Mio padre

Soundtrack: Samuele BersaniUltima chance

L’8 febbraio 2014 se ne è andato mio padre, Sergio, ad 84 anni e 5 mesi.

Spiegare le cose per come sono andate non è facile come non è facile spiegare cosa, esattamente, significa per me.

Un lutto già elaborato, questo è certo. Per mille e uno motivi. Per mille e cento motivi. Per tutti i giorni dei miei 51 anni, più o meno.

Ma non è neanche esattamente così.

Dovrei ammettere che per me è stato liberatorio: finalmente poterlo guardare senza giudicare e senza provare rancore. Miracoli che solo i lutti possono fare. I lutti ed i salvataggi.

Anche se i salvataggi sono inutili, quando qualcuno non vuole essere salvato da se stesso.

C’è una storia dietro, c’è la storia di una terza moglie avida e stupida, una donna troppo concentrata sul suo bisogno di danaro, da usare poi in modo inutile. Di un uomo sempre solo con i suoi mostri ed i suoi fantasmi fatti di mogli morte, padri troppo ingombranti, persecuzioni razziali, fughe, primogeniture ebraiche, passioni travolgenti.

C’è una storia che si avviluppa sull’impossibilità di accettare una decadenza dolorosa che colpisce quello che si considera il vero e assoluto punto di forza della propria vita: la mente.

E c’è anche la storia di un uomo che non riesce ad accettare aiuto da due figlie che, malgrado lui, lo hanno amato.

E’ esattamente quello che gli ho detto, un giorno a casa mia, dopo averlo portato via da un ospizio che sembrava un canile, accompagnata dai carabinieri (l’ospizio risultava chiuso perché nascondiglio di armi e droga, un posto di merda per gente abbandonata e sola; un canile appunto).

Piangeva e diceva che non credeva che a noi importasse di lui. Ho risposto: “ti vogliamo bene malgrado te, papà”.

Quando l’ho portato a casa mia speravo, profondamente speravo, fosse possibile ricucire brandelli di stoffa emotiva dispersi negli anni del dolore e della incomprensione. Averlo visto così indifeso, così disperato e fuori dal suo ruolo, dalle sue caratteristiche, così pronto a farsi prendere tra le mie braccia, mi ha permesso di vedere un uomo e non un cattivo padre.

C’è gente che si spara 15 anni di psicanalisi freudiana per arrivare a questo. Ho avuto la possibilità di farlo gratis ed in un singolo attimo che è valso una vita.

Intorno a me le persone che amo. Una mobilitazione senza precedenti. I “favolosi” (che adesso sono unità distinte) che mi accompagnano all’ospizio e ci riportano al paesello, Biancaneve che recuperava badanti giorno/notte, FS che cucinava le polpette morbide, mia sorella che arriva per portarlo su da lei, la nipo con il guaglione suo a cucinare pesce fresco per far mangiare mio padre. Che già non mangiava più, che prendeva 8 antipsicotici al giorno, che ha dormito solo la prima notte di filato, che si stava perdendo le procedure per fare le cose, che non trovava le parole che solo mia sorella ha imparato a recuperare e spesso a tradurre.

Abbiamo sperato insieme che tutto questo fosse il modo.

Il modo per tornare ad essere famiglia, il modo per farci capire nel nostro amore inutile, il modo per riscattare anni di dolore e lontananza, il modo per farci VEDERE.

Guarda queste tue figlie, padre. Frutto dei tuoi lombi e sangue del tuo sangue. Queste due figlie a loro modo integre, malgrado te (di nuovo), che aprono il baule dell’affetto sepolto sotto chilometri di distanze e tonnellate di coperte di lana grezza e litri di lacrime e parole rancorose e ti mostrano il tesoro. Il loro tesoro fatto di qualcosa che non ha, lucidamente senso, ma è lì ugualmente, anche se non dovrebbe.

Le figlie depredate delle madri, degli affetti, delle case, dei ricordi. Le figlie senza protezione che si proteggono da sole. Le figlie che restano quando potrebbero andar via. Le figlie che non discutono mai le tue scelte e che, sempre, hanno sperato che quello che facevi fosse il meglio per te. Questo lo hai fatto anche tu per noi.

Queste figlie hanno poi deciso di fare qualcosa. Di tenerti lontano da quel parassita di tua moglie e costruirti una chance di vita altra. Più dignitosa, pensavano le tue figlie. Più in salute, pensavano le tue figlie. Più vicino alla tua famiglia. Pensavano le tue figlie.

E pensavano male.

Un mese di ospedale per rimetterti in piedi. Via gli psicofarmaci, per scoprire che eri troppo depresso per toglierli tutti. Cercando di farti mangiare per scoprire che avevi deciso di non farlo più. Avviando l’organizzazione di terapie per recuperare gesti e parole.

Poi nella migliore delle case di cura possibile. Comunque legato al letto di notte. Comunque col bavaglino. Comunque imboccato. Comunque pulito e lavato da una sconosciuta. Non c’erano alternative.

Ma io te l’ho visto negli occhi che non era quello che volevi e non volevi sentire ragioni.

Hai scelto di tornare dal parassita che, nel frattempo, ha cominciato ad inseguirci a botte di avvocati e denunce.

Lei sì, noi no perché tu non volevi lo facessimo.

Avremmo dovuto proteggerci. Avresti dovuto proteggerci.

Sei tornato a Napoli.

Ho pianto come se fossi morto. Ho provato tutta la rabbia del mondo per l’occasione mancata, per la preoccupazione di quello che poteva accaderti, per il dolore di saperti tra le mani di una persona che cercava solo di spremerti con tutta la forza e la violenza che ci vuole con una arancia avvizzita. Ho pianto per la delusione, per la vergogna nei confronti delle persone che mi hanno aiutato credendo di fare la cosa giusta. Ho pianto per me che ho perso l’occasione, ho pianto per mia sorella che ha dovuto fare appello a tutta la forza che aveva da parte per occuparsi di te che non ti sei occupato mai di lei. Ho pianto per mio cognato che si è sputtanato in tutta Senigallia per darti una mano, papà. Ho pianto per te che non hai imparato mai. Per te che non ti sei mai dato occasione di trovare pace, per te che saresti morto solo.

Ho pianto per le tue colpe e per i tuoi sensi di colpa.

E non ti ho più visto.

Tra mail di avvocati, avvisi di garanzia e patetiche strategie parassitarie, ci fanno sapere che sei di nuovo in casa di cura.

Un tuo vecchio amico mi urla in testa che non stiamo facendo abbastanza e che dobbiamo fare un sacrificio per salvarti.

Mi viene da ridere. Dov’eri un mese fa? cosa ne sai di quello che è successo? Mi dice “lasciate a lei i soldi e occupatevi voi di vostro padre”.

Già, lasciamo a lei i 3600 euro di pensione mensile di mio padre e facciamoci carico di papà, io al momento senza lavoro e mia sorella part time a 800 euro al mese. “Fate un sacrificio” mi dice il vecchio amico.

Mavaffanculo, va’.  Stai zitto e vaffanculo. Tu e tutta la razza tua di gente senza contatto con la realtà. Tu e la razza di quelli che si svegliano all’ultimo momento ed hanno la verità in tasca. Tu che mi hai messo le mani addosso quando avevo 12 anni, stai zitto e non rompermi i coglioni. fatti i cazzi tuoi.

Con gentilezza ho risposto che avremmo tenuto in considerazione i suoi consigli. Lady Penelope.

Vengo giù a Napoli per vederti e invece mi ammalo. Febbre a 38 la sera. La mattina alle 11 mi arriva l’sms che sei morto in clinica.

Il favoloso mi accompagna a vederti.

Sei piccolo piccolo. Con la kippà in testa e la stella di David al collo. Un tempo la stella era attaccata ad una catena d’oro. Ora è un laccio di cuoio. Giacca scura e cravatta. Sei molto carino. Se questo si può dire di un cadavere. Ed hai un aspetto molto ebreo, con il tuo naso tipico e le macchie sul viso uguali a quelle della nonna ed alle mie. Gli occhi chiusi, il viso scavato (sei anche senza dentiera, la faccia è minuscola).

Ti seppelliamo al cimitero britannico senza funzione. Almeno questo la parassita lo ha rispettato, mi pare una buona cosa, sarei persino disposta a salutarla. Poi il direttore del cimitero mi chiede soldi per la lastra di marmo. A nero ovviamente. Non li ho, me li presta/regala “qualcuno”.

Al cimitero ci sono le persone che mi aspettavo, quelle che amo. Rivedo anche mia zia, la cugina di papà che è identica a lui. Mia sorella non è voluta venire. Ed è giusto così.

Il favoloso si siede sul cannello acceso che serve per chiudere la bara. Punito per aver cercato di fraternizzare con il nemico…

Non ci sono più tornata.

Non ho pianto, era già successo.

So perfettamente che volevi morire.

No judge, no pain.

Eri vergine ascendente vergine. Qualcuno mi ha detto che è l’ultima possibilità per modificare il karma. Dopo c’è la regressione.

Mi sa che se è vero, rinasci sasso, papà.

Ed è la cosa che mi addolora di più.

Mi sto prendendo del tempo per capire la tua parte più profonda e oscura, quella che ti portava gli incubi tutte le notti. Vorrei capire se poi, alla fine, la tua vita sia stata tutta un cazzeggio da narcisista patologico o un continuo punirsi per essere ebreo, vedovo, fedigrafo e irresponsabile affettivamente.

O entrambe le cose.

Ancora oggi, a 3 mesi dalla tua morte, ti voglio bene malgrado te.

Ciao papà.