Napoli è in Medio Oriente

Soundtrack: mi sa che ci vuole. Mi spiace per la cattiva qualità, ma non se ne trovano di migliori.

Torno carica di energia rossa e bruciante. Energia rubata. Senza aver dovuto lasciare neanche un grammo di me. Ne sono fiera. E’ la mia vendetta personale.

In questo week end mi è sembrata Istanbul. Non lo so, non conosco la Turchia o la Tunisia o il Marocco. Ma io le ho sempre immaginate così come ho visto la mia città oggi.

Siamo oltre l’imbarbarimento.

Siamo al ritorno alle origini. Siamo a quelle immagini da Gran Tour, quelle raccontate da fancazzisti francesi ed inglesi due secoli fa.

La vera natura dei napoletani e della terra che occupano.

Qualcuno ha detto che i napoletani sono l’unico “popolo” europeo rimasto.

Non lo so.

E non l’ho vista né abbandonata né sciatta.

L’ho vista per quel che è.

Ho portato con me la pastiera. Ero a rota.

E il sapore della frittura all’italiana. Chi la conosce sa cosa intendo.

Scendo le scale del palazzo del fab e attraverso nuvole al sapore di genovese.

Attraverso strade dei quartieri e incontro donne in pantofole e vestaglia urlarsi da un vascio (=basso, unità abitativa essenziale posta al piano strada, N.d.T.) ad un altro. Era un po’ che non ne vedevo.

Roba vecchia agli angoli delle strade. Cantieri. Scavi. Bancarelle di cibo come nelle foto Alinari. Odori su odori.

Palazzi scalcinati. Scirocco caldo e sabbioso. Pioviggina fango di tanto in tanto. Polvere.

Caffè denso e saporito. “Zucchero io?”. Chiede il barista. Lo avevo dimenticato. Avevo anche dimenticato la necessità di specificare “in tazza fredda”. A Napoli le tazzine da caffè sono crateri di vulcano in eruzione.

Folla che grida. La partita. Silenzio e poi urla e insulti. Bestemmie mai. Quelle le ho sentite a Roma per la prima volta. A Napoli non si bestemmia neanche quando il giocatore del milan si butta a terra per finta.

I bar con i megaschermi. I poliziotti che si fermano a guardare la partita.

Volevo anche il pane e la mozzarella. Non avevo abbastanza soldi.

Mi accorgo di aver paura. Che mi rubino la macchina. Che mi rubino lo zaino. Che mi rubino il cellulare. Io non ho mai avuto paura a Napoli. Mai. Non capisco. Forse semplicemente non la conosco più.

Ho fatto le 4 e mezza di mattina, sabato, festeggiando i 40 della R*. Bella festa a sorpresa.

Incontro un Verme e, come un automa, malgrado siano 10 anni che non lo saluto, lo bacio pure. Che cazzo mi ha preso? Automatismi da afasica.

La vita scorre e le storie si incrociano. Napoli è piccola. Ci si ritrova e ci si rivive che lo si voglia o no.

 Prima di tornare a casa caffè e cornetto vicino al mare. Con V*, L* e I*.

Odore di frutti di mare. Folla. Macchine. Rumori. Camerieri sbrigativi. Abitudini consolidate.

Alla festa avevo tacchi 7. Una tortura ma ne valeva la pena. Ci ballo anche. All’una e mezza mi rimetto gli scarponcini anche se sotto al vestitino stanno di merda. La R* mi rovescia un vodka lemon nella scollatura. Santa Pazienza. Mi siedo su un trespolino e organizziamo un taglio e cucito in quattro.

Perché le lelle vestono sempre di nero? (noi siamo vestite di nero). Perché le lelle non sanno comprare pantaloni adeguati alla propria struttura fisica? (meno male che avevo il vestitino).

Ne arriva una che sembra un mafioso russo. Spolverino di lana con cappuccio. Coda di cavallo bassa e gel. Stivali a punta con rinforzi in acciaio. Pose plastiche da bodyguard di hollywood. Nera. Se la incontrassi di notte in un vicolo scuro, chiederei protezione al primo rumeno che passa. Non è vero, ma mi viene di pensarlo.

Donne. Tante donne. Poche solari. E’ la cosa che mi intristisce di più.

La R* è felice. Questa è una buona cosa.

V* ed io, di tanto in tanto, lanciamo un lamentoso “voglio la mia fidanzata”.

Racconto la storia mia e di Biancaneve almeno 8 volte.

Qualcuno mi consiglia di scriverci un libro perché è una storia molto romantica.

Mi viene da ridere. Ma sono fiera come un cavallo arabo.

Dimenticavo: all’andata sono finita sulla Roma – L’Aquila perché mi sono messa a fare una gara di velocità con una opel. Ho perso l’uscita giusta per continuare a correre.

Ma ho vinto io. A Tivoli, ma ho vinto io.

Mi si dice che pontifico. Ci rifletto un po’ su.

Stasera rivedo Biancaneve. Le brillano gli occhi per una bella cosa che ha fatto in questo week end.

Qualcuno mi ha detto “stai attenta”.

Ho risposto quello che dico di solito: “sticazzi”.

Buonanotte gentili sparuti lettori.

2010

Soundtrack: Florence and the Machine You’ve got the love

Quando avevo 15 anni, pensavo al 2000 come una data lontanisssssima. Avrei avuto 37 anni. Non credevo neanche di arrivarci. Come è tipico di una guagliona cresciuta tra i 70 e gli 80.

Invece ci sto. Come tutti sapete. Con orgoglio e sorpresa, devo dire. Lo stupore degli anni che passano e mi vedono qui, non mi abbandona mai. Immagino sia una buona cosa.

Dunque è classico tempo di propositi e auguri.

Nel frattempo aggiorno la folla trepidante: tutto bene.

Ordunque. C’è da augurare cose a persone. Vediamo cosa viene fuori oggi.

Per il 2010 auguro, a chi conosco, ma anche a chi non conosco (suvvia, un po’ di generosità l’ultimo dell’anno):

autostima a chi non ne ha,

chiarezza a chi naviga nella nebbia,

remi a chi ha la barca senza governo,

consapevolezza a chi manco si ricorda come si chiama,

cuscini a chi finisce sempre culo a terra,

formine prestampate da ritagliare a chi ha sempre idee irrealizzabili,

una ricetta semplice e veloce per chi non riesce mai a concludere un cazzo,

tempo a chi non ne ha,

zappe da orticello a chi ha preso la forma del divano,

sesso selvaggio a chi si è dimenticato come si fa,

carezze sulla faccia a chi ne ha fame,

baci sconsiderati per chi ha sete,

energie molto colorate per chi capisce solo il grigio,

una personalità a chi non ne ha,

la calma a chi ha il cervello in fumo,

e, in generale, il meglio che ognuno si augura per sé.

Nel frattempo ci tengo a nominare e ringraziare le cose che, nel 2009, sono state importanti per me. Non ho di che lamentarmi, su quest’anno che se ne va, e non voglio peccare di ingratitudine. Quindi ringrazio:

Biancaneve in tutto il suo essere e agire, è la mia droga e la mia gioia, la mia avventura e la mia adrenalina, la mia sorpresa e la mia certezza; you&me della Vodafone, come più volte detto, che mi permette di viverla anche quando siamo lontane; i cellulari Nokia per lo stesso motivo, l’inventore degli auricolari, Piazza Re di Roma, il mio culo per i parcheggi, il mio padrone di casa, questo blog, un bar del testaccio, la fermata della Metro Piramide, Ostia, la mia macchina, la sua macchina, il mio divano, i collant autoreggenti, una sua amica, molte mie amiche, i suoi figli (che non sono bambini, ma prodotti di Intelligenza Artificiale made in Japan), i miei ricordi, la sua voce, la sua intelligenza, le sue mani, il suo sguardo e il suo coraggio, il Nik’s bar di Largo Somalia e il ristorante Thailandese sotto casa, la sua testa di cazzo seconda solo alla mia, le sue scollature, l’alcool, gli sms, la sua schiena, le sfide, la comprensione, la pazienza, le emozioni, la resa, il mio spettacolo, Napoli, “ci sarà occasione”, i Centri Commerciali, i parcheggi, parco della Caffarella, sua madre, suo marito, la codina. E la chiudiamo qua, questa parte, ché potrebbe andare avanti per tutto il secolo XXII.

 

Gli amici: Penelope che è ancora qui malgrado la mia scarsa cura; mia nipote che è bella come il sole e coraggiosa come un guerriero ninja; mia sorella osservatrice e saggia come un consiglio di anziani su Marte; Marco che è lui, che sa cosa dirmi, che riesce a dirmelo e che sconta l’ergastolo con me; Francesco che osserva e parla, che c’è sempre e mi infila dappertutto; Raffaella che mannaggia alla miseria, non smette di fare domande che servono solo a non vivere, ma è fatta così, che ci vogliamo fare? Ziasaimon e la sua saggezza oltre che le sue fantastiche cene; papà che è, tutto sommato, uno che sa campare, Francesca Romana che è stata amica e musa, sicurezza e colore, casa e generosità; Vanessa che è colonna e certezza, limpidezza e protezione;  Chiara e Imma che partecipano e ascoltano con molta pazienza; Margherita che non si assenta mai. I miei colleghi, che in fondo sono famiglia anche loro. E, naturalmente, le persone che seguono il mio blog: Crila, Tribus, Vita, Deepgreen, Dandy, Imogene, Nelson, Francesca di milano, LaVale, Mah, CaporaleReyes, Omaha, Saffoco, Beatrix,  Bettyloop, Coraggio e tutti quelli che non conosco o che potrei aver dimenticato.

I luoghi: la colombaia che mi ha accolto in ogni possibile mood; “Io sto una favola è Naomi che non è normale” ovvero il sogno di una vita realizzato;  la spiaggia di Ostia e il mio coraggio di farci il bagno; la casa di Alice e Da Queen a Ostia e pure a Roma, rifugio e canile; San Lorenzo; Monterotondo; la CGIL; Senigallia e la riviera romagnola; ikea, Zara ed H&M.

Cose varie: latte e cornetti, caffè, cioccolata, pane, mozzarella, mousse all’arancia, il computer, facebook, il silkepil, i libri, il mio cuscino di lana da cardare, la musica, la radio, il lettore MP3, il lego, il presepe, vaporella e swiffer, il tavolo della cucina, la distrazione altrui, il carrozziere, la moto in disuso, le belle giornate, il freddo, il caldo, la vaniglia e il tabacco, le mie protezioni, la mia voce dentro.

Ecco, per ora mi sembra abbastanza.

Arti e mestieri

Soundtrack: Simply Red The right thing

Questa città è una vecchia bagascia.

E come tutte le vecchie bagasce sa esattamente come stimolarmi, come caricarmi e ri-caricarmi e come farmi sentire forte e potente.

Certo lo fa a pagamento, come da mestiere, ma ormai è per me un prezzo leggero, abbordabile, tutto sommato equo.

Perché poi non ci resto.

Ché da bagascia diventa cravattara. E gli interessi non finiscono mai. E da cravattara a spacciatrice. E pensi di non poterne più fare a meno, di non poter vivere senza.

Son ben contenta di utilizzarne i peculiari servigi senza lasciarmi intrappolare.

La colombaia è rinnovata e calda.

Il docfab è delicato e gentile.

Gli amici tanti. un tour di tre giorni che neanche Evita Peron.

Si mangia divinamente (oggi anche impepata di cozze fatta in casa a pranzo e giapponese a cena).

Mi torna voglia di fare cose, ritrovo un minimo di sicurezza e dell’autostima perduta, m sento umana e di sostanza.

Ne avevo bisogno.

In questi giorni niente passeggiate, mi mancano un po’, sono l’unico vero contatto con il territorio e con la sua estetica.

Certo mi fa più paura di quanta me ne facesse qualche anno fa. Ma non sono affatto sicura sia colpa sua, è che io, oggi, ho più da perdere di quanto non avessi 10 anni fa.

Almeno è questo quello che credo.

E il mondo è come te lo fai in testa.

Se pensi di avere qualcosa da perdere, ti metti in condizione di proteggerlo, di difenderlo e difenderti, non importa se, in fondo, non siste quel qualcosa.

Vedo le persone che amo cresciute e un po’ più tristi. Non tutti, ma quasi tutti.

Mi piace anche vedere persone che si rimboccano le maniche e provano a far qualcosa per esser più felici.

In questa città ci vuole coraggio, a far questo.

Per chi fosse in ambasce (!) a proposito della mia storia con Biancaneve, siamo ancora qui, tenendoci per mano e nascondendo la stretta con il cappotto. almeno per ora. Ed è molto bello così com’è.

C’è stata un po’ di devastazione, nella mia vita, in quest’ultimo periodo. Niente di irreparabile, molto di incomprensibile, qualcosa di evitabile.

Di rimarchevole c’è che sto entrando in menopausa.

Posso assicurare che la quantità di vampate che costellano la mia giornata è al di là dell’umana sopportazione. Dovrebbero avvertirti che funziona così. Sono esausta. La stronza, la vampata, parte all’improvviso anche se ci sono -7 gradi centigradi e ti ricopre di sudore ogni millimetro di pelle manco stessi in kenia a mezzogiorno. Oltre questo, non ci si può esimere dall’autocommento, a quanto pare: “fa caldo eh?” o dalla domanda retorica: “ma fa caldo?”, mentre intorno vedi gente con i paraorecchie e i ghiaccioli al naso e tu ti sei levata anche gli orecchini.

Dal parrucchiere, sottoposta alla tortura di guardarmi allo specchio per 60 minuti ininterrotti, ho avuto vari ed eventuali pensieri: sono invecchiata e ne sono perfettamente consapevole; mi riconosco più ora, guardandomi, che 5 anni fa, vado a farmi i capelli dallo stesso parrucchiere da 35 anni. Dal menarca alla menopausa. Mica pizze e fichi. In compenso mi sono spariti gran parte dei capelli bianchi. Miracolo di Biancaneve? Mah, i fitti misteri della vita. 

Non so ancora bene come prendere questa faccenda. In fondo non è niente altro che la fine di un ciclo di fertilità che eterno, giustamente, non può essere. Ma, in qualche modo, coinvolge e travolge ben altro. In fondo quella settimana di lamentazione a cadenza mensile, quelle maledizioni in cirillico che per anni e anni si affinano e si rivolgono alla propria manifestazione di rigenerazione e capacità di riproduzione e quell’argomento di discussione tra femmine (“ti sono venute?” manco fossero un parente autraliano in visita di cortesia) e di ambivalente ansia (“ho un ritardo”, come fosse un treno della ferrovia elvetica e senza mai che si riesca a capire, alla prima affermazione, se si è contentissime o incazzatissime), quando non ci sono mancano. Come una amica di una vita che all’improvviso non si fa più vedere né sentire. Preoccupa e intristisce.

Il commento del pater, sempre lapidario e pragmatico è stato “vabbè, tanto che te ne fai?”.

Come sarebbe “che me ne faccio”? non lo so cosa me ne faccio, non me ne devo fare qualcosa, che cazzo di commento è? Comunque, ne dovrò venire a capo e, d’altra parte, i prossimi rush ormonali non saranno cazzi miei ma di chi li dovrà subire.

Attenti voi…

Pilato’s big feet

Ma non lo so.

Mi pare di dire sempre le stesse cose.

Ossicompu, così mi chiama Alice.

Stringo i denti e fra un po’ resto con la dentiera.

Porca puttana (sempre e comunque con il massimo rispetto per le signorine della Salaria che hanno anche ricominciato a lavorare).

*URLO*

Che poi mi scioglie in due parole.

A dirsele, però.

Eccheccazzo.

A me non me ne frega un cazzo di come va a finire, vanno a finire le cose che cominciano. Qui siamo ai piedi di Pilato.

Certo che Pilato deve avere dei piedi enormi considerando la massa di cose e persone che stanno lì.

I modi di dire, che stranezza.

Ha gli occhi liquidi.

Non Pilato, ovviamente.

E’ una bella soddisfazione gestire i testi con i tasti del computer.

Sono circa 27 anni che smanetto sui computerss e non sono una hacker.

Tempo perso.

Sto ascoltando i Living Colour e mi ricordo della mia migliore ex fidanzata.

Un pezzo di pane anche se è finita di un male che la metà basta.

L’amavo molto.

Lei non mi amava più, amava un’altra.

L’ho dovuta lasciar andare, anzi ho dovuto spingerla fuori dalla mia vita. Lei si sentiva troppo in colpa per farlo, preferiva disintegrarmi l’anima pensando fosse meno grave che lasciarmi.

Ma io l’amavo (disse la principessa russa stesa sul sofà appoggiando il fazzoletto bianco alle labbra umide) e feci quello che andava fatto.

Voglio dire che:

  • la camorra è camorra – dice ziasaimon, una amica mia – ovvero gli amici sono amici e prima si proteggono, tutelano, sostengono e accompagnano, poi si menano se è il caso.
  • io sono lesbica. Sono una lesbica qualunque. Pure un po’ nana. Oltre ad essere lesbica qualunque, sono una persona, ho un nome, una vita, un bel lavoro malpagato, pago le tasse, ho degli amici, un gatto e una famiglia. Mi lavo e mi vesto, uso persino un profumo. Bevevo molto, non bevo più da almeno 10 anni. Fumavo erba (ma anche hashish e boungavillea) e non la fumo più da una ventina d’anni (marò che noia questa parte), fumo sigarette di tabacco perché costa meno e fumo meno (ma che è? la fiera della virtù?). Ho un carattere normale, faccio cose tipo guidare la macchina e fare la spesa. Al mio peggio faccio shopping inconsulto, mi assento dal mondo e sono una incazzosa esagerata. Sono anche ordinata e pulita. Ti pare il ritratto di un alieno?
  • della “gente” come me, delle lesbiche, degli omosessuali, dicono molte cose; dicono che siamo diversi, che siamo destabilizzanti per la società, dicono anche che è possibile menarci e insultarci, che siamo un pericolo per chi è etero, che siamo sterili, che facciamo peccato mortale e andremo all’inferno, che la nostra esistenza è un insulto e che siamo la devianza, il male e la feccia della terra. Lo dicevano anche degli ebrei. Immagino esista chi ne è convinto. Pensa che io di marchi in petto dovrei portarne due, la stella gialla e il triangolo rosa. C’è chi è andato nelle camere a gas per molto meno. E io non sopporto la lamentela vittimistica di noi DEVIATI, perché mi rompo le palle e mi annoio a dirlo e a sentirlo. Ma, CAZZO, comunque è così.
  • in 46 anni di vita non mi è mai, ripeto MAI capitato di trovare qualcuno che mi sparasse stronzate stereotipate sulla mia vita. E di gente ne ho incontrata. Non ho perso nessuno, non si è allontanato nessuno. Chi non conosceva mi ha chiesto, chi non capiva ha ascoltato, chi non sapeva ha imparato.
  • ci tengo a questo blog, a dichiarmi lesbica, a fare gli spettacoli. Ci tengo a parlare con persone che di quello che vivo io non sanno una mazza di niente. Per raccontare una vita fatta di cose comuni e qualunque. Di sentimenti che sono uguali per tutti, di emozioni che non hanno niente di diverso da niente, di vissuti forti e chiari che vanno condivisi perché sono una ricchezzai (abbè, questo è proprio un delirio di onnipotenza silviano).

Dove voglio arrivare?

Non lo so, è tutto abbastanza sconclusionato e stanco.

Non ha senso.

Buonanotte.

 

 

 

 

bah!

Soundtrack

Quando litighi con uno: è stronzo lui.

Quando litughi con due: è una pessima giornata.

Quando litighi con tre: hai un problema.

Certo non è alta filosofia, devo averlo sentito in un serial televisivo pomeridiano, ma mi sembra sensato.

Mi vengono in mente molte cose sulle quali riflettere.

Fermo restando che sull’ultimo episodio si è trattato solo di “giusta reazione”, qualcosa non va lo stesso.

La prima cosa che mi viene in mente, al di là di quello che le persone importanti per me mi dicono, è che questo vivere costante in orrore economico mi sta trasformando in una bestia da sopravvivenza.

E’ il primo item e non casualmente. E’ risolvibile con poco, lo comprendo, vedo possibili soluzioni e mi fa anche cordialmente schifo. E’ come essere un tossico, un alcolista, un giocatore d’azzardo. Hai un pensiero in testa e mantieni lo sguardo fisso e penetrante su occasioni, opportunità, opzioni e soprattutto persone che ti possano tenere la testa fuori dal fango. Appunto: “una bestia da sopravvivenza”. Vedo anche che si è trasformato in un punto dolorante e debole, sul quale è facile colpirmi e farmi male. Un ottimo modo per distogliermi da altro. Non capiterà più.

Mi accorgo di essere monotematica e ossessiva nel comunicare. I temi sono due: Biancaneve e sopravvivenza. Immagino lo sfracantamento di palle. Suppongo anche si possa tollerare, ma solo nel caso in cui, di tanto in tanto, la bocca taccia e le orecchie si accendano. Cosa che evidentemente non succede secondo chi ho di fronte.

Sul secondo tema ho già detto; sul primo imparerò a tacere. Sulla accensione delle orecchie sospetto sia meno facile. I miei neuroni gemelli sono ossessivi, vanno a loop e questo, decisamente, si nota. Ho da imparare a mettere da parte la mia vita sentimentale, per quanto sia ancora in piena tempesta e formazione, per quanto sia ancora densa di astrusi colpi di scena e soggetta a variabili irreali, devo imparare. Non so come si fa, ma è una buona occasione, di quelle necessarie.

Più di una persona mi ripete, negli ultimi mesi, che la mia assenza si sente. Qualcuna mi dice anche che la mia assenza fa rabbia. Altre mi dicono che poi, nel mio esserci di questo periodo, metto solo in atto una sapiente strategia cartonata che suona più o meno “faccio finta, in realtà sono assolutamente altrove”. Nella quale strategia è prevista una durezza di quelle che non ammettono repliche.

Questo ho più difficoltà a capirlo. A sentirlo. A figurarmelo. Ma ci sto lavorando, ci arriverò. Mi viene da giustificarmi e so che, fin quando reagisco così, non ho capito l’essenza della questione (che è un modo gentile per dire che non ho capito un cazzo).

Penelope incazzosa tende a starnazzare come un’oca e ad affermare il proprio bisogno di essere dov’è, ad imporre la propria necessità di seguire i fruscii delle vesti di Biancaneve come e quando ne ha voglia. L’incazzosa Penelope si chiede cosa c’è di male in questo, nel suo essere dentro qualcosa che ha desiderato a lungo e che neanche sperava. Si chiede perché dopo due anni così difficili e lupeschi non le venga perdonato il bagno nei suoi privati sentimenti. Penelope si chiede anche se è questo il punto e ne dubita, ma ha bisogno di dirlo.

Ancora ci devo pensare, non mi torna e non mi basta. Ci deve essere altro e non so neanche se ci sono vicina, alla realtà delle cose.

Buon week end a tutti e passate a vedere le magliette: http://www.eshirt.it/gs/4a4b5e1008a29

 

The Flying Freghnas

Non ho tempo per immagini e suoni.

Potrei andare avanti a cambiare tema fino al 2012. In fondo mi piace quello che avevo, ma ho voglia di cambiarlo e non ne vengo a capo.

Ho anche voglia di cambiare modo di stare in coppia.

Non voglio vedermi come l’unica che “ha bisogno”.

Non voglio essere governata dalla sindrome abbandonica.

Perbacco.

Quel senso di autocompiacimento/autodenigrazione che si tatua nell’orecchio: “ommioddio, ama me! come è potuto accadere?” mi ha un po’ sfragnato le palle e ne faccio a meno volentieri.

Fatti delle scorse settimane:

Incontro la mia ex al mare e penso che, cazzo, non me ne fotte neanche di chiederle come sta. Non abbiamo costruito granché in 6 anni.

Biancaneve è il mio pensiero costante. Adolescenziale. Che meraviglia. Ma c’è da recuperar qualcosa che si è perso/incrinato perché ci son questioni in gioco che son cazzi.

Siamo un gruppo strutturato in web. Una rete che si attiva sulle necessità di qualcuno e riesce a trasformarsi in una squadra efficace ed efficiente. Perché siamo quasi tutti senza riferimenti fissi, senza famiglia (omosessuali e pure emigranti, niente più?) e pieni di inutili conoscenti. Domenica le “Flying Freghnas”, ovvero Alice, Da Queen ed io, abbiamo organizzato un soccorso volante perfetto. Racconterò. Questa struttura mi affascina, mi piace, mi riscalda e mi rassicura anche. Non è da tutti.

La mia situazione economica è drammatica (ma che palle, Penè).

Feisbùk mi ha rotto.

Ho dei progetti.

Su di me.

Voglio scrivere un altro spettacolo.

Volevo parlare di tutt’altro.

Se non la smetto di perdermi per Roma e dintorni, mi infilo un tom tom in parti del corpo insospettate.

Buona settimana.

 

 

Nel frattempo

Soundtrack: ce vo’.

In macchina mi ritrovo a pensare che è arrivato il momento di lasciar andare delle cose. Di abbandonare. E che abbandonare non è sempre sinonimo di uccidere. Non so se ce la farò, è una impresa enorme. Devo pensarci ancora un po’. Mi chiedo molte cose, trovo molte risposte qua e là.

Entro a Napoli da via Marina. Buffi tentativi di abbellire con le palme una strada che sarebbe, senza nulla aggiungere, bellissima. Basterebbe lasciare libero il mare.

Mangio pesce. Vedo il Fab. Indurito e scintillante come la lama di una katana. Mi festeggia e demolisce con le medesime parole. Mi dice: “non sbagliare”. Mi dice: “sii felice”.  

Dormo come ‘na bimba dopo i miei rituali di buonanotte con gli amori sparsi.

C’è il sole, poi la pioggia. Sembrava umidità solida. Napoli ha un odore preciso quando piove. Un misto di polvere e sabbia e sterco e sale e catrame.

Ziasaimon mi regala un pantalone. Ferma in un punto preciso incontro almeno 5 persone che conosco. Via i capelli.

Cammino raccontando ogni passo via sms.

Mi allungo sulla città e mi commuovo a guardare le palme morte e moribonde e i pini con la corteccia rosso sangue. L’energia di questa città, in questo periodo, è malattia e morte. Come il resto del paese, ma, come al solto, qui si vede di più.

Vedo il pater, c’è da convincerlo a spostarsi. E’ tempo. Lui resiste, vedremo. Gli racconto di me. Non so se è più stupito, imbarazzato o disinteressato.

Passeggio, incontro, guardo le vetrine, mi maledico per l’indigenza cronica e chiacchiero con Biancaneve in testa e via cell. La nostra vita immaginaria.

Di nuovo il fab. Lo ascolto e vedo la nebbia che ha saputo tirar su intorno alle sue motivazioni. E’ bello il fab. Stronzo e bello. Lui è così, inutile stare ad aspettare altro da questo.

Cena con i soliti. Mi addormento di colpo. Sonnambulo sul divano. Non li saluto neanche.

Mi risveglio per sistemarmi alle 2. Alle 4 inizia l’inferno di tuoni e fulmini e vento e pioggia. Non riesco a dormire. Dalla finestra non si vede neanche il palazzo di fronte. Assordante. Accecante. Mi addormento alle 5.

Chiacchiere, cibo, ancora sonno, è saltato l’impianto. Il docfab è stanco morto.

Trovo la mia macchina con la fiancata devastata e lo specchietto penzolante. Non riesco neanche ad incazzarmi. Mi avvilisco.

Ascolto il concerto delle cantanti italiane per l’Abruzzo. bello. Ascolto Biancaneve cambiare voce e stringere la gola. Come sempre quando non è dove vuole essere. Non è bello.

Abbandonare. Lasciar andare. Separarsi. Imparare a farlo.

Improvvisamente mi sembra importante. Prioritario. Basilare.

Son cazzi.

 

Ho scelto

sinusoide

Soundtrack: Joe Jackson Steppin’ Out

Ho scelto lei.

Con la sua camminata lunga e ritmata, con la sua voce sinusoidale, con il suo profumo di pulito ed energia.

Mi siedo, dopo due giorni densi come caramello, e mi accorgo che sono stanca e fortunata.

Ché a 46 anni amare in un modo che non conosci è una gran botta di culo.

Incontrarsi è una gran botta di culo.

Sì, lo so, avevo da andare al gay pride, avevo da andare a trovare mia zia, avevo da.

So anche che non è una novità che io abbia scelto lei e non il resto. Che ho sempre fatto così.

Ma non mi importa.

Un momento con lei è un momento rubato. Io non ci rinuncio.

Imparerò a mediare quando non dovrò più centellinare.

Mi fa anche paura questa mia già nota monogamia mentale e pratica. E parecchio.

Son fatta così.

E’ che svegliarsi all’alba e trovare il suo sorriso sul cuscino accanto al mio è il festival di Rio e i fuochi d’artificio della notte di ferragosto a Positano.

Ridere con lei raccontando storie fantastiche e senza senso è sole e vento ed aria fresca.

Sognare futuri alternativi è bello come l’acqua quando hai sete e il pane quando hai fame.

Io lo voglio un equilibrio tra il mio perdermi con lei e la mia enorme e colorata famiglia di sangue e sudore e denti. Voglio arrivarci senza perdere niente.

La mia gatta dorme, meglio che vada anche io.

Vi amo tutti, sappiatelo. Sono in fase peace & love.

 

La terza e l’ultima

contributo video

Soundtrack: niente perché il box non funge

In questo periodo ho difficoltà a dare le parole a quello che vivo e sento.

Cosa estremamente fuori norma. Sospetto sia una cosa importante, anche se non la capisco granché.

Devo scrivere qualcosa su mia madre. Lo sento. Lo sento importante. Vedremo.

Passiamo allo spettacolo “Io sto una favola, è Naomi che non è normale”.

Sabato sera Alice è stata fantasmagorica. In sala c’erano svariati “addetti ai lavori” e le critiche arrivate sono state più che lusinghiere (si dice così no?). Soprattutto c’era mia sorella, direttamente dalle Marche con affetto.

Sono stata fiera e contenta.

Domenica l’ultima.

Amici ancora e affetto a profusion.

E’ bello sentire la gente ridere. Mi mette di buon umore.

Questo spettacolo è nato perché decine di cose si sono messe insieme magicamente e hanno preparato la culla e la stanza nel quale farlo crescere.

Ho conosciuto Alice casualmente, attraverso questo blog. Ci siamo viste, ci siamo trovate, ci siamo riconosciute.

Non l’avevo mai vista recitare, ma che lei sia un’attrice ce l’ha scritto in fronte.

Le dissi che sognavo di scrivere una cosa per il teatro da almeno una decina d’anni. Lei mi ha detto: “fallo”.

In tre mesi il testo era pronto. In tre mesi lo spettacolo era pronto.

Per quanto fosse poco strutturato per un palco, la regista e Alice ne hanno fatto quello che desideravo.

Nel frattempo vivo una storia privata che mi pare la più bella della mia vita. Quasi contemporaneamente.

A tratti mi prende la paranoia di essere finita in un mondo parallelo, di dormire e sognare, di essere schizofrenica e aver immaginato tutto, di essere morta e il paradiso è rivivere la vita come l’avresti voluta.

Mi accorgo che mi sono costruita scafandrata, maniacalmente attenta a non farmi sfiorare da emozioni troppo forti e, ora che le vivo, manco so come manifestarle. Come se mi mancassero dei pezzi.

La sera della prima una mia collega ha pianto. Anche dopo. Ha detto che ci vedeva la fatica del ricostruirsi, del mettersi in discussione, le vite vissute e la forza delle donne. Non me lo aspettavo. E’ forse la reazione che mi ha colpito di più.

Detto questo, detto tutto.

Grazie ancora ad Alice, portatrice sana di sogni altrui ed alla regista, traghettatrice.

La Prima e pure la Seconda

sediaSoundtrack: The Gossip Listen up!

Travolta dall’emozione.

Fuori di me.

Alle prove avrei cambiato ogni singola parola scritta. Mi sembrava tutto troppo e tutto soverchio.

La sera gran bordello. Tutti amici. Una festa di compleanno. Amiche venute apposta da Napoli. Ziasaimon a dormire da me, C&I in andata e ritorno. Colleghe praticamente tutte.

Io una cremolata di mandorle frantumate.

Alice concentrata come un’astronauta.

La regista fatta a biancospino.

Da Queen con tachicardia.

Un dipartimento di salute mentale, in pratica.

A me, lo spettacolo, è piaciuto. Alle 31 persone presenti pure. Anche ai proprietari del teatro.

Alice è, come detto, di una bravura mostruosa. Passa da un personaggio all’altro magicamente. Completamente.

Chi ci ha visto una cosa, chi un’altra. Chi ha pianto, chi ha riso, chi ha riconosciuto me, chi non ha capito una mazza, chi ha trovato riferimenti a cose vissute insieme. Ognuno il suo.

Adrenalina a fiumi, serotonina da arresto immediato.

La seconda: 7 persone mai viste in vita mia.

Agitazione diversa. Stanchezza cosmica. Discesa verticale di adrenalina e strane sensazioni di protezione verso Alice e il testo tutto.

Nel frattempo sul privato ho fatto un paio di clamorose cazzate da pipparola impenitente. Se Biancaneve non avesse la pazienza di Giobbe, avrebbe fatto bene a mandarmi affanculo di prima.

Ma possiede la pazienza di Giobbe, thanxsky.

Stasera la terza.

Vediamo cosa c’è di nuovo.

Hot week

Soundtrack: Questa

Molte cose, in realtà, sono successe in questa settimana.

Lo spettacolo è pronto e, per la prima volta, mi hanno permesso di assistere alle prove.

L’ho trovato bellissimo.

Alice è brava, veramente brava e, per quanto si possa pensare che le mie siano parole affettive, io mi sento obbiettiva e seria. Invece.

E’ tutto anche meglio di come l’ho immaginato. Da non credere.

Sono rimasta paralizzata come al solito. Senza riuscire a dire una sola parola. Faccia inespressiva. Respiro assente. Occhio vitreo.

In pratica più mi emoziono e più vado in tetraparesi. E meno male che con gli anni uno dovrebbe imparare a gestire il proprio lato emotivo.

Mi sa che il mio non è un lato. Sennò si risolverebbe con una emiparesi (battuta accessibile a pochi, mi sa).

Lo spettacolo è nel Calendario Eventi del Gay Pride.

E così è andato anche l’anonimato…

Sul lavoro mi ritrovo, per l’ennesima volta, ad avere a che fare con gente che ha la segatura nell’anima e che, per uno scampolo di potere da miserabili, venderebbe non la sua, ma la mia, di madre.

Thanxgod ho altro. Lo spettacolo, gli amici, Biancaneve.

Ho il dubbio che qualcuno si sia fatto una immagine di me del tutto fuori sincrono e fuori realtà. Si vede che ho sbagliato qualcosa.

Soffro per la situazione economica oltre ogni ragionevolezza. Al di là delle impossibilità quotidiane che ho e che, di base, dejà bastano, il non poter fare un regalo, offrire una birra, pagare qualcosa, mi strappa dentro. Non sono abituata, non è da me, mi sento una scroccona avara e ingrata. Orrendo. Assolutamente orrendo.

Trovo richieste di aiuto su questo blog e non so cosa rispondere. Non ho risposte, appunto, e non sono d’aiuto. So scherzare con gli stereotipi, so giocare con le parole, so far la figa a chiacchiere, ma non so cosa dire ad una persona che non conosco e che vorrebbe sapere chi cazzo è e che cosa vuole dalla sua vita. Questo neanche alle persone che conosco.

Tra poco torna il fab. Non so come sarà rivederlo. Mi fa rabbia il solo pensarci e non credo neanche verrà a vedere lo spettacolo. Immagino se ne strafotta. Anche di questo.

Oggi mare. Niente bagno che l’acqua di Ostia faceva schifo pure alle zoccole di fogna. Ma molto sole.

Sono stanca. Stasera sono stanca e non so perché.

Bonne nuit

Domani

46 anni

Soundtrack: Planet Funk Lemonade

Domani è il mio compleanno.

Ne faccio 46.

Dico QUARANTASEI.

Mica pizze e fichi.

Niente wishing list quest’anno.

Non riesco a ottenere i fondamentali della sopravvivenza, figuriamoci il facoltativo.

Da un lato.

Dall’altro lato (destro o sinistro? non saprei) ho ben più di quanto potessi desiderare.

Ma molto molto ben più.

Adesso fumo tabacco, ho dovuto dire addio alle Gauloises rosse e mi diletto in costruzioni di sigarette handmade a base di Golden Virginia giallo, cartine e filtrini OCB. Più o meno 1 euro al giorno contro gli 8 precedenti. E fumo la metà.

Cerco di sgrossare quel tocco da “canna anni 80”. L’imbuto. Sto imparando dignitosamente. Anche rollare è procedurale, desumo.

Qualche volta però mi si becca col cannone vintage e, devo dire, non faccio una gran figura.

Niente festa in codesto 2009. La mancanza di ansia da preparazione party mi comporta numerose altre ansie da volume numerico.

Nel frattempo, si sappia, dal 28 al 31 maggio, andrà in scena qui a Roma, uno spettacolo da me scritto e da Alice interpretato.

E anche qui, mica stiamo a smacchia’ i leopardi.

Domenica sarò a Cape Cott (Capo Cotta) al Mediterraneo. Chi mi vuole festeggiare, si rechi altresì ivi.

Sto un po’ moscia, meglio che io mi attivi.

Certo, il compleanno senza Biancaneve è un po’ monco, ma è il destino delle amanti.

Che a pensarci, mai avrei immaginato potesse accadermi.

In generale è contro i miei principi, in particolare, fanculo ai principi, voglio Lei.

Mi mancano gli amichetti di Napoli, non sono abituata a festeggiar senza di loro.

Vuol dire che verranno in carovana per lo spettacolo.

Vero?

 

 

 

La sfracantapalle

 

Soundtrack: Massive Attack Unfinished Sympaty

Mi accorgo che i miei migliori amici, stentano a raccontarmi pezzi importanti della loro vita.

Non solo stentano, ma si aspettano pippotti e commenti pregiudizievoli da vera sfracantacoglioni.

MA CHE MERAVIGLIA!

Dovrò rivedere qualcosina, diciamo così.

Il bello è, che io non mi sento una sfrantatesticoli.

Ma, evidentemente, lo sono.

Il tutto prevede che io sia vista giudicante, intollerante, non flessibile e razionale allo spasimo.

Una vera corticale sinistra blu.

[sorry, sono reduce da un attacco di panico dovuto ad un invito spiazzante]

Ho un brutto carattere, sì.

Ho idee precise, sì.

Sono rigidina, sì.

Mapperò.

Gli amici sono amici. Posso abbaiare un po’, protestare sui principi, agitarmi sulla sedia ma, alla fine, conta quello che la persona decide di fare. Conta anche per me. Si rispetta e si sostiene.

Manca questo passaggio, evidentemente.

 

Alta antropologia

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Soundtrack: Wouter Hamel Don’t ask

Siamo fatti per stare in branco, non siamo fatti per stare in coppia.

Diciamocelo.

E, per giunta, branchi di omologhi.

Gira che ti rigira, si vive meglio così. Tutti viviamo meglio così.

La coppia, da sola, soffre, si danna e non resiste.

Perché mai lo penso da giorni?

Sospetto motivi poco nobili. Sospetto di aver bisogno di trovare buone giustificazioni. Ma anche no.

Poter conservare tutta la mia vita e i miei legami e le mie cazzate e le mie narcisistiche sceneggiate mi sembra, per la prima volta, una gran bella cosa.

E poi adoro il mio branco. La Famiglia. Con quel po’ di senso meridionale del termine. Vagamente camorristica. Adoro vedere il branco muoversi verso qualcosa, qualcuno, attivarsi per, preoccuparsi di, aver cura. Meraviglioso.

Poi.

Preavverto che a maggio ci sarà grande evento. Almeno per me. Non ha a che vedere con i numeri del blog. Anche se col blog ha a che vedere sì.

Sento la mancanza del pater. Deve essere l’influsso della mela di Biancaneve. Che fa effetto ecstasy: peace&love.

Ho chiacchierato, in questi giorni, con chi nulla ne sa, della vita standard di una lesbica metropolitana.

Mygod siamo infarcite di paure come un cannolo siciliano. Ma non se ne può fare a meno.

E lo sappiamo solo noi. Fuori da qui, non si ha una idea di cosa significa essere apertamente lesbica. O apparentemente lesbica. Quando ne parlo ricordo perché mi importa ancora così tanto definirmi e definire.

Sono nella peggiore situazione economica degli ultimi due anni. Zero risorse. Zero assoluto. Mi so’ un po’ rotta il cazzo di ciò.

Buona giornata abbelli.

La gatta che si credeva capopopolo

Soundtrack: Finley quaye Even After All (in un delirio di autodedica sfrontata)

Penelope si è presa sul serio. E combatte le sue svariate guerre.

Le armi sono le uniche che ha: saper parlare, sembrar convinta, non restar da sola.

Combatte anche un po’ dentro. Qui e là focolai di follia consapevole prendono calore e cercano di invaderla del tutto.

Lei si crede capace e non molla.

E credersi capace è una sensazione che non ha mai provato prima.

Penelope cammina sorridendo e la gente le chiede come mai.

Perché no?

Quando ti sembra che poco ancora ci sia da scoprire di nuovo, fuori e dentro di te, accorgersi che non è finita affatto, che non hai finito di imparare, che non hai finito di sentire, che non hai finito le avventure e i giochi da fare sono tanti, è un regalo trovato sotto al letto.

Nel frattempo mi perdo anche un po’. Ho del tempo in meno. Due cose importanti da concludere. Ma non sono multitask. Ho da aspettare i miei tempi.

Seeeeee. Campa cavallo.

Gli amici son gli amici. Su quello non si discute. Sono qui con me, secondo dopo minuto dopo ora dopo giorno.

I nuovi legami faticano a trovare definizione ed equilibrio. Il tempo ci sarà. Nello scorrere delle cose, strane azioni/reazioni mi lasciano perplessa e riflessiva. Ma, l’ho già detto, non ho più risposte e mi annoio a ragionar sull’irragionevole.

E confortevoli imprevisti mi occupano i pezzi di anima rimasti fuori dalla battaglia.

I progetti avviati per caso e cosmiche coincidenze procedono.

I battiti non li ho ancora ritrovati e non credo sarà possibile recuperarli in un giorno solo. Ma mi mancano. Come l’aria. E asmatica resterò finche non potrò incrociare l’azzurro che ha negli occhi e convincermi che mi ha visto anche attraverso gli occhiali del suo strafottutissimo orgoglio biondo.

Metto su cose. Creo cose.

Il suono della parola “creo”, mi ghiaccia il sangue e mi ricopre di bianco terrore. Mai e poi mai ho usato la prima persona singolare con questo astruso verbo pieno di vocali.

Any news?

 

 

Sansiti

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Soundtrack: Seal I can’t stan the rain

Quelle giornate che ti dicono che la primavera arriverà.

Comunque arriverà, questo inverno non è infinito.

Mi scelgo le strade migliori, quelle che si aprono sul mare e sulla luce. Non importa quanto allungherò la strada. Sansiti è un quartiere, in tutti i sensi. Le distanze sono nella testa, in realtà è tutto in pochi chilometri rettangolari.

Mia sorella mi dice che dovrei imparare a dare la giusta importanza alle emozioni, che non si può vivere dipendendo solo dai sentimenti. “Guarda il pater”. Mi dice.

Il pater gioca a fare il vecchio inutile, lo fa per farsi voler bene. Io lo guardo e penso che devo essere davvero orribile per non riuscire a dimenticare la sua potenza di fuoco da incrociatore ora che è diventato una scialuppa senza marinaio. 

Lo guardo in piedi con le sue polacchine di camoscio, il jeans nero, il pulloverino di cachemire rosa e il piumino smanicato, mentre si preoccupa per me.

Si preoccupa per me.

A suo modo, senza ascoltare una sola parola di quello che dico, senza capire un solo passaggio del mio ansiogeno fiume di parole.

Si preoccupa per me.

Vecchie storie rigurgitano e mi accorgo che vent’anni non bastano a cancellare rancori e orrori. In nessun caso. In nessuna relazione. Non basta il sole che riscalda fino al sudore, non basta il libeccio lieve che toglie la polvere di dosso.

Il cuore si affloscia sulle mancanze. Sulle mancanze non fisiche, a quelle sono abituata, ormai.

Qualcuno ha la mia anima tra le mani e ha unito pollice ed indice per lanciarmi in porta come una pedina del subbuteo.

Qualcuna ha qualcosa di me incastrato nella sinusoide della sua voce e me ne ricordo guardando una baia meravigliosa che cerca di liberararsi dell’orrore di una secolare acciaieria.

Chi mi conosce bene ride. Chi mi conosce bene mi dice di tenermi fuori, chi mi conosce bene mi dice di aspettare.

Io non mi conosco molto bene, in questo momento. Mi siedo per terra e guardo la nuova stanza che dovrei abitare. Ci sono giochi e sogni e tatuaggi e palcoscenici e impegno e responsabilità e coraggio, persino. Mi stupisco e mi rigiro le cose tra le mani come le vedessi per la prima volta.

Non ho più risposte, non ho domande da fare.

Faccio cose ed evito incontri. Non sia mai qualcuna dovesse interessarmi. Per questo non sono pronta affatto. Posso provare a mantenere in piedi una azienda che non mi appartiene e credere di riuscire a far qualcosa. Non mi si chieda di condividere la mia vita con qualcuno, non credo di esserne capace.

“Sei cresciuta Penelope”, mi dice un’amica rientrata da una mia vita precedente. E ridiamo delle nostre paure.

La primavera arriverà, questo inverno non è infinito.

Report

Soundtrack:

Settimana infernale.

Stasera sufficientemente ubriaca mista a stanchezza cosmica.

Locale etero con karaoke per compleanno collega. Buffo il mondo degli etero. Secondo me si divertono di più di noi LGBTQ.  O almeno con più leggerezza. Nello stare iniseme è contemplato il divertirsi e basta, senza stare, contemporaneamente, a cercare la scopata serale.

Almeno mi pare, ma sono sufficvientemente ubriaca mista a stanchezza.

Me fa mal’ ‘a cap’.

In questa settimana densissima, mi pare di aver capito un paio di cosette fondamentali.

Sono capace a far marchette e porcate di ogni tipo.

Ho tendenze manipolatorie di bassa lega che, però, dato che sono contornata da gente che sta peggi’ ‘e me, funzionano pure.

So reggere i secondi fini, so espormi per il cazzo del comodo mio, so muovermi come una serpe per ottenere quello che voglio.

Non è granché, ma torna utile.

Almeno nel lavoro, mi pare.

Sono persino convincente. Pensa te.

Ed è tremendamente stancante.

Mio caro amicodelmuretto, l’ho pure scritto il post che mi hai chiesto, ma lo pubblicherò più in là, giusto così, per non far vedere che sono romai una prostituta della penna. Comunque ti ringrazio della fiducia. Mi lusinga.

Mio caro ciccio, se ti azzardi a sparire, ti seguo in Siberia.

Mia cara Penelope, fatti chiamare vodafone.

Ed è tutto così falso.

Difficile da spiegare. Sono due giorni che tengo un comizio all’ora al lavoro. C’è un obiettivo, un progetto e non cerdevo di essere non dico in grado, che mi pare troppo, ma disposta ad occuparmene.

Thanxgod la dialettica non mo manca.

Ma è difficile spiegare quanto questo mi allontani dalla realtà.

Poi ci sono un altro paio di faccenduole che sto mettendo in piedi.

Non mi pare vero, pure multitask, mi ritrovo. Io, la regina dell’accidia.

Ops, non mi sono struccata. Sai domani che mi ritrovo in faccia. E mi si impigliano i naselli degli occhiali tra i capelli pieni di spuma. Un’immagine di quelle che ti fanno volare la fica dalla finestra.

Non vedo più un cazzo a nessuna distanza. E mi lacrimano gli occhi. Vai dall’oculista invece di rompere il cazzo.

Potrei andare avanti a scrivere all’inifinito, stanotte. Quindi stacco.

Dio che nausea.

Tre bud e le vomiterei con gli interessi.

 

Fuochi, spettacoli e bugie

torciaumana

Soundtrack: The Prodigy Firestarter

– Messaggio del tutto personale per R* e Alice: mi si è sfrantacagnato il cell e i vs numeri di telefono non ce li ho segnati da nessuna parte. Volevo chiamare stasera, ma proprio non so come fare, non posso mandare neanche sms, mi si può solo chiamare – e, inoltre – to whom it may concern sapeva esattamente come avrei reagito e cosa avrei fatto, step by step. Il che me la dice lunga. D’altra parte, non è un tipo da gesti impulsivi e immotivati. And now shut up, Penelope –

Ma quanta gente busciarda esiste al mondo?

Non sono contraria alle bugie in sé per sé. Vivo di improbabili giustificazioni per ogni mio ritardo cronico, per le buche che elargisco a profusione e per le mie dimenticanze.

Non parlo di quello.

Parlo delle bugie che si usano per coprire la miserabilità d’animo.

Quelle parole e quei modi ventosi e sabbiosi che dovrebbero servire a far credere alla “platea” umana che si è fatti di altra pasta che non sia quella fecale.

Non lo capisco tanto. Non capisco neanche come si possa credere di riuscire davvero ad essere convincenti.

magari si può esserlo, quando la patologia avanza a tali livelli da non essere neanche più curabile. Comunque, sopravviveremo.

Il micro-week end a sansiti è stato denso. Le prove per lo spettacolo hanno inizio e il delirio avanza indisturbato. Rifare una cosa messa in piedi vent’anni fa è, in realtà, complicatissimo. Perché è difficile uscire dall’innamoramento di scene e vissuti legati ad un periodo solare e vitale.

Ma certe cose sono talmente improponibili che c’è da riderne fino a morirne.

La nuova truppa ha, ovviamente, una età media di 50 anni. Peraltro un lesbicaio. Le mie ex si sono consorziate e inciuciano all time long. Volano epiteti, soprannomi, insulti velati ma anche no. In un tripudio di dissensi e di resistenze al movimento fisico.

E saremo in un teatro da 1500 posti. Marò che figur’ ‘e merd’.

Ma ce la faremo.

Mi si chiede di tornare a Napoli, non riesco a spiegare perché non voglio tornare. O meglio, non riesco a far capire il mio diniego. Non riesco a far capire che sarebbe comunque una sconfitta, per me, dentro. Preferisco patire e guerreggiare qui. E’ pur sempre altro da quello che ho già fatto e visto. Non del tutto, ad essere sincera. Ma è comunque altro. Non ho voglia di tornare dov’ero. Bah, non lo so spiegare.

Fuoco. Quello è nella mia testa, nel mal di testa che ho avuto stanotte, così forte non lo avevo da almeno vent’anni. Il fuoco è nelle mie reazioni costantemente bruciate e brucianti. Nel mio partire prima di pensare, nel mio accendermi per ogni cazzo di puttanata mi venga detta, nel mio rispondere a quello che mi ferisce. Nel mio farmi carico di cose che manco mi appartengono.

E sono così facile da accendere che a breve mi metteranno il sistema antibambino di sicurezza. Con un ddl, credo.

Non mi pare che il passare degli anni mi spenga. Affatto. Mi pare pure di peggiorare.

Non vorrei essere così. Vorrei avere quella calma interiore da buddhista conclamata. Quella lucidità che ti permette di pensare e non scattare, di osservare e non scalciare, di accogliere e non devastare.

Nella mia wish list dell’anima c’è uno sguardo sereno sulle cose del mondo. La distanza giusta, quella che ti permette di occuparti delle cose e delle persone senza esserne toccata, senza vulnerabili pezzi di pelle scoperti e reattivi.

La mia vecchia gatta ed io siamo diventate due pazze borbottanti. Uguali, proprio.

Buonanotte, gente varia, vado a nanna che ho dormito poco e male.

Un’ultima, piccola nota piacevole: mi accorgo che le persone che conosco hanno avuto, alla canzone del piccione di comunione e liberazione, reazioni indignate e disgustate. Io so che, se non avessero conosciuto personalmente almeno una lesbica nella vita, non ci avrebbero neanche fatto caso.

 

Piccole lesbiche crescono

Soundtrack:

Capitolo 1 – ricordi da ospizio

Ho iniziato a leggere verso i 4 anni e mezzo, tanto per sminuzzare le palle a mia sorella che faceva i compiti il pomeriggio. Intorno ai 6 ho letto il mio primo libro. “L’isola del tesoro”, regalo per sfangare il pomeriggio dopo l’operazione di adenoidectomia. Nella mia era le adenoidi erano ritenute licheni superflui che rendevano anche un po’ scemi, e i bambini esseri privi di sensibilità fisica e psichica operabili live e a mani nude. Come i vecchi, la prendo sempre troppo alla lontana. “Piccole donne” e “Piccole donne crescono” di Luise Mae Alcott sono stati la mia bibbia intorno agli otto anni. Anche “I ragazzi di Jo”. L’ultimo non me lo ricordo. Si ragionava stasera, con la R*, che se si aveva qualche dubbio, a ricordarsi quanto ci siamo potute innamorare di Jo, li abbiamo fugati tutti. Eravamo lesbiche da subito. Com’è che si chiamavano quelle tre miserelle sorelle? Amy e Beth me le ricordo. Una muore. Pure. Ma Jo era IL mito. I capelli corti. Ragazza fattiva e senza orpelli. Faceva giochi da maschio. Era ribelle  e molto handy. E che cazzo di fine le fanno fare? sposata ad un maestro inutile e privo di midollo. Un minollo. La rabbia che mi prese. Sarà stato un matrimonio di convenienza. Omosessuali tutti e due. Sicuramente.

Lesbica si nasce. E’ evidente.

Capitolo 2 – Lavorare stanca

Domani mi tocca andare allo sciopero generale dei metalmeccanici. Mi tocca proprio. Non mi posso esimere. Cazziatoni a go go perché non ho preparato gli striscioni. Accordi sottobanco per farmeli “imprestare” da chi li ha fatti. Al lavoro giriamo con i nasi da pagliaccio in faccia. E’ la nostra protesta. Veramente è la protesta degli specialisti ma noi solidarizziamo. Naturalmente la cosa è troppo sottile per essere compresa dalla nostra utenza minimalista. Ma a noi va bene così. Si mangia anche a dismisura. Qualsiasi cosa sia commestibile e ininterrottamente per tutta la giornata.

Il colesterolo ringrazia e anche il mio invidiabile, e prossimamente perso, fisichetto.

Capitolo 3 – Folgoranti considerazioni

Non riesco più a capire che impressione faccio alle persone con le quali interagisco. Non mi rendo conto. Non mi viene in mente. Non ne ho idea. Prima lo sapevo. O quantomeno immaginavo di saperlo. Suppongo di avere smesso di guardarmi con gli altrui occhi. Non mi è chiaro se sia una buona cosa. Potrebbe semplicemente essere un segno di psicosi avanzante. E’ un po’ spiazzante però. Prima avevo in mente cosa volevo sembrare e mi pareva di riuscirci perfettamente (niente commenti pliz). Ora non me ne fotte proprio di sembrare qualcosa e non so cosa pensare. Poi vedo le reazioni di taluni e mi stupisco come un’idiota. Il mio narciso è confuso e non poco. Mi capita financo di sentirmi sicura e determinata. Insisto con la teoria della possessione in alternativa a quella della schizofrenia o della doppia personalità. Non si spiega altrimenti. Certo, la superbia progredisce e la tracotanza pure. Mi sono anche convinta di essere capace di ottenere quello che decido di ottenere. Delirio di onnipotenza. Bisognerà trovare un equilibrio.

Farmacologico, appunto.

Capitolo 4 – Amici

Strano accorgersi che si possano avere difficoltà di comunicazione con le persone con le quali si è più abituati a comunicare. Il fatto è che di solito non dico quello che sento e, soprattutto, se qualcosa mi ferisce o mi sgomenta, lo impacchetto e lo chiudo da qualche parte. Naturalmente, una volta esaurito lo spazio per i pacchetti conservati, ho esplosioni immotivate e ingiustificabili che tendono alla devastazione del territorio. Ultimamente sono, invece, piuttosto incontinente. Questo mi alleggerisce. Ma è anche faticoso. Ma anche no. Ho sempre pensato che dire quello che penso quando lo penso, possa allontanare le persone cui tengo. Ferire in modo irrimediabile. Uccidere magari. Quindi meglio lasciar perdere. Scopro ora che tirar fuori una cosa alla volta è gestibile, non fa troppo male, può essere discusso e ridimensionato, anche confutato per intero. E non muore nessuno. Nessuno si fa male. Non si smette di voler bene (terrore primordiale). E’ anche una responsabilità, se dici puttanate, le hai dette; se dici cose forti, le hai dette; se dici “questo mi ha ferito”, hai mostrato la tua pelle. Come se gli amici non sapessero già quanto sei fragile e dove fa male. Cretina che sono. Ti voglio bene, adolescenzialmente lo metto per iscritto, e ti voglio bene perché mi stai bene così e basta. Ci si dovrà riassestare un po’.

Pampers?

Capitolo 5 – Crisi di mezza età

Ziasaimon ed io siamo nella crisi dei 46. La R* è nella crisi dei 38. Mia sorella è nella crisi dei 50. Il fab è nella crisi dei 49. M* è nella crisi dei 35.

MA QUANDO CAZZO INIZIA ‘STA CRISI E QUANTO CAZZO DURA?

Week end

Soundtrack:

Sono in colombaia. Sul portatile del Ciccio in partenza. Lui, non io. Gli sto consumando le ore in pennetta in perfetto stile scrocco selvaggio.

Ho da premettere che in questo periodo cammino per il mondo come se ce l’avessi solo io.

Saranno i neuroni che vanno e vengono e si perdono i contatti con la realtà circostante.

Un giorno di questo una delle mamme in sala d’attesa mi tirerà i coppetielli (=coppette di carta, N.d.T.) stufa delle mie passerelle da nana impazzita.

Machissenefotte.

Poi.

Week end a Napule con Alice e Da Queen, direttamente importate dalla capitale, e R&B.

Non saprei da quale parte cominciare, considerando che ancora non è finita.

Potremmo parlare del viaggio di andata assolutamente infinito. Credo che arrivare a Bologna a piedi avrebbe necessitato di un tempo di percorrenza minore.

D’altra parte colpa mia che sono tarda a partire.

Prima serata nell’assoluto lesbicaio del Mutiny, ad ascoltare amiche sonanti.

Un lesbicaio total lipstick.

It’s a long way…

La Alice sta cercando di fare di me una lipstick battezzata e cresimata ma, in base a quello che ho visto venerdì, le ci vorranno le prossime tre vite. Consecutive.

Ne ho viste cose che voi umani non potete immaginarvi…

Lipstick in mutande che rimproveravano lipstick in reggiseno, camion d’assalto preda di istinti irrefrenabili dare vita a spettacoli che a pagarli c’è solo mastercard, junior lipstick che hanno davvero interiorizzato il concetto del “cellhosoloio”, vintage camion crollare sotto il peso delle 5 ore di guida e della sveglia alle sei e del “si è fatta una certa” che corrispondeva alle tre di notte.

Ci è voluto parecchio ma finalmente qualcuno ha afferrato il concetto che HO UN’ETA’. Cazzo. Non mi regge vabbè? Un po’ di rispetto per i miei tentativi e per la mia buona volontà. E anche per la mia strabiliante genetica.

Sabato vorticoso.

Passaggio dal mio parrucchiere, nonché pater di una delle signorinelle del GF8. Momento gossip assoluto. Sex and the city pure, sembravamo. Uscite dal peluquero come fossimo sulla fifth avenue. Taglio pulcinesco per me, taglio radicale per Da Queen e “stiro e ammiro” per Alice.

Ma non eravamo sulla fifth. Ma va bene uguale, ‘o munn’ è cumm’ t’ho fai ‘n capa (=il mondo è come te lo fai in testa, N.d.T.)

Ho chiesto e ottenuto dalle mie amichette il giuramento che, il giorno che mi vedranno soccombere sotto l’ormone impazzito e dare spettacolo di me al di sotto della linea minima di dignità, mi infileranno un tovagliolo in bocca per ridurmi all’inattività.

Piccole riflessioni da tavolo da pranzo, queste, accompagnate dalla consapevolezza che io, proprio, il ristorante vista mare a Marechiaro, non me lo posso permettere. La prossima volta propenderei per fritturine cash and carry.

Passeggiatine e puntatine ad effetto per ammirare panorami e gustare sapori. E’ pur sempre una soddisfazione e c’è da dire che questa città non delude mai, sotto quest’aspetto. e me ne sono sentita fiera. Non capita spesso. L’energia ti arriva dal basso e ti schiaffeggia. Devi restare teso e contratto per sostenerla. Rigenerazione, se dura poco. Se non la vivi quotidiana, questa è la terra delle meraviglie.

Incontro con vecchie amiche per rimettere in piedi un progetto di 22 anni fa. La bellezza del poter riprendere qualcosa tra le mani e farlo diventare nuovo e vivo. Impagabile.

Cena alla colombaia in stile “visita di Sant’Elisabetta”. Sono andate via (Alice&Da Queen, R&B e Ziasaimon) solo dopo avermi visto perdere i sensi e collassare. Erano le tre passate.

Oggi ho cercato di recuperare con un po’ di calma e un bagno rilassante nelle chiacchiere col Ciccio Favoloso. Con i suoi occhi tristi che non si possono guardare a lungo e senza argomenti per controbattere. Solo ascolto. E lo scrivo apposta, sia chiaro, dato che questo blog è spettacolare.

Stasera reunion che più reunion non si può. Prima o poi scriverò dei tempi che non scorrono, di quelli che scorrono troppo in fretta e di quelli che scorrono da un’altra parte.

Stare sola nella colombaia mi sembra quasi ingiusto.

Questa casa, vuota, è solo un posto per dormire. Non mi piace.

Non ho visto il pater. Sarà per la prossima volta.

Mi sento bene. In qualche modo libera. E leggera.

Mi sembra persino di essere capace di vedere i miei contorni e i miei confini. Spero sia vero.

Ho due cose importanti da fare.

Adesso so che le farò.

 

Prossimamente: L word Sesta Serie (the final)

 

 

 

Massimo P. (aggiornato)

Soundtrack:

Per una serie di coincidenze, mi decido a cercare di parlare di lui. E’  come se questo post stia aspettando di essere scritto. Ma non mi sento mai nel mood adatto, non riesco a decidere quale colonna sonora è migliore, mi è difficile selezionare fatti salienti e importanti.

Quasi 25 anni di vita insieme. Dai miei 12 ai miei 35. Mi pare. Non riesco a ricordare l’anno nel quale è morto.

Ma ricordo quello nel quale l’ho conosciuto.

1975. Inizio seconda media. Finalmente fuori casa, almeno il pomeriggio. Con i miei calzettoni di cotone bianchi con i buchi e le maglie di lana rasa color ruggine o blu o rosse (momento di vita, proprio).

In mezzo ad un gruppo di compagne di classe scafatissime, fichissime e bellissime, conosco lui.

Una pagnotta al latte.

Rotondetto e liscio. Bianco come un lenzuolo e delicato di modi. Mi sembrava.

Delicato di modi non è stato mai, in realtà. Feroce e lepido nei giudizi. Non è mai stato neanche diretto. A volte, forse, ma mai su questioni sostanziali.

E’ stato il mio primo fidanzato e il mio primo bacio con la lingua. Ah. Mi viene da ridere solo a ricordare. Piccoli gay crescono e si fidanzano pure tra di loro.

Ma erano gli anni settanta, ci si sottoponeva ad improbe fatiche per far finta di essere etero.

Da allora non ci siamo persi che per pochi giorni.

Avevamo, noi chiattilli di Chiaia, la “comitiva”. La comitiva ha avuto uno zoccolo duro che non si è abbandonato fino alla sua morte. Ma anche oltre.

Il favoloso, ziasaimon e io siamo ancora qui, tant’è.

Giro intorno e non entro dentro la sua storia. E’ più difficile di quanto credessi.

La sera del 15 aprile del 1997 ero a casa. Incazzata come un varano e disperata come un passerotto, avevo appena chiuso una storia di quattro anni nel più orrendo dei modi possibili.

Chiamò il suo compagno urlando e piangendo. Massimo stava male.

Di solito non mi spavento, tendo a minimizzare. Mi terrorizzai. Non volevo trovarlo già morto.

Arrivai a casa sua in moto. Non ricordo le scale infinite che portavano a casa sua. Ricordo di essere entrata, di averlo trovato sul letto, di averlo chiamato, di averlo visto girarsi verso di me e di aver capito.

Il braccio a tenere la testa, sangue da un orecchio e nistagmo: emorragia cerebrale.

C’era da restare presenti a se stesse. C’era da chiamare parenti e amici. C’era da organizzare modi di incontrarsi e da sapere dove lo stavano portando.

In ambulanza c’era il suo compagno, sulla vespa il favoloso ed io ad inseguirlo senza parlare.

Poi il delirio di telefonate, appuntamenti, trasferimenti, parole senza senso, terrore e incazzatura.

Inutile tentativo di operarlo al secondo ospedale. Respiratore. Terapia intensiva.

Tre giorni in ospedale. Il mio ricordo è di un centinaio di persone che venivano per lui. Anche da fuori. Ma non so, forse è la mia tendenza a romanzare.

Ma lui aveva la capacità di tenere rapporti per decadi con persone vicine e lontane, capace di rimanere legato a gente vista 4 volte in tutto. Aveva una rete gigantesca ed era il perno assoluto.

Ci sono persone che non ho mai più visto dopo la sua morte. Persone che frequentavo perché lui ci sapeva tenere insieme.

E questa era una sua caratteristica fondamentale.

Anche la capacità di esserci sempre e per chiunque. Al suo meglio.

Al suo peggio ci sottoponeva a torture indicibili come la frequentazione di personaggi discutibili e orrendi dei quali si innamorava perdutamente e per anni. Pervicace e ostinato nei suoi amori impossibili.

Che in genere mi scopavo io. Se non erano proprio ributtanti. Ma questa è un’altra storia. O forse no.

Io non sono in grado di spiegare la natura del nostro essere amici, neanche a distanza di dieci anni. Una qualche forma di specularità. Perché con lui non si poteva essere amici e basta. Ci dovevano essere coimplicazioni e incroci e vissuti comuni fino al patologico assoluto.

Ci siamo protetti così. Tutti. E noi siamo ancora vivi.

Non si possono spiegare 20 anni crescendo insieme in tutto e per tutto. Nel bene e nel male. Nell’affetto incondizionato, nell’invidia, nel piacere, nel dolore, nel delirio, nella comunanza.

Abbiamo visto morire un amico insieme, abbiamo fatto uso indiscriminato di droghe per anni e Dio, come gli piaceva stare strafatto. Abbiamo conosciuto persone e posti. Abbiamo litigato allo stremo, ci siamo traditi e insultati, i natali insieme, le vacanze insieme. Lui pigro come un gatto, strafottente spesso ma presente sempre. Abbiamo fatto incidenti per colpa della sua distrazione cronica e per la sua mania di poter guidare anche dopo una serata di canne serrate e alcool indiscriminato. Abbiamo giocato a soldi, fatto sedute spiritiche, sentito musica, cantato Anna Oxa un milione di volte, usato casa sua in montagna per tutti gli inverni che Dio ha mandato in terra per vent’anni. Svuotato il frigorifero di casa sua mille volte. Fame chimica. Mi ha portato a frequentare improbabili corsi di pranoterapia, incontri con sciamane buriate, a dormire in campi rom, ha coniato soprannomi ferocissimi per chiunque che resistono a dieci anni di distanza e varie centinaia di altre cose che non riesco a ricordare a comando.

Non concepiva una serata senza strafarsi, mangiare, ridere e fumare 200 sigarette.

Per me era la certezza assoluta e il Referente Unico, Malgrado i suoi “ti voglio bene ma non ti stimo”, malgrado il suo fastidio per il mio modo di scrivere e di dipendere da lui.

Emotivo come un bambino di tre anni fino all’ultimo giorno.

E io conosco solo un terzo del suo dentro. A molte cose non ho mai avuto accesso. Non si fidava abbastanza.

Il terzo giorno di coma, si è scelto di staccare le macchine. La famiglia e noi tutti. Hanno sempre ritenuto, i suoi genitori, di doversi consultare con noi.

Pensavo mi sarebbe esploso il cuore. Ma non è esploso.

Pensavo non sarei sopravvissuta. Sono sopravvissuta.

Pensavo non sarei guarita da questo dolore, da questo abbandono, da questo tradimento che è il peggiore che un amico ti possa fare. Non sono guarita, no. Ma non sono più incazzata.

Ho realizzato poi che, tempo addietro, lui e il favoloso mi avevano tradito con molta leggerezza e senza consapevolezza.

Meglio non averlo saputo allora, li avrei persi entrambi. 

 

P.S. Io so che questo post non è abbastanza. So che ci sarebbe molto altro da dire. Credo di essere diventata come il pater e cancello per poter continuare a camminare senza troppi pesi. Sono certa che molti di quelli che lo conoscono hanno da raccontare un Massimo diverso e personale. Ebbene, FATELO. Più in là ne scriverò di nuovo, ma in un altro modo.

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Questo è quello che ho scritto alla luce del sole. I fatti, le vicende, le memorie, Le parole che, tutto sommato, ti consentono di restarci dietro e non dire, non sentire, non lasciare uscire. Ma di notte viene fuori altro. Forse quello che c’è dietro. Almeno per me.

Il nostro era un rapporto fantasiosamente squilibrato. A distanza di anni posso dire cosa mi legava a lui, non so dire cosa legava lui a me. Per me era amico, vate, padre, madre, fratello, specchio. Non mi sono mai sentita alla sua altezza. Quale che fosse, la sua altezza. Troppo grossier e troppo ignorante, troppo testa di cazzo, troppo irresponsabile e disattenta. Non credo fosse davvero così, non lo credo ora, ma allora ci vivevo, di questo.

Ce l’ho ancora dentro, anche se di meno, ora. Ho la sua voce che mi “valuta”, ma senza la tagliente ferocia che gli apparteneva. Con più dolcezza, la dolcezza che puoi assegnare a chi non è più con te.

Ma mi riempiva la vita. In ogni poro e crepa. Era il materasso su cui cadere e la coperta per coprirsi, ogni giorno, per vent’anni. Era il mio punto caldo e la mia corda annodata per tirarmi fuori dalla merda.

In fondo non mi sono mai chiesta da parte mia cosa arrivasse a lui. Sapevo che non si fidava abbastanza. Non sono mai stata una persona riservata e se fosse vivo considererebbe questo blog un altro dei miei orridi modi di raccontare i cazzi miei e altrui worldwide. Un buon motivo per continuare a non raccontarmi le cose sue più vere.

Mi cantava delle canzoni offensivissime, se ci penso. Ma mi ha sempre preso per quello che sono. Anche quando gli ho fatto male, anche quando mi scopavo i suoi amori. E non so cosa dicesse di me ad altri, neanche lo voglio sapere.

Mi ha nutrito per anni, ha condiviso con me qualsiasi cosa (fidanzati/e improponibili, amiche/i impresentabili, drammi reali o presunti, dolori familiari, casini lavorativi e umani). La qualunque della solidarietà.

Sempre e comunque.

E di questo ero certa come del mio nome e cognome.

Non ricordo momenti senza di lui. Non ricordo cambiamenti senza di lui. Mai nel pratico, che la pigrizia se lo mangiava a morsi e non muoveva il culo manco a pagarlo.

Ricordo come teneva in mano la sigaretta e come rideva, il pizzetto da sempre, i capelli che scomparivano in fretta. I peli sul petto. Le espressioni dolci da orsetto lavatore e quelle dure con gli occhi in fiamme. Ricordo anche i suoi mal di testa devastanti. Aveva un angioma congenito, dissero che non era da tutti superare l’adolescenza con un tale groviglio di vene nel cervello. Sarà stato l’uso smodato di stupefacenti a farlo resistere, chissà.

Perché dopo l’orrore dell’adolescenza (spudoratamente ricchione sin da piccolo, ha attraversato l’inferno del machismo post-puberale uscendone vivo),   Massimo la vita se l’è goduta tutta. Malgrado gli amori non corrisposti e le pippe mentali che lo avvolgevano da capo a piedi. Non conosco nessuno che lo odiasse, conosco persone che lo cercavano e che, in capo a qualche settimana, restavano avviluppate da lui, dai suoi modi, dalla sua presenza.

Mi ha difeso sempre, che io ricordi, ha sempre scelto me, se scelta si doveva fare (parlo di faccende che riguardano me e la mia vita, naturalmente, niente di trascendentale o eccezzionale), mi ha lasciato condividere gran parte del suo quotidiano, era pronto a partecipare e condividere qualunque cazzata mi/ci passasse per la testa. Di fatto era lì per me.

L’ho sognato un paio d’anni dopo la sua morte e poi mai più. Parlavamo e parlavamo senza smettere di raccontarci tutto quello che era successo. Tutto, che a lui non ho mai censurato niente, nemmeno le mie miserie.

Ho talmente tanto di Massimo dentro, che non ho spazio per tirarlo fuori.

Perchè lui è stato con me, per 22 anni, in tutto quello che ho fatto.

Abituarmi alla sua assenza è stato faticoso e doloroso.

A volte mi manca ancora.

e anche questo non è abbastanza

Post di uso interno (Tampax?)

vesuvio

Soundtrack: Maria Pia De Vito‘a rumba de’ scugnizz’ (la carico domani, ora sonno)

Ci ho messo tutta la giornata ma l’ho finito. Il libro è “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson. Leggetevelo. 676 pagine che lasciano orfani.

Questo bastardo del mio computer rifiuta di connettersi con il mio cell. Sia infrarossi che bluetooth e non posso scaricare la foto del panorama di Napoli che ho fatto dalla finestrona della colombaia. 

Bene, detto questo, passiamo al resto.

Il treno del ritorno è, di solito, un treno malinconico e nevrotico di suo. L’Intercity ha un che di triste, perché è, in fondo, il treno di quelli che tornano dove devono tornare senza gloria e senza gioia. Se a questo aggiungi l’effetto estetico che è veramente terrificante, il risultato è un’immagine che ricorda in modo impressionante l’emigrazione dei contadini del Bangladesh verso il Nepal. E lo dico volendo offendendere i vagoni di Trenitalia e non le persone che lo affollano e che, comunque, se si lavassero di più, male non gli farebbe.

Mi secca quando voi lettori del blog avete aspettative su di me. Mi sento manipolata e mi scatta la dispettosità intrinseca senza contare l’ansia da prestazione.

Un secondo compagnello di blog – oltre la già citata Vita -: Nuvolepensierose, mi ha sgamato su feisbuk.

“La copertura è saltata”.

E non basterà rimettere gli occhialetti neri e impomatare i capelli.

Che poi non so perché ho scelto di fare di questo blog un blog anonimo. E’ terribilmente discordante con la mia patologia narcisistica.

In generale mi pongo il problema giusto rispetto ai genitori dei miei pazienti.

Il favoloso dice che sono diventata noiosa nei post.

Sono tornata a G.C. per salutare il favoloso in partenza.

Starà via sei mesi che è un tempo ragguardevole. In un periodo che non è l’arrivo dell’inverno e il letargo che ne consegue e la mancanza di dinamismo e attività tipici. Tornerà a giugno. Per niente facile.

E guardarsi intorno con un occhio affondato nella lana grezza e stropicciata dei suoi maglioni e l’altro che cerca di farsi strada tra le dita delle sue manone che, in qualche modo, ti torturano un po’, è bello e fa bene al dentro. Vederlo iperattivo e sorridente (effetto del cortisone che sta prendendo), mi si trasforma in energia.

Io non so dire quando sia successo davvero che lui sia diventato così importante per me. Sì certo siamo stati insieme, sì, tutte le cose delle quali ho già parlato. Ma da un certo punto in poi è successo qualche cosa di altro. E io non so dire cosa.

Di fatto resto lì e non vado a trovare mio padre. Di fatto mi addormento sul divano il pomeriggio come una vecchia o come una bimba, non saprei. Di fatto quando lo sento di mattina entrare in salotto e mettersi al computer silenziosamente (non poi tanto, in verità), mi riaddormento serena.

So che lui vorrebbe che mi svegliassi prima, per chiacchierare, per dire strunzate, per mettere in atto le nostre eterne pantomime ossessive e identiche sempre. Non mi sottraggo mai. Non potrei. Non ne ho intenzione.

Una parte di me si chiede, spesso, cosa mai potrei fare io per lui per restituire quello che ricevo. Su ogni piano, ad ogni livello. Sono sempre in debito, ne sono consapevole.

Ma per lo più me ne fotto.

Qualche volta cedo e mi presto a qualcosa che non incontra del tutto la mia approvazione. Ma se serve va bene così. Ci sarà modo e tempo per rimettere le cose al loro posto.

L’amore che ho per quest’uomo io non me lo riconosco per nessun altro al mondo. Sia chiaro. Non ho mai permesso a nessuno di essere così profondamente nelle mie vene.

Il ciccio favoloso 2 dice che siamo due facce della stessa medaglia. Può darsi. Il ciccio favoloso 2 ha un accesso speciale, favorito certo dalla presenza del favoloso medesimo, questo è fuor di dubbio, ma io non ho mai rispettato il cane per il padrone. Il ciccio favoloso 2 ha quella meravigliosa ostinazione da catuotero (=intraducibile, N.d.T.) calabrese che me lo ha fatto ritrovare tra pancreas e polmoni senza neanche me ne accorgessi. E mi vien da ridere.

Molte persone associano me e il favoloso. A parte le considerazioni del fab2, che sono sensate e argomentate, per gli altri è un fottutissimo stereotipo. Non siamo simili. Affatto.

Semplicemente abbiamo “maturato” le stesse strategie di sopravvivenza. E  le abbiamo in comune con molta altra gente.

Sabato sera siamo stati a cena, come capita spesso, tra amici trentennali. Letteralmente. Persone che conosco da quando avevo 11 anni.

L’amicodelmuretto parte per il Sudan. Va a fare il medico sfrontierato. Ne sono fiera.

Le cene dalla ziasaimon sono rassicuranti nel loro svolgersi immutabile e solido. Come il il natale in famiglia (se ne hai una e ci si vuole almeno un po’  di bene). E si mangia meravigliosamente bene.

Ma ieri sera era diverso. C’era qualcosa di incredibilmente e inaspettatamente diverso e di non facile da spiegare.

Un accenno di movimento, di dinamica, di grecale. Anni che non lo sentivo.

Qualcosa cambia e cambierà, staremo a vedere cosa.

Tutti loro sono, comunque, pezzi della mia vita. Dopo 35 anni non potrebbe essere altrimenti.

Non importa quanto siamo distanti nelle scelte e/o nei desideri. Non importa.

In ognuno di loro io posso leggere la mia storia e loro possono fare lo stesso con me, gli ideali di vita raggiunti o abbandonati, i sogni realizzati o ignorati, le deviazioni inaspettate, gli stop eterni e anche le paure e i pericoli scampati.

Malgrado nessuno somigli a nessuno. Thanxgod.

Basta.

 

Alla faccia della leggerezza

piuma

Soundtrack: S-Tone Inc. – Some Kind Of Blues

Un paio di considerazioni prima di andare a dormire, che è tardi e che mi devo alzare prima dell’alba ed ho persino sonno che è quanto dire.

Ci sono persone che si lasciano divorare dall’invidia. E non è questo il punto, sull’invidia ho poco da dire, it happens e, oltretutto, a volte è pure utile. Resto esterefatta quando l’invidia diventa la persona, quando si trasforma da aggettivo a soggetto attivo. Quando questo succede, la persona è capace di odio vero, profondo, distruttivo. Odio che ti fa desiderare, davvero e non tanto per dire, di vedere qualcuno star male o soffrire o morire.

Se ci penso bene, sono persone fisicamente riconoscibili nella loro forma verde/giallognola e asciutta fino all’aridità.

Ci sono persone che hanno in testa solo obiettivi e traguardi. E anche su questo, di per sé, non ci sarebbero questioni da sollevare. E’ un buon modo per costruire qualcosa, un buon modo per arrivare da qualche parte. Mentire, nascondere, omettere, manipolare e fingere per arrivare a quegli obiettivi e quei traguardi, mi fa tremare le vene dei polsi (che espressione meravigliosa).

Queste persone si riconoscono con maggiore difficoltà, sono brave a dissimulare e brave a cogliere i punti deboli delle persone nemiche o di quelle che è meglio avere come amiche.

Non mi piacciono (mava?), mi fanno un po’ paura. Ho sempre la sensazione di non sapermene difendere a sufficienza. Perché quello che non capisco, lo vedo solo all’ultimo momento e può far male.

Ma ch’ ‘rè? na lezioncina sulle aberrazioni umane? Forse.

Poi ci sono persone che prendono la vita come fosse una mulattiera delle Alpi Carnie. Passano su sconnessioni e voragini sempre con lo stesso passo e lo stesso sguardo negli occhi traparenti.

Si fermano di tanto in tanto a guardare il panorama e scacciando le domande come fossero mosche cavalline.

E ci sono anche persone che sanno esattamente come sono e chi sono, ma non vogliono far dispiacere nessuno e fingono di essere quello che altri hanno deciso per loro.

Io a queste persone voglio bene. Molto bene.

Alle mule che conosco vorrei alleggerire il basto e lisciare il pelo. Vorrei si sedessero sul muretto a secco della mulattiera e si domandassero cosa mai le ha portate lì e dove, in realtà, vorrebbero essere. Quando ci provo e le vedo piangere, vorrei secernere miele e manna. Ma non si può. Non lo so fare, più che altro. Credo nel potere della parola e insisto a lacerare veli nella ferma convinzione che sia utile. Magari, invece, faccio solo male. Maledetto delirio di onnipotenza. Ma il mio è un gesto d’amore, per quanto orribile possa sembrare: una ferita se è chiusa male e fa infezione la devi riaprire. E pulire la carne viva. Mah. Convinzioni del cazzo.

E per quelli che si sforzano di essere quello che non sono, mi sento profondamente responsabile. Io che so cosa significa non essere uguale, io che so cosa significa crescere in un altrove che non è di tutti, io che so quanto costa costruirsi senza l’aiuto e l’appoggio delle certezze del “comune” e dello “standard”, non avrei dovuto permettere che succedesse. Avrei dovuto fare di più e combattere di più, prendermi il rischio e provarci. Testa di cazzo, come al solito un lavoro a metà, iniziato in ritardo e finito troppo presto.

Infine, concluderei con un paio di domande epocali sulla mia persona. Pare che io ispiri istinto protettivo. Perché mai. Non lo capisco e non me lo spiego. So di avere spesso bisogno di aiuto, che siano questioni pratiche o emotive, mi manca sempre una lira per apparare (=raggiungere, N.d.T.) 100 lire e finisco per annaspare in giro in cerca di chi mi aiuterà per rimettermi in piedi. Non so sei sia una cosa della quale mi dovrei vergognare, ma comunque sono così e non mi sembra particolarmente orrendo. Mi pare ci sia di peggio.

Ma proteggermi da cosa? Non sono buona, non sono imprudente, non sono avventata. Al massimo sono un po’ cretina, a volte. Immagino capiti a tutti.

Magari la penso così perché mi si protegge talmente tanto bene che manco mi accorgo dei rischi che corro.

 

 

La qualunque

toro

Soundtrack: The Rurals – Tomorrow’s another day

Alla faccia della pausa.

Donna di conseguenza e d’onore, io.

Sono in subbuglio.

Il fab mi ha chiesto di scrivere qualcosa che non sono sicura di essere in grado di scrivere. Con lui ho parlato molto del blog. Strano argomento.

Che, come dice Garcia Marquez, la sua anima è ancora negli Stati Uniti. Quando torna?

Vado sulla neve con delle coppie. Merda.

Sciare dopo 25 anni. Mah.

S.P.M. che non significa sue proprie mani.

Sempre il fab ha detto che se fossi in coppia, non farei le decine di cose che sto facendo. Che culo.

Ma non sono sicura di essere in movimento dinamico.

Mi guardo intorno ed il panorama è desolante.

Almeno quello che si vede dal mio balcone al quinto piano.

Gennaio e febbraio senza stipendio. Regalo di natale dell’emo kreutzer-jacob, bel modo di cominciare.

L’oroscopo del toro per il 2009 è ‘na merda.

La gatta piagnucchia.

In questi giorni mi farò il tatuaggio.

Che palle, niente di interessante.

Le Tre Grazie resuscitano la mia moto.

honda-cm400t

Soundtrack: Bruce Springsteen – Born to run (che ho appena scoperto di non avre, cazzo, ma è tardi, ci penso domani)

Da non credere. Non si può credere. Non è dato credere. Incredibile.

R*, Alice e Da Queen mi hanno, oggi alle sei e mezza, consegnato un fogliettino per il ritiro della mia moto da due anni in coma dal meccanico, come regalo di Natale.

Sono orrenda nel ringraziare. Quando una cosa fa piacere, mi fa piacere, mi fa felice, qualsiasi formula di ringraziamento mi pare generica e standardizzata. Le parole non contano un cazzo. Forse i gesti, ma non abbastanza. Le Tre Grazie le abbraccio per molto meno.

E questo è moltissimo. Ci vorrebbero le braccia di Mister Fantastic. Ma anche questa non è la misura.

Mi sento una bimba viziata. Molto viziata.

Non ci posso credere.

Ho una polpa al posto dei polmoni. Mi è sparito il pancreas e il cardiomuscolo vagola rintronato.

Domani vado a prenderla se tutto va bene, sennò lunedì.

Miiiii.

Non ci salgo da due anni. State lontani dalla tangenziale est… Sarò anche senza assicurazione. Per ora la riporto solo sotto casa.

Mi mancano pezzi di attrezzatura e la giacca mi va due volte ormai. Ma i fondamentali ce li ho.

Non mi faccio capace.

L’ho già detto?

Poi torna pure il fab.

Io non so come possa accadere. Io non so come ho fatto a meritarmelo. E non è un attacco di autoqualcosa (o sì?), è proprio una domanda. Considerando che i miei ultimi anni non sono propriamente caratterizzati da generosità ed altruismo. Affatto.

Bimba viziata. Quello quell’è. E pure fortunata. Lo dico spesso. E’ bene che io me lo ricordi. Deve essere un bonus di default.

Omygod. Peccato faccia freddo. Ma in primavera voglio scorrazzare come una quattordicenne. E mi voglio comprare un casco decente, dovessi pagarlo a rate. E un pantalone da pioggia come quello di A*.

Posso smettere di invidiare tutti i motociclisti che vedo.

Che bello.

Che belle che siete, stronze di amiche del cazzo. Da due giorni a prendermi per il culo e a mandarmi per i campi. Stronze tutte e tre. Organizzate come soldatini. Ad ognuna un ruolo e tutte fichissime e rilassatissime e adeguatissime. Silenzi, telefonate, controtelefonate, richieste di informazioni casual. Il tutto facendo leva sui miei punti deboli. CESSE.

Come se ci volesse tutta ‘sta organizzazione per prendere per il culo una banana come me.

E mi avete fatto felice come una cogliona.

Lo sapete che mi secca. Emozioni così mi entrano dentro e non so più come farle uscire. E lo so che la sto facendo lunga, è che mi viene da commuovermi come quando vedo i film di Disney. Vaffanculo.

E se qualcuno mi mette gli occhi addosso, glieli cieco. Warning.

 

 

 

P.S. Argomento alter: “Adesso silenzio ” – disse la diva mentre accarezzava  il boa di struzzo appoggiato sulle spalle.

Noia

noia

Soundtrack: Me’Shell Ndegeocello Ft Herbie Hancock – Nocturnal Sunshine

Ho come la sensazione che codesto blog sia in perfetta sintonia con i miei stati emotivi.

Il che non è assolutamente normale, è ovvio.

Con l’adrenalina che avevo in corpo ieri, ho raggiunto il record delle visite. Con la uallera di oggi, un numero miserrimo.

Truman Show. Sospetto.

Oggi due palle come una casa.

Meno male che ci sono certi cicci piccoli che ti fanno arripigliare la giornata.

Alle volte mi sento un vampiro che succhia energia da loro e dalla loro rabbia. Più sono incazzati più mi diverto e mi carico.

Neanche questo mi pare tanto normale.

Le magie del mio lavoro.

Comunque mi sono annoiata a morte e scrivo noioso.

Mancano tutte le mie colleghe preferite. Persone dalle quali, ormai, dipende la mia motivazione lavorativa. Senza di loro che cazzo ci vado a fare a lavorare? diventa una cosa vera, una professione, un momento codificato e prevedibile. Routine.

Orrore.

Con loro presenti non lo è mai. C’è sempre qualcosa – un fatto, un racconto, un umore – che rende la giornata unica e sola. I caratteri si mescolano random e non sai mai quale sarà il mood della giornata, per chi o per cosa ci si dovrà attivare, chi verrà tormentata, chi sostenuta e chi cazziata.

Mi manca F** che tornerà d’estate. I suoi modi solari, la complicità e la leggerezza con la quale prende a culate l’esistenza.

Mi manca M**, presa in un vortice di doveri e cataclismi familiari dai quali, se potessi, la staccherei a colpi di machete.

Mi è mancata anche la SR**, la sua rigidità e la voglia che mi fa venire di romperle il cazzo in tutti i modi possibili.

Persino le pischelle che son delicate, dolci ed energetiche come meringhe.

Insomma, na palla. Come lavorare allo sportello delle poste.

Notavo che, invariabilmente, e nel luogo deputato alla massima serietà (ovvero la stanza della NPI), si finisce per parlar di sesso. SEMPRE.

Perché?

Lo facciamo poco? un desiderio di groupage latente?

Immagino sia perché il sesso, alla fine, è assolutamente trasversale. Ne possono parlare tutti indistintamente con la stessa , scarsissima,cognizione di causa.

Mette d’accordo tutti e nessuno mai si metterebbe davvero a parlare del modo in cui lo vive, il sesso, di come lo vuole, di come lo fa veramente. Tranne me forse? No, neanche io. Faccio la figa, però.

E’ lo strumento di conoscenza più potente che esista al mondo. Non è solo piacere procurato e procacciato. Se si incastra nel quotidiano come il pranzo da preparare o la tv da accendere, tanto vale cucirsela o ridursi consapevolmente alla cecità con il sostegno attivo di youporn.

E molte di noi lo fanno. Cucirsela, intendo. La cecità è per poche. Purtroppo.

Il sesso dovrebbe restare un’avventura permanente, la scoperta dell’America ogni volta e il gioco più divertente al mondo. Ma è praticamente impossibile, credo. Sarà per questo che si diventa scambisti o fetish o amanti del bondage o la qualunque del sesso fuori dal letto di casa: per risvegliare il sesso dal coma.

Ma questo non è argomento di mia competenza.

Mi chiedo perché la maggior parte della gente ne sappia così poco e si stupisca pressocché (ma si scrive così?) di tutto.

E perché la maggior parte delle donne sappia così poco di sé.

In fondo anche io.

Argomento bramato e sempre trattato con malizia (ohmygod che parola obsoleta) e ambiguità delirante. Qualsiasi uomo sogna sesso orale ad ogni ora del giorno e della notte, ma dare della pompinara a una donna è un insulto denigrante e divertente. Qualsiasi donna guarda il pacco degli uomini che ha di fronte, ma non sia mai detto si possa ammettere liberamente. Tanto per dirne un paio anche piuttosto banali.

Che stasera non ci ho la capa per dare un capo e una coda a quello che penso. E’ che il crollo della tensione mi ha atterrato in modo sorprendente.

E, comunque, la sensazione di mettere qualcuno in difficoltà non è mai piacevole.

Per un sacco di buoni motivi.

Umanamente parlando e considerando che nulla cambia e che nessuno è armato.

Sic transeat gloria mundi, direbbe il fab, sapendo quello che sta dicendo.

 

 

Penelope adolesce

domande1Soundtrack: No doubt It’s my life

Che dire?

Serata epica con Alice e Da Queen in versione ER – Emergency Room.

In fondo non è che ci sia molto da dire. Tranne rimarcare il fatto che, in fondo, sono un’adolescente dentro.

E pure le mie amiche, in verità.

Ma va bene anche così, è divertente. Per tutti.

Restano cose in sospeso, parole più che altro. Resta la difficoltà di scrivere stasera. Vorrei chiudere l’argomento un po’ per imbarazzo, un po’ per necessità.

E mi viene da ridere. E non so come cazzo faccio ad infilarmi in situazioni assolutamente irripetibili e vagamente ai confini della realtà.

E’ che sono sensibile al brillare dell’intelligenza ed alla delicatezza dei modi. Posso contenermi e controllarmi e farci caso il tanto che basta per scivolarci sopra. Di solito.

Insolitamente ci affogo dentro.

Però, pure tu, che cazzo di domande fai?

 

 

 

uh!?

Sono ubriacherrima.

Dieci anni almeno che non mi sentivo così.

Non ce la farò mai a scegliere una musica e/o immagine per questo post alcolico.

Fottetevi.

None se ne ha una idea.

Lotto conrto la necessità di vomitare. Perderò? Machissenefotte.

Dio come è diffcile scrivere in italiano.

CHe lingua assurda.

Dovevamo fare la cena di lavoro tutte colleghe ma si è scombinato.

Vigliacchi.

Dov’è la mia sigaretta?

Respira, Penelope, respira con la pancia.

Oddio dov’è il pijiama? e mi devo togliere le lentine. Perché so’ cecata.

Che cazzo scrivo a fare? perché quelle tre pazze della R**, della Alice e della Da Queen mi hanno detto che devo scrivere.

Eseguo.

Eseguo tutto stasera. Non se ne ha una idea.

Se non avessi lo stomaco in petto, esprimerei tutta la mia gioia.

De che?

Cazzi mia.

Ma mica parlo romano adesso? non sia mai.

Dopo tre anni qualcosa sarà pure entrato, però.

Non si legge tanto bene qui. C’è da concentrarsi per essere logiche e un minimo sensate.

Conato.

Un tempo la reggevo bene, la birra. Ce ne volevano da 8 a 12 per ridurmi così. Adesso ne bastano 3? Uggesù.

Le tre civette sul comò. Meno male che ci sono loro. Meno male che c’è Biancaneve, Meno male che non sono in grado di intendere e di volere.

Perché si risponde ad una domanda con un’altra domanda?

Sii ottimista Penè. Sii ottimista. Ma non sono mica Penelope io. Penelope è il mio gatto nero e con il mal di denti. Io mi chiamo in un altro modo. Farò mica errori di grammatica?

Aspè. Sospendo dieci minuti che ho delle importanti rivalutazioni da effettuare.

Staziono davanti al water in cerca di requie stomacali.

Odio vomitare.

Ma questi particolari ve li risparmio.

Sono scivoltata lunga lunga in camera mia.

I calzettoni mi hanno tradito.

Bastardi.

Ma si può.

Voi non potete capire. Non lo sapete mica che mentre io penso a qualcosa qualcun’altra la fa.

Che giornata faticosa.

Fortunata io.

Censura, censura, censura, censura.

Le tre civette vorrebbero io non censurassi e mi sputtanassi senza ritorno. Resisterò.

Ussignur, riscrivo le parole tre volte ciascuna che mi vengono dislessiche.

Ahahahahahaha.

Quanto cazzo è bella Biancaneve.

Fatemi compagnia finché mi arripiglio, please.

Che bella cosa sto blog, ma lo stomaco un po’ meno. Protesta. Come la CGIL. Domani sciopero, deo gratias.

Quanto cazzo mi piace Bancaneve. Non ne ha idea. Perché sono una banana.

Aspè, pausa. Mica facile arrivare al cesso.

Non bevo per non ridurmi così, di solito.

Sto malino anzichénnò. A dopo.

Back to Pilate’s feet

antartide

Soundtrack: The Brand New Heavies Surrender (peccato Biancaneve non parli inglese)

Difficile a dirsi. Farraginoso da digerire.

Comunque.

Cena da me con la Alice e Da Queen. Di tutto un po’.

In particolare, guardando dagherrotipi d’epoca, la Alice ha notato quella della mia primina (c’era un tempo nel quale i bambini sotto i sei anni venivano spediti in una classe preparatoria alla prima elementare, volendo, e per me lo si volle, si saltava poi direttamente in seconda previo esame).

In codesto dagherrotipo si può notare:

A – che sono vestita da David Crockett alla festa di carnevale;

B – che la scuola si chiamava “EcoLELLA”.

Detto questo, ho detto tutto.

 Mio padre torna. Come una peperonata con olio calabrese.

E resta. Aleggiando da fantasma quale è. E con un gran fracasso di catene.

Storia trita come il bolo di una mucca al pascolo.

Ma non ne esco, pare. Non perdono, pare. Non dimentico un nanosecondo di quelli che lo vedono presente.

Presente è una parola che non si accorda con “mio padre”. Ma neanche assente. Ci vorrebbe un neologismo tipo “malpresente”, “pesassente”. Qualcosa di adatto solo a lui.

Ascolto nipotazza dire che non sente di avere nulla in comune con lui e non posso che darle ragione. Non ho che risponderle.

Chi è?

Uno che ha imparato a perdere perché ha perso tutto. Tutto.

Infanzia, adolescenza, mogli, soldi, luoghi, posizione, riconoscimenti, case, affetti, amici. Qualsiasi cosa.

Anche le figlie. E questo forse non lo sa.

Cerco di far scorrere la sua vita davanti ai miei occhi, ma non trovo le giustificazioni e l’umanizzazione che cerco.

Ancora rabbia e rancore. Non dovrebbe essere così.

Non – dovrebbe – essere – così.

Dovrei poter vedere un uomo che ha fatto la sua vita. Che ha avuto un imprinting di quelli che ti si piantano in faccia come l’orma dello stivale di cuoio di un soldato tedesco. Che ha fatto quello che ha potuto, lottando con le sue paure, i suoi fantasmi, i suoi morti e la sua ansia di vita. E’ lui quello che ha imparato a giocare a tennis con la sinistra perché la spalla destra era lussata. Lui quello che ha iniziato a sciare a 50 anni. Lui che ha operato da chirurgo con un tendine mancante per 40 anni. Lui che ha seppellito due mogli. Lui ha fatto nascere centinaia di bambini anche alle 4 del mattino. Lui ha lottato per essere un buon medico. Lui e le lotte politiche da socialista vecchio stampo. Lui toglieva le fiocine infilate nei piedi dei pescatori incapaci sulla spiaggia di Positano.  Conosce il nome dei venti e me li ha insegnati. I nodi da marinaio che ho dimenticato. Mi ha messo davanti l’atlante anatomico per insegnarmi la differenza. Lui che ci faceva giocare con un feto umano di qualche settimana in formalina (una lunga e piuttosto inusuale storia, questa). Lui che mi ha prestato la BMW a 19 anni e fatto guidare il Boston Whaler a 12. Mi ha pagato 5 anni di analisi freudiana trisettimanale (chi rompe paga e i cocci sono suoi). Ha invitato me e le mie donne al cinema, in vacanza, a cena.

Rozzo e maleducato. Amato misteriosamente da ogni donna che ha conosciuto (non lo so quante, non lo voglio sapere). Diretto come un bambino selvaggio. Irascibile e aggressivo come un’orso bruno. Incapace di formalismi ma maniaco della formalità. Primogenito maschio ebreo. Inabile agli affetti mostrati e dimostrati. Digiuno di tutela. In coppia sempre, ma in famiglia mai.

Le sue fughe a far la guardia in ospedale a Natale e per ogni festa comune. Le urla e gli insulti ad ogni linea di febbre di una di noi. Difficile distinguere tra rispetto per le libertà dei singoli familiari e l’assoluta strafottenza dei cazzi altrui. Non regge l’alcol e gli parte un singhiozzo irrefrenabile e incredibilmente comico.

A volte ha gli occhi dolci di un cucciolo tranquillo. Ma è stato il mio peggior incubo e terrore per 20 anni. Terrore assoluto. Ha avuto nomignoli atroci regalati dai miei amici (Herr Professor, Donzauker).

Non ha mai memorizzato i nomi dei miei amici. Neanche i miei lavori. Chiedigli i soldi per le vacanze, li avrai. Chiedigli i soldi per sopravvivere, non li avrai. Chiedi aiuto, avrai una faccia contrita che risponde “non posso, ora proprio non posso”.

Ha fatto di me una persona libera da legami familiari ad un prezzo tale, che sono 40 anni che pago il mutuo a metà con mia sorella.

Tasso variabile.

Non è stato un grande affare.

 

 

Non è la città, sono i legami

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Soundtrack: Rolling Stones Anybody Seen My Baby

Sono a Napoli.

Parto domattina all’alba avendo combinato un casino per via della mia demenza senile allegramente avanzante (ho ben due amiche a Roma, una non la vedo dagli anni 80, ci ho vissuto negli Stati Uniti, l’altra è l’unica che può capire, perfettamente, il mio stato d’animo attuale).

Quando vengo qui cammino per ore senza farci caso. E mi sparo i cinque allucinanti piani per arrivare alla colombaia senza neanche troppo sforzo.

Mi sono addormentata nel pomeriggio sul divano guardando i tre denti del Faito.

Una giornata splendida. E calda.

Ho comprato un borsalino nuovo. Identico. Non l’ho trovato di altro colore. Assolutamente identico ma nuovo. Una ossessione penelopesca.

Non sono andata da mio padre come mi ero promessa e ripromessa. Non ce l’ho fatta.

Ho dormito. Nella mia narcolessia da evitamento tipica.

Dovrò perdonarlo prima che muoia (io o lui?). Credo di doverlo fare ma ben poche cose mi aiutano a coltivare questo dovere. E non si può perdonare per dovere. Bisogna sentirlo.

Con il doc Fab siamo chiusi in casa da due giorni. Non ci viene di uscire. Capita che qualcuno passi di qui e si fermi. Ma stiamo bene nei nostri silenzi e negli scoppi di chiacchiere sintetici e intensi.

Abbiamo fatto l’albero insieme. E’ una bella sensazione. Mi piace fare l’albero e qui dai favolosi è particolarmente divertente. Il numero di palline da sistemare è vicino alle 9 cifre. Tipico del docfab e del suo concetto di quantità minima necessaria.

Tre ore a dirimere rami, sistemare lucette e attaccare palline colorate. E’ bellissimo e sono ben felice di averlo fatto qui. Che resta il mio posto dove tornare. Il posto dove fare il pieno assoluto di calore e tranquillità e energia e quiete.

Casa.

Sempre di più e persino senza il fab1.

Quindi non è la città che mi ricarica. E’ questo posto, senza dubbio.

Sono sul computer del doc, non oso immaginare che musica ci troverò. Ha degli strani e variegati gusti. Vedremo.

Napoli è un carnaio di umanità incazzata nera. La bellezza delle donne affacciate ai vasci (=bassi, N.d.T.) è commovente. Ma non bisogna guardare, neanche nascosti dallo schermo di occhiali scuri. Se ne accorgono e si incazzano come varani. Rischiosissimo.

In questa città uno sguardo diretto è un guanto di sfida che va raccolto prima che cada. Mi chiedo di cosa si abbia costantemente paura.

A vederla da fuori è affascinante come una puttana francese di mezza età. Ha molto da raccontare, ma nun se po’ guardà.

Nei miei pensieri una tromba d’aria in perenne movimento circolare.

E’ tutto inventato. No è vero e questo è pericolosissimo. La voglio. Non mi vuole. Non la voglio. Mi vuole? Ha letto il mio blog?

Non lo so. Non ne ho idea.

Domani vado ad uncontrre una vecchia amica, come detto. I** è stata la mia collega per tre anni al corso di logopedia, mi ha fatto studiare e lavorare venendo a casa mia la mattina presto per svegliarmi. Sono andata con lei a Bethesda e abbiamo vissuto insieme per sei mesi. Il mio primo volo l’ho fatto con lei. Un’amica per un tempo importante e particolare della mia vita. Non ci vediamo da quasi vent’anni. Vuole farmi vedere i suoi figli.

Certo che ho un gran culo, sempre trovato amici/he disposte a trascinarmi per farmi fare cose che mai e poi mai avrei fatto senza un raggio traente.

Buonanotte.