Aspettativa

Soundtrack:  Subsonica Up Patriots to Arms (feat. Franco Battiato)

Sono in aspettativa.

3 mesi fuori da quell’inferno.

Perché come un inferno l’ho vissuto.

Dovrei rientrare ad orario ridotto. Non ci credo se non lo vedo. Dicono una marea di cazzate lì.

Credevo di avere la mononucleosi per quanto mi sentivo debole e priva di energia. Malata di mal-lavoro. Dis-lavoro. A-lavoro. Scegliete voi.

Mi sono svegliata lunedì fresca come una rosa e iperattiva. Ho persino smesso di mangiare spaventose porcherie.

L’aspettativa è una strana dimensione. Aspettare cosa? Aspetta un attimo che mo’ torno. Aspè, tienimi il posto che vado di là. Aspetta che ora sono impegnata.

Appunto. Altro da fare.

Con un po’ di mie colleghe abbiamo messo su una associazione sanitaria per fare riabilitazione sul territorio a prezzi da discount.

Un’idea e non un’impresa.

Ci ha dato una mano il comune, praticamente regalandoci i locali e le utenze.

Già i centri privati ci corrono dietro con le mazze di scopa.

Parassiti.

Direi.

Abbiamo avuto faccia tosta sufficiente da andare a chiedere aiuto perché, persino in questa nazione ridotta a letame fumante, se hai una buona idea utile per tutti, qualcuno che ti sta a sentire e ti offre una mano lo trovi.

E perché non è di certo un modo per far soldi.

Ma il ragionamento non è alla portata di tutti. Non ora, non in questo momento storico, non in questo marasma sociale incattivito, incazzato, individualista e delirante.

E provatemi il contrario.

Vorrei mettermi in aspettativa anche da questo paese.

Scusate mi assento per un po’ e torno tra 3 mesi, conservatemi il posto.

Ma sono una ragazza anni 80, cresciuta sulla coda di un brontosauro convinto che la risposta fosse nel collettivo, nell’azione “pubblica” e finalizzata al benessere di tutti. Il brontosauro è morto ed estinto, questo è evidente.

Ma io sono viva.

E voglio fare quello che mi va e che mi fa stare bene.

Quindi, stay tuned, avrete notizie su questo, soprattutto vi racconterò come usciremo fuori dagli attacchi dei privati di qui. Magari faremo scuola. Fanculo.

Altro da aspettare?

Oh sì.

Aspetto i momenti da passare con Biancaneve perché son sempre i migliori.

Aspetto di trovar la volontà di dimagrire che serve sempre.

Aspetto di diventare un fenomeno mondiale a Ruzzle per battere la R* che è un mostro.

Aspetto che questo paese torni umano e solidale.

Aspetto il momento in cui smetterò di stupirmi per la bellezza delle cose per morire convinta di aver concluso.

Aspetto di capire come cazzo mi pago l’affitto il mese prossimo.

Qualcosa da aspettare c’è sempre.

Non è la città, sono i legami

castel-ovo-e-faito-con-la-neve

Soundtrack: Rolling Stones Anybody Seen My Baby

Sono a Napoli.

Parto domattina all’alba avendo combinato un casino per via della mia demenza senile allegramente avanzante (ho ben due amiche a Roma, una non la vedo dagli anni 80, ci ho vissuto negli Stati Uniti, l’altra è l’unica che può capire, perfettamente, il mio stato d’animo attuale).

Quando vengo qui cammino per ore senza farci caso. E mi sparo i cinque allucinanti piani per arrivare alla colombaia senza neanche troppo sforzo.

Mi sono addormentata nel pomeriggio sul divano guardando i tre denti del Faito.

Una giornata splendida. E calda.

Ho comprato un borsalino nuovo. Identico. Non l’ho trovato di altro colore. Assolutamente identico ma nuovo. Una ossessione penelopesca.

Non sono andata da mio padre come mi ero promessa e ripromessa. Non ce l’ho fatta.

Ho dormito. Nella mia narcolessia da evitamento tipica.

Dovrò perdonarlo prima che muoia (io o lui?). Credo di doverlo fare ma ben poche cose mi aiutano a coltivare questo dovere. E non si può perdonare per dovere. Bisogna sentirlo.

Con il doc Fab siamo chiusi in casa da due giorni. Non ci viene di uscire. Capita che qualcuno passi di qui e si fermi. Ma stiamo bene nei nostri silenzi e negli scoppi di chiacchiere sintetici e intensi.

Abbiamo fatto l’albero insieme. E’ una bella sensazione. Mi piace fare l’albero e qui dai favolosi è particolarmente divertente. Il numero di palline da sistemare è vicino alle 9 cifre. Tipico del docfab e del suo concetto di quantità minima necessaria.

Tre ore a dirimere rami, sistemare lucette e attaccare palline colorate. E’ bellissimo e sono ben felice di averlo fatto qui. Che resta il mio posto dove tornare. Il posto dove fare il pieno assoluto di calore e tranquillità e energia e quiete.

Casa.

Sempre di più e persino senza il fab1.

Quindi non è la città che mi ricarica. E’ questo posto, senza dubbio.

Sono sul computer del doc, non oso immaginare che musica ci troverò. Ha degli strani e variegati gusti. Vedremo.

Napoli è un carnaio di umanità incazzata nera. La bellezza delle donne affacciate ai vasci (=bassi, N.d.T.) è commovente. Ma non bisogna guardare, neanche nascosti dallo schermo di occhiali scuri. Se ne accorgono e si incazzano come varani. Rischiosissimo.

In questa città uno sguardo diretto è un guanto di sfida che va raccolto prima che cada. Mi chiedo di cosa si abbia costantemente paura.

A vederla da fuori è affascinante come una puttana francese di mezza età. Ha molto da raccontare, ma nun se po’ guardà.

Nei miei pensieri una tromba d’aria in perenne movimento circolare.

E’ tutto inventato. No è vero e questo è pericolosissimo. La voglio. Non mi vuole. Non la voglio. Mi vuole? Ha letto il mio blog?

Non lo so. Non ne ho idea.

Domani vado ad uncontrre una vecchia amica, come detto. I** è stata la mia collega per tre anni al corso di logopedia, mi ha fatto studiare e lavorare venendo a casa mia la mattina presto per svegliarmi. Sono andata con lei a Bethesda e abbiamo vissuto insieme per sei mesi. Il mio primo volo l’ho fatto con lei. Un’amica per un tempo importante e particolare della mia vita. Non ci vediamo da quasi vent’anni. Vuole farmi vedere i suoi figli.

Certo che ho un gran culo, sempre trovato amici/he disposte a trascinarmi per farmi fare cose che mai e poi mai avrei fatto senza un raggio traente.

Buonanotte.