Blade e Masquenada Family – Uma viagen nu tempo

Strano. In questo periodo quando ho tempo non ho voglia di scrivere e quando ho voglia di scrivere non ho tempo.

Peccato. Avevo anche predisposto una soundtrack nel cosino blu per una ipotesi di post che avevo tutta nella capuzzella. Ma non mi ricordo più.

Stasera ho fatto un bagno nel mio passato remoto. Che meraviglia e che distanza.

Ho incontrato una amica che non vedevo da 10 anni e che, caso incredibile, si è trasferita a Roma da quattro mesi.

Ho ricordato la mia casa di Cappella Vecchia, che definire casa era una gentilezza. 18 metri quadri nel chiostro di un convento del 400 in pieno centro di Naples. Ed era refugium peccatorum e area di sosta per una enorme quantità di gente ad ogni ora del giorno e della notte. Era la mia casa, a mia misura.

Almeno 2 convivenze in quella cuccetta. Una delle due lunga 3 anni. E con tutti i suoi strumenti di chitarrista. Persone ovunque e dovunque. Feste open con 70/80 persone. Incredibile a ripensarci.

Ho deciso che la prossima storia che mi capita di convivenza non se ne parla proprio. Sarei a quota 5, non ho intenzione di arrivarci. Ognuno a casa sua, ognuno nel suo lettuccio. La chiave di casa a nessuno. Intimità quotidiana inesistente.

Abbiamo già dato.

Che poi, si dice ma non si può sapere.