1 NPI, 2 psicologi, 3 logopediste. In stretto ordine gerarchico. Perché una banda seria è piramidale.
Erano vestiti con sobrietà e apparivano persone perbene, adulti, professionisti di un certo livello riuniti per discutere di importanti faccende inerenti la propria situazione lavorativa. Aggiungerei, per puro narcisismo, che io ero in versione Stanislao Moulinsky in uno dei suoi più riusciti travestimenti (vestitino, stivale con tacco a spillo, cappottino di velluto e sciarpa di seta).
Si incontrarono, alle 9.00, sotto la Piramide Cestia.
Si recarono, all together, in un pub poco distante.
Mangiarono.
Bevvero.
Risero a dismisura.
Parlarono degli argomenti che più si addicono alle loro intrinseche caratteristiche: lavoro e sesso. Con una prevalenza dell’argomento sesso nella misura di una percentuale superiore al 75%, come da indicazioni dell’Amministratore Unico della società per la quale prestano i propri qualificati servigi.
Bevvero ancora.
Parteciparono dei dessert della casa con gusto e soddisfazione.
Decisero, a una certa, che la serata poteva dichiararsi conclusa.
Si recarono alla cassa.
In fila.
Lo psicologo guardò la logopedista travestita e disse “mica possiamo andarcene così?”.
La logopedista travestita rispose “certo che sì”.
Aprirono la porta e si proiettarono senza fretta all’esterno del pub, uniti e compatti, con calma e determinazione.
Con estrema rilassatezza e senso di impunità, The Specialists si intrattennero all’esterno alcuni minuti.
Quindi svamparono.
Nel nulla.
SENZA PAGARE IL CONTO.
Ussignur, rido da due ore ininterrottamente… ma si può? la media è di 40 anni, tutti professionisti serissimi, con famiglie anche. ‘Na band ‘e sciem’.
Non ci posso credere sia successo per davvero. vero che sono alticcia e vero che lo eravamo tutti, ma scappare senza pagare… neanche a 13 anni.
Se usciamo di nuovo tutti insieme, aspettatevi una rapina a mano armata.
Litigi, scene isteriche, discussioni, minacce, guerra dei poveri, accuse di ogni genere.
Controllare la mia rabbia è stato difficile. uno sforzo da mal di testa.
Ancora poco e si passava alla rissa pubblica. Strascino proprio.
Fino a quando la nostra protettiva NPI ha ben pensato di offrirci la migliore psicoterapia possibile alle quattro del pomeriggio: BACARDI BREEZER, cioccolata e patatine.
Il breezer è stato introdotto clandestinamente nelle stanze di terapia. Con sapienti operazioni di disimpegno e distrazione. Una truppa perfettamente addestrata si è mossa in sincronia assoluta e la copertura ha tenuto.
Un paio di bottiglielle e la giornata è diventata altra.
Non ricordo tanto bene i cicci piccoli.
Effetti collaterali immagino.
E poi giù fino alle sette e mezza brilli e cazzonissimi.
Un cazzeggio neverending con pensiero lieve e strafottenza grave.
Fantasiosi brainstorming nei quali decidere che scritte mettere sulle magliette che porteremo sul lavoro, uso divisa, nei prossimi mesi (mese?).
Sulla mia ci sarà scritto: GOLDFINGER.
Mi sa che la riciclo al Gay Pride…
Il cicchetto sul posto di lavoro era una esperienza sostanziale che mi mancava,
Abbiamo deciso di istituzionalizzare la Bacardi Therapy. Un successone.
Soundtrack: mavafanculo alla soundtrack che non ho proprio voglia di mettermi a cercarla
e pure l’immagine è vecchia e non c’entra una mazza.
Evidentemente.
Non mi sono fatta capire.
Problemi miei, evidentemente, di espressione in lingua madre. Evidentemente.
Ci sono cose che fanno effetto “falena”. Una luce accecante che ti costringe a volarci intorno inebetita e ossessionata. Se la luce si spegne e ne sei uscita viva, ti ricordi che hai circa 200 cose da fare. Ma se si riaccende, sei fottuta di nuovo.
E questo vale per parecchie cose in questo periodo e non c’è da dar la colpa a chi accende la luce, che avrà pure diritto di vederci al buio senza doversi fare paranoie sulla presenza di una eventuale falena deficiente.
Mi scuso e ripeto che il problema è mio e solo mio. Ripeto che sì, probabilmente ho avuto bisogno del ciucciotto in bocca, di entrare in un tunnel che mi ottundesse il cervello e mi allontanasse dalle frustrazioni che non controllo, che devo subire, che mi capitano.
Come a tutti del resto. Niente di speciale.
E niente di speciale anche il mio modo di costruire Oz ed accomodarmici dentro malgrado tutto.
So solo che ho una notevole spinta a tranciare e potare e accéttare e troncare e allontanare e fuggire e quanto di altro esista sulla faccia della terra che sia sinonimo di distruggere, ma con minore furore e maggiore precisione.
Mi accorgo, per l’ennesima volta, di scrivere sotto osservazione. Mi da fastidio. Mi toglie direzione e sincerità di espressione.
Procurarsi un rifiuto controllato e giustificabile per non dover fare i conti con i rifiuti che possono fare male.
Quello quell’è.
Ha a che vedere con valutazioni personali non gradevoli. Fuori mercato. Fuori catalogo. Fuori luogo. Fuori posto. Fuori dal gioco.
E non basta l’illusione che una scopata risolva la questione.
Non mi basta affatto.
Quello che vivo non mi piace. non mi piace per niente. Questa è una frase che avrò scritto centinaia di volte in questo blog. Sarebbe cosa buona e giusta che mi fermassi a rifletterci.
Non posso fare a meno di domandarmi cosa cazzo ci faccio qui. Cosa sto pensando di fare. Dove sto pensando di andare. Cosa davvero ho costruito e cosa credo di aver costruito.
Peraltro realizzo per l’ennesima volta che non riesco a fare a meno di tracimare stati d’animo e responsabilità in campi che non mi appartengono e su persone che non mi appartengono.
Ho una rabbia dentro, in questi giorni, da far tremare Roma Nord.
E non so che cazzo farmene.
E non so che cazzo sto facendo.
E non so che cazzo voglio.
La questione lavorativa fa schifo, ma non è mai solo quello. Sono una privilegiata, col culo a terra, del tutto, non rischio mai di rimanere. E se il resto della tua vita va bene, puoi andare a lavorare in miniera tutti i giorni con un forcone in culo, non te ne accorgi neanche.
Quindi non è questo o non è solo questo.
E’ la paura di essere fuori tempo massimo e che, per quanti sforzi io abbia fatto, per quante energie abbia prodotto e per quante occasioni io abbia avuto, è time out e basta.
Ci sarebbe dovuto essere altro che, evidentemente, non c’è.
Un altro genere di tempo, un altro genere di vita, probabilmente. Invece c’è solo la testarda e inutile prosecuzione di qualcosa che non ha più ragione di essere. In alcun modo.
Non riesco ad ascoltare, a capire quello che mi viene detto, forse neanche mi interessa. Ho quella rigidità che in genere mi disgusta, quel ripiegarsi miserevole. Non vedo oltre il mio naso e mi infastidiscono le voci che mi arrivano dall’esterno.
Mi sento da rottamare. E’ questo che c’è sotto. Come la mia moto, qui sotto.
L’ho accarezzata stasera, come fosse un essere umano.
25 anni di onorato servizio. Il mio è accanimento terapeutico. Lei è come me. Fuori moda e fuori mercato, ma molto comoda. Bisogna conoscerla per saperlo. Non potrei venderla, non troverei anima viva disposta a darmi due euro. Solo rogne. Ci vuole sconsiderato e illogico affetto per continuare a credere che funzionerà ancora e mi porterà in giro a primavera.
O il mio gatto, 19 anni e ancora da ridire su tutto.
Siamo tutte e tre da iscrivere al Registro Storico.
Il numero di delusioni che ho accumulato nell’ultimo periodo è talmente grande che va misurato in parsec. non è umanamente possibile reggerlo. Almeno non per la mia umanità.
Troppe aspettative, evidentemente. Troppi bisogni, da parte mia, da soddisfare in qualunque modo. Non è mai una buona cosa.
C’è da imparare a star da sola. Per davvero. Senza credere che passerà.
Per una serie di coincidenze, mi decido a cercare di parlare di lui. E’ come se questo post stia aspettando di essere scritto. Ma non mi sento mai nel mood adatto, non riesco a decidere quale colonna sonora è migliore, mi è difficile selezionare fatti salienti e importanti.
Quasi 25 anni di vita insieme. Dai miei 12 ai miei 35. Mi pare. Non riesco a ricordare l’anno nel quale è morto.
Ma ricordo quello nel quale l’ho conosciuto.
1975. Inizio seconda media. Finalmente fuori casa, almeno il pomeriggio. Con i miei calzettoni di cotone bianchi con i buchi e le maglie di lana rasa color ruggine o blu o rosse (momento di vita, proprio).
In mezzo ad un gruppo di compagne di classe scafatissime, fichissime e bellissime, conosco lui.
Una pagnotta al latte.
Rotondetto e liscio. Bianco come un lenzuolo e delicato di modi. Mi sembrava.
Delicato di modi non è stato mai, in realtà. Feroce e lepido nei giudizi. Non è mai stato neanche diretto. A volte, forse, ma mai su questioni sostanziali.
E’ stato il mio primo fidanzato e il mio primo bacio con la lingua. Ah. Mi viene da ridere solo a ricordare. Piccoli gay crescono e si fidanzano pure tra di loro.
Ma erano gli anni settanta, ci si sottoponeva ad improbe fatiche per far finta di essere etero.
Da allora non ci siamo persi che per pochi giorni.
Avevamo, noi chiattilli di Chiaia, la “comitiva”. La comitiva ha avuto uno zoccolo duro che non si è abbandonato fino alla sua morte. Ma anche oltre.
Il favoloso, ziasaimon e io siamo ancora qui, tant’è.
Giro intorno e non entro dentro la sua storia. E’ più difficile di quanto credessi.
La sera del 15 aprile del 1997 ero a casa. Incazzata come un varano e disperata come un passerotto, avevo appena chiuso una storia di quattro anni nel più orrendo dei modi possibili.
Chiamò il suo compagno urlando e piangendo. Massimo stava male.
Di solito non mi spavento, tendo a minimizzare. Mi terrorizzai. Non volevo trovarlo già morto.
Arrivai a casa sua in moto. Non ricordo le scale infinite che portavano a casa sua. Ricordo di essere entrata, di averlo trovato sul letto, di averlo chiamato, di averlo visto girarsi verso di me e di aver capito.
Il braccio a tenere la testa, sangue da un orecchio e nistagmo: emorragia cerebrale.
C’era da restare presenti a se stesse. C’era da chiamare parenti e amici. C’era da organizzare modi di incontrarsi e da sapere dove lo stavano portando.
In ambulanza c’era il suo compagno, sulla vespa il favoloso ed io ad inseguirlo senza parlare.
Poi il delirio di telefonate, appuntamenti, trasferimenti, parole senza senso, terrore e incazzatura.
Inutile tentativo di operarlo al secondo ospedale. Respiratore. Terapia intensiva.
Tre giorni in ospedale. Il mio ricordo è di un centinaio di persone che venivano per lui. Anche da fuori. Ma non so, forse è la mia tendenza a romanzare.
Ma lui aveva la capacità di tenere rapporti per decadi con persone vicine e lontane, capace di rimanere legato a gente vista 4 volte in tutto. Aveva una rete gigantesca ed era il perno assoluto.
Ci sono persone che non ho mai più visto dopo la sua morte. Persone che frequentavo perché lui ci sapeva tenere insieme.
E questa era una sua caratteristica fondamentale.
Anche la capacità di esserci sempre e per chiunque. Al suo meglio.
Al suo peggio ci sottoponeva a torture indicibili come la frequentazione di personaggi discutibili e orrendi dei quali si innamorava perdutamente e per anni. Pervicace e ostinato nei suoi amori impossibili.
Che in genere mi scopavo io. Se non erano proprio ributtanti. Ma questa è un’altra storia. O forse no.
Io non sono in grado di spiegare la natura del nostro essere amici, neanche a distanza di dieci anni. Una qualche forma di specularità. Perché con lui non si poteva essere amici e basta. Ci dovevano essere coimplicazioni e incroci e vissuti comuni fino al patologico assoluto.
Ci siamo protetti così. Tutti. E noi siamo ancora vivi.
Non si possono spiegare 20 anni crescendo insieme in tutto e per tutto. Nel bene e nel male. Nell’affetto incondizionato, nell’invidia, nel piacere, nel dolore, nel delirio, nella comunanza.
Abbiamo visto morire un amico insieme, abbiamo fatto uso indiscriminato di droghe per anni e Dio, come gli piaceva stare strafatto. Abbiamo conosciuto persone e posti. Abbiamo litigato allo stremo, ci siamo traditi e insultati, i natali insieme, le vacanze insieme. Lui pigro come un gatto, strafottente spesso ma presente sempre. Abbiamo fatto incidenti per colpa della sua distrazione cronica e per la sua mania di poter guidare anche dopo una serata di canne serrate e alcool indiscriminato. Abbiamo giocato a soldi, fatto sedute spiritiche, sentito musica, cantato Anna Oxa un milione di volte, usato casa sua in montagna per tutti gli inverni che Dio ha mandato in terra per vent’anni. Svuotato il frigorifero di casa sua mille volte. Fame chimica. Mi ha portato a frequentare improbabili corsi di pranoterapia, incontri con sciamane buriate, a dormire in campi rom, ha coniato soprannomi ferocissimi per chiunque che resistono a dieci anni di distanza e varie centinaia di altre cose che non riesco a ricordare a comando.
Non concepiva una serata senza strafarsi, mangiare, ridere e fumare 200 sigarette.
Per me era la certezza assoluta e il Referente Unico, Malgrado i suoi “ti voglio bene ma non ti stimo”, malgrado il suo fastidio per il mio modo di scrivere e di dipendere da lui.
Emotivo come un bambino di tre anni fino all’ultimo giorno.
E io conosco solo un terzo del suo dentro. A molte cose non ho mai avuto accesso. Non si fidava abbastanza.
Il terzo giorno di coma, si è scelto di staccare le macchine. La famiglia e noi tutti. Hanno sempre ritenuto, i suoi genitori, di doversi consultare con noi.
Pensavo mi sarebbe esploso il cuore. Ma non è esploso.
Pensavo non sarei sopravvissuta. Sono sopravvissuta.
Pensavo non sarei guarita da questo dolore, da questo abbandono, da questo tradimento che è il peggiore che un amico ti possa fare. Non sono guarita, no. Ma non sono più incazzata.
Ho realizzato poi che, tempo addietro, lui e il favoloso mi avevano tradito con molta leggerezza e senza consapevolezza.
Meglio non averlo saputo allora, li avrei persi entrambi.
P.S. Io so che questo post non è abbastanza. So che ci sarebbe molto altro da dire. Credo di essere diventata come il pater e cancello per poter continuare a camminare senza troppi pesi. Sono certa che molti di quelli che lo conoscono hanno da raccontare un Massimo diverso e personale. Ebbene, FATELO. Più in là ne scriverò di nuovo, ma in un altro modo.
——————————————
Questo è quello che ho scritto alla luce del sole. I fatti, le vicende, le memorie, Le parole che, tutto sommato, ti consentono di restarci dietro e non dire, non sentire, non lasciare uscire. Ma di notte viene fuori altro. Forse quello che c’è dietro. Almeno per me.
Il nostro era un rapporto fantasiosamente squilibrato. A distanza di anni posso dire cosa mi legava a lui, non so dire cosa legava lui a me. Per me era amico, vate, padre, madre, fratello, specchio. Non mi sono mai sentita alla sua altezza. Quale che fosse, la sua altezza. Troppo grossier e troppo ignorante, troppo testa di cazzo, troppo irresponsabile e disattenta. Non credo fosse davvero così, non lo credo ora, ma allora ci vivevo, di questo.
Ce l’ho ancora dentro, anche se di meno, ora. Ho la sua voce che mi “valuta”, ma senza la tagliente ferocia che gli apparteneva. Con più dolcezza, la dolcezza che puoi assegnare a chi non è più con te.
Ma mi riempiva la vita. In ogni poro e crepa. Era il materasso su cui cadere e la coperta per coprirsi, ogni giorno, per vent’anni. Era il mio punto caldo e la mia corda annodata per tirarmi fuori dalla merda.
In fondo non mi sono mai chiesta da parte mia cosa arrivasse a lui. Sapevo che non si fidava abbastanza. Non sono mai stata una persona riservata e se fosse vivo considererebbe questo blog un altro dei miei orridi modi di raccontare i cazzi miei e altrui worldwide. Un buon motivo per continuare a non raccontarmi le cose sue più vere.
Mi cantava delle canzoni offensivissime, se ci penso. Ma mi ha sempre preso per quello che sono. Anche quando gli ho fatto male, anche quando mi scopavo i suoi amori. E non so cosa dicesse di me ad altri, neanche lo voglio sapere.
Mi ha nutrito per anni, ha condiviso con me qualsiasi cosa (fidanzati/e improponibili, amiche/i impresentabili, drammi reali o presunti, dolori familiari, casini lavorativi e umani). La qualunque della solidarietà.
Sempre e comunque.
E di questo ero certa come del mio nome e cognome.
Non ricordo momenti senza di lui. Non ricordo cambiamenti senza di lui. Mai nel pratico, che la pigrizia se lo mangiava a morsi e non muoveva il culo manco a pagarlo.
Ricordo come teneva in mano la sigaretta e come rideva, il pizzetto da sempre, i capelli che scomparivano in fretta. I peli sul petto. Le espressioni dolci da orsetto lavatore e quelle dure con gli occhi in fiamme. Ricordo anche i suoi mal di testa devastanti. Aveva un angioma congenito, dissero che non era da tutti superare l’adolescenza con un tale groviglio di vene nel cervello. Sarà stato l’uso smodato di stupefacenti a farlo resistere, chissà.
Perché dopo l’orrore dell’adolescenza (spudoratamente ricchione sin da piccolo, ha attraversato l’inferno del machismo post-puberale uscendone vivo), Massimo la vita se l’è goduta tutta. Malgrado gli amori non corrisposti e le pippe mentali che lo avvolgevano da capo a piedi. Non conosco nessuno che lo odiasse, conosco persone che lo cercavano e che, in capo a qualche settimana, restavano avviluppate da lui, dai suoi modi, dalla sua presenza.
Mi ha difeso sempre, che io ricordi, ha sempre scelto me, se scelta si doveva fare (parlo di faccende che riguardano me e la mia vita, naturalmente, niente di trascendentale o eccezzionale), mi ha lasciato condividere gran parte del suo quotidiano, era pronto a partecipare e condividere qualunque cazzata mi/ci passasse per la testa. Di fatto era lì per me.
L’ho sognato un paio d’anni dopo la sua morte e poi mai più. Parlavamo e parlavamo senza smettere di raccontarci tutto quello che era successo. Tutto, che a lui non ho mai censurato niente, nemmeno le mie miserie.
Ho talmente tanto di Massimo dentro, che non ho spazio per tirarlo fuori.
Perchè lui è stato con me, per 22 anni, in tutto quello che ho fatto.
Abituarmi alla sua assenza è stato faticoso e doloroso.
E perché manco posso stare in paranoia che se metto sul blog i grovigli che ho in testa poi mi si dice che sono noiosa o li legge qualcuno che preferirei non leggesse o non sono scritti bene o non fanno ridere o “la spettacolarizzazione del blog” o sticazzi.
Epporcaputtana.
Devo uscire da questo loop che mi tarla la materia bigia.
Come se non bastasse la vigente paranoia del giudizio altrui.
Che tanto appartiene a tutti senza distinzioni. Non diciamo cazzate.
Ma ti pare che ‘sto acer di merda deve avere il jack per le casse DAVANTI? cioè ce l’ho nell’ombelico, in pratica.
Ma chi le progetta le nuove tecnologie? degli omini senza corpo?
E meno male che la soundtrack me la sono scelta da sola. Avrei altresì potuto pensare che una scelta del genere era il parto di un antisociale con turbe della relazione, bipolare e depresso cronico con punte di schizofrenia paranoide.
Un tempo mi sono fatta prendere da un paio di musiciste che mi sembravano fichissime e adesso mi fanno scendere il latte alle ginocchia. Lamentose. Tipo Emiliana Torrini. Una palla colossale.
Mi urtano di nervi i giudizi precostituiti, l’ignoranza, l’incapacità di ammettere un limite, il narcisismo come il mio (ma il mio è diverso perché è mio), il tremore delle ossa al pensiero che qualcuno potrebbe, omygod, potrebbe, non considerarti la stella del firmamento che sei, il rumore della colonna vertebrale che si rizza quando ci si accorge dello scampato pericolo, lo stridio del sorriso che si disegna sulla faccia quando poi nasce la certezza che di fronte hai una personcina ammodino, quindi un’idiota.
Ho un vocabolario greve e scurrile. Se ti voglio bene ti dico che sei una stronza. Se mi stai sul cazzo ti dirò che, probabilmente, la tua modalità di pensiero non è compatibile con la mia e che abbiamo dei punti di vista diversi.
Se mi stai simpatica ti sentirai dare ogni genere di definizione censurata dal vocabolario.
Quando voglio insultare qualcuno, di solito, uso metafore composte da un centinaio di parole correttamente pronunciate.
Quando mi incazzo parlo napoletano, e meno male che qui non possono capire che il mio napoletano è pessimo.
Se sono contenta, parlo napoletano (sempre quello).
Ma ti pare che in questo momento di mmerda mi devo arrovogliare appresso alle cazzate?
Il bello è che mi faccio pure il problema.
Io.
Non sia mai detto, sono una gentillesbica di questa minchia.
Io.
Posso dire in tutta franchezza (ma che bella espressione pure questa) che un tal numero di misunderstanding non mi erano mai capitati con nessuno. Nessuno.
Ed ho pure pensato che fosse problema mio. Mia incapacità di espressione o mie disattenzioni imperdonabili.
Macché.
E’ che io a delle cose proprio non ci arrivo, quindi non le penso e quindi non capisco.
Altro punto fondamentale: in questo periodo non gradisco consigli. Di nessun tipo.
Faccio quello che posso, trovo le soluzioni che posso trovare al costo di mercato. Le scelte si pagano quello che si devono pagare e se non mi viene in mente altro vuole dire che altro da fare non c’è.
Non voglio sentire voci che hanno da parlare delle loro fantastiche idee, idee che non realizzerebbero neanche sotto la minaccia di un bazooka, ma sembrano perfette per me.
Non voglio essere messa in condizioni di non raccontare quello che mi succede perché “ti metti sempre nelle stesse situazioni”, “non è la cosa giusta”, “c’è di meglio”. A meno che queste frasi non vengano pronunciate da persone che possono documentare con allegati in copia conforme, la propria perfezione assoluta nella gestione delle faccende dell’esistenza.
Non ci posso fare un emerito cazzo. Quest’è. E quand’anche provo a tirarmene fuori mi arriva una manina alle spalle che mi afferra i capelli e mi ributta dentro.
Preferirei mille volte altro da questo. Ma sto ancora qua.
“A 46 anni dovresti cambiare le cose che non vanno”. Il primo che lo dice si prende una capata in bocca.
– Questa non è una buona cosa – Cercò di dire, ma il terriccio gli impastò la lingua.
Poteva pensare di essere su una navicella spaziale. Senza gravità. Poteva pensare di essere in una vasca enorme. Poteva pensare qualsiasi cosa, ma era immerso in una cosa scura e appiccicosa che si faceva sentire forte e chiara.
Per quanto fosse abituato a inventarsi i confini e l’ambientazione e i personaggi, dovunque e comunque fosse, questa volta c’era poco da inventare.
Ricordò il vecchio trucco degli alpinisti travolti dalle valanghe.
Sì, ma quelli sono dentro una cosa fredda e pulita, questa qui è umidiccia e nera.
Ma il trucco è lo stesso – chi sta sotto una valanga sta nella merda come me – si disse in testa per non mangiare altra terra.
Aspettò di sentire la saliva depositarsi da qualche parte in bocca per capire dov’era finito il giù.
Cominciò a scavare verso l’alto. Perchè lui non è una fottuta talpa. Non un sorcio, non un coniglio o una rapa. Lui è un uccello. Blu, ma pur sempre un uccello.
Ha le ali e il becco arancione forte abbastanza da fare a pezzi la crosta di un albero. E’ nato per quello. Programmato per quello. Volare e bucare, bucare e volare.
Che cazzo ci faceva in questo schifo?
Pigro. Sei pigro Woody. Sei talmente pigro da lasciar scivolare via i momenti pensando che torneranno, che vanno e vengono e che se vanno devono tornare per forza. E allora poi si vede. Se avrai voglia, se sarai pronto, se sembra facile, se tutto va come deve, tonerà come deve.
Ma non è sempre così. Di solito hai culo Woody. Qualche volta un po’ meno.
Non sei su una sedia a dondolo ad annodare maglioni di lana.
Ti sei appoggiato per un momento, solo un momento, hai detto. E sei ancora lì. Non ti stupire se il fango ti ingoia, ti ci sei avvolto come un maiale. Muovi il becco, scava.
Scavare fa male. Movimento, che palle. Dinamica dei corpi, non fa per me. Dinamica dei liquidi. Ho sete.
Aria.
Notte però.
Di giorno sarebbe stato meglio.
Puzza di palude putrida e nebbiosa.
Forme che sguazzano e alzano schizzi di terriccio bagnato su altre forme immobili.
“Ciao Woody” disse una forma grigia.
“Ciao” rispose Woody.
“Resti ancora?” era un coro di voci grigie come le forme nel fango.
“Veramente io preferirei andare” disse Woody educatamente.
“Ma avevi detto che preferivi restare” disse qualcuno mentre altre formine si agitavano a casaccio.
Woody spinse via la polvere dalle piume soffiandoci sopra e disse: “Vuoi che ti buchi il cranio?”
“Non ti incazzare, ripetevo quello che hai detto tu, non me lo sto inventando” la forma sorrise con tutti i suoi denti gialli e neri.
“Sono cazzi miei, se cambio idea, sono cazzi miei” Woody si sentiva a disagio, giusto un po’. Troppo buio. Troppe forme. Nebbia. – La nebbia mi ottunde il cervello – pensò, ma non lo disse.
“Credi di farcela?” domandarono le figurine.
“Credi sia importante?” rispose.
Si grattò il becco, aggiustò il ciuffetto rosso. Si guardò intorno.
“Io non sono una bestia da pantano” disse “io so volare”
Oggi, nel merdaio generale detto “posto di lavoro”, ho capito che dovevo prendere aria.
Sono uscita e mi sono guardata intorno. E sopra. Mi sono fermata a fare quelle cose da collezione harmony, quelle di bassa lega e nessuna importanza.
Ascoltare microsecondi di silenzio.
Sentire il vento che passa tra le foglie e aspettare che mi arrivi in faccia a far vibrare le sopracciglia.
Guardare gli alberi da frutto dei vicini con i rami aggrovigliati e scomposti come i miei capelli la mattina, senza desiderare di scavalcare la recinzione e potarli a modino.
Seguire le nuvole in corsa e chiudere gli occhi quando arriva il raggio di sole.
Fumare la sigaretta con gusto erotico formulando pensieri irrispettosi ma estremamente stimolanti.
Godermi la solitudine.
Realizzare che sono in grado di restare seduta su una balaustra di ferro per 20 minuti senza fatica.
Nutrirmi della bellezza del mondo prima di tornare ad avere a che fare con la bruttezza di taluna umanità.
Per un quarto d’ora circa sono riuscita a vedere la piccolezza e la miserevolezza di persone e fatti e atteggiamenti e comportamenti.
Ma giustificare mi è parso eccessivamente faticoso, restare indifferente un’impresa buddista fuori dalle mie capacità.
Ma se ne andassero affanculo, infine.
Non ha molta importanza.
Importante è cercare di tirar su un’amica che sta esplodendo, importante è realizzare quando un supposto cataclisma è un’opportunità per ricostruire, importante è sentire che con un posto non hai più nulla a che spartire e che andar via non è poi un’ipotesi tanto spaventosa. Anzi. Liberatoria direi.
Riflettere.
In realtà significa “rimandare un’immagine”. Allora perché si riflette in solitudine e si da per scontato che farlo permetta di capire meglio? Domande epocali e, soprattutto, retoriche.
Chissenefotte.
Riemerge da un passato assolutamente remoto una persona non perduta e una proposta dolce e delicata. Certo, è già successo 20 anni fa e si tratta di ripetersi. Ma non sembra casuale. Avrà un senso, una collocazione. Una faccenda che si incrocia perfettamente con il mio presente migliore. Buon augurio.
Niente si perde del tutto. Quello che fai di buono ritorna e non disgusta. Quello che fai con entusiasmi bambini ed energia irragionevole, ricompare a sorpresa a ricordare che non sei solo questa melma indistinta.
Le persone che ti hanno dato, cui hai dato, non si allontanano mai del tutto. Non è solo quello che vedi, è la tua intera storia che ti segue inciampando e scivolando, di tanto in tanto, sulle merde che inevitabilmente lay on the ground.
Shit happens, ma anche no.
Melensa stasera, saranno gli occhiali della farfalla rosa, sarà che proprio in questo presente mi rifiuto di riconoscermi, sarà che avere a che fare con personcine perbene fa bene. Più di quanto faccia male avere a che fare con persone permale.
La testa immagina il mare.
Forse il centro per il quale lavoro salta, forse no. In ogni caso, non è la mia vita, è il mio lavoro.
Sono cose che ho già detto. Credo anche più di una volta.
Sono cose che conosco e che ho incontrato infinite volte e che continuano a lasciarmi basita e rimbambita.
Ho qualche difficoltà a riconoscere libera cittadinanza alla grettezza d’animo. Proprio non mi riesce di essere democratica abbastanza da giustificarne l’esistenza.
Qualcuno mi dice che il mio vizio di voler vedere sempre e solo il meglio dell’altro da me è, in fondo, niente altro che insicurezza e bisogno di accettazione incondizionata.
Può darsi. Ci rifletto spesso. Tutto sommato una personalità narcisistica come la mia ha bisogno soprattutto di interazioni “incondizionate”.
Può darsi anche che della merda del mondo io ne abbia piene le palle e che mi trovi più a mio agio a guardare le cose con occhialetti rosa a forma di farfalla cieca.
Il problema sorge quando attraverso le lenti rosa della farfalla cecata passa la sputazza velonosa delle belve umane che popolano il mondo reale.
Se ci penso con più attenzione, il tutto nasce sempre dalle stesse identiche cose. Dalla paura che qualcuno possa acquisire potere prima di loro. E non importa se non è vero, non importa se è tutta una costruzione mentale, se non c’è niente da acquisire e niente da mettere in pericolo. Non importa, l’importante è avvelenare e uccidere per non essere messi “in dubbio”.
La miserabilità degli obiettivi, come già detto in altro post.
Se avessi una briciola di ambizione, non farei la logopedista.
Se avessi un unghia di necessità di guadagnare potere, avrei fatto un’altra vita.
Se tenessi al riconoscimento dei miei meriti, avrei avuto meriti da riconoscere.
Se ritenessi vitale proteggere il mio giardino, lo avrei recintato.
Se credessi di avere diritto a qualche cosa, me la sarei presa.
Scontrarmi con la rigidità del pensiero gretto mi destabilizza e mi disarma del tutto.
Come parlare ad un muro o cercare di far ragionare uno psicotico in delirio persecutorio. Un’impresa titanicamente inutile.
Questo non è un periodo di sole e calore, non solo dentro, anche fuori.
Soundtrack: Niente che devo svuotare il box, è pieno. Se ne parla domani.
Questo è un po’ difficile da scrivere.
In galleria urlo ininterrottamente. Urlo e lacrimo. Disperata e rabbiosa. Sono umida dentro e fuori. Spaventata. A morte. Paura di perdere di nuovo tutto. Paura di perdere. Di restare di nuovo senza niente di niente. Come sempre. Come è già successo. Deja vù. Mi fa male.
E non so che farmene di tutta questa paura, non so dove metterla, non so in cosa trasformarla, non so nemmeno con chi condividerla.
Non mi piace annoiare. Non mi piace ripetermi. Non mi piace esserne ostaggio.
Recalcitrante.
Come sempre.
Ri-partire, ri-cominciare, ri-trovare, ri-cercare, RI-. Da sola.
Non è che io pensi di non farcela. Io sono pietrificata dal terrore.
Come mai prima. Come sempre.
Sono le quattro del mattino, sono stata al Circolo degli Artisti con le mie Amiche. Ho bevuto. Ho ballato. Dovrebbe essere bastato.
Non è bastato.
In macchina facciamo un gioco, il gioco di V**. Serve radio Subasio che mette canzoni assurde senza spazi. Si dice “la prossima è tua”.
A me è toccata “la forza della vita” di Paolo Vallesi.
No, dico, mi si prende per il culo?
Per quanto tempo ancora mi tocca produrre energia nucleare sufficiente a rimettermi in piedi ogni due anni? Quando finisce? Quand’è che a me tocca di costruire pensando che non finirà o svanirà o si dovrà abbandonare per un qualsiasi cazzo di motivo di merda esterno alla mia volontà?
Io voglio sapere quando sarà il momento di costruire per la gioia di farlo e non per la fretta di sopravvivere.
Voglio sapere quando tocca a me.
Voglio una casa che sia la mia, voglio un lavoro che non mi sfugga dalle mani, voglio tenermi con delicatezza e serenità le cose e le persone che mi guadagno facendomi un culo così.
Dio solo lo sa quanto investo e quanto credo nelle cose che faccio. Ma pare se ne fotta altamente.
Vado per i 46.
Dai 19 in poi mi sono reinventata ogni due/quattro anni.
Almeno 9 vite fino ad ora, a occhio.
Ho il terrore di farcela di nuovo.
Strano a dirsi.
Ben strano karma, potrei dire se ci credessi.
E un tempo ci credevo.
Non riesco a calmarmi stanotte.
Ho freddo, tremo come un’idiota e sono fuori di me.
Abbracciami. Forte forte, come si abbraccia una figlia che deve partire, come se fossi una bimba che si sveglia di notte, come non avessi altri che me. Come se volessi proteggermi. Come se mi volessi calmare.
Miii, quando arrivo a soffiarmi il naso con il lenzuolo vuol dire che sono alla frutta.
Stasera c’è nebbia a Roma. Come trovarsi nella campagna irlandese.
Il mondo intero ha deciso di mettermi al corrente di notizie e fornirmi informazioni delle quali farei volentieri a meno.
Il mio capo, detto “l’omino di creta”, nei prossimi giorni, sparerà cazzate a raffica mentre la nave affonda inesorabilmente.
Budget tagliato dell’8%. Basato su quello del 2007, quando eravamo la metà. E lui ancora sogna di tenere tutti e vaneggia soluzioni prive di senso e di contatto con la realtà.
Non posso neanche cercarmi un altro posto, la situazione è così in tutto il Lazio. Tranne che per i capi cretini. Quello è una mia esclusiva.
So benissimo che questa faccenda non interessa a nessuno e che sono cazzi miei, ma un indicazione di quanto sia nella merda questo paese viene fuori.
Il Servizio Sanitario della Regione Lazio ha richiesto la dimissione di un buon 40% di pazienti in carico e di un bel gruppo di impiegati amministrativi. Nel solo settore della riabilitazione. Per chi sta a collaborazione inutile parlarne, è sottinteso.
Prendi un ciccio piccolo su tre e mandalo a casa, è di troppo.
Anvedi che filosofia da servizio pubblico.
In teoria dovrebbero essere riassorbiti dalle ASL, in pratica non succede perché il servizio di terapia logopedica, qui, è quasi esclusivamente privato.
Il messaggio è: FOTTETEVI.
La prossima prevista immagino sarà: “fuori i pazienti oncologici dagli ospedali”, tanto “anna murì”, inutile spendere soldi.
Paese di merda.
Il periodo è questo, noiosissimi e desolantissimi post sul mio lavoro e sull’assenza di stipendi e prospettive. Cambiate blog.
Che è una frase che mi fa schifo tal quale “sono confusa”, ma quando ci vuole ci vuole.
Resta il fatto che mi piacerebbe capire cosa mai alcune persone vogliono da me.
Odio essere sopravvalutata, preferisco la sottovalutazione, mi lascia margini ampi per scorrazzare e contraddirmi e nascondermi se serve.
Sono intollerante alla lusinga. Mi fa sentire pupazza e cretina.
Sono cresciuta tra gente immensamente più intelligente di me. Ho dovuto imparare ad esercitare dialettica per reggere il passo e a non vergognarmi della mia ignoranza. Meglio palesare i limiti che fingere la loro inesistenza.
Vorrei saper prendere alcune faccende della vita e alcune affermazioni umane con maggior leggerezza.
Nei ruoli sto stretta.
Ma li preferisco per comodità.
Non tollero le definizioni ma le dispenso come un distributore di benzina.
Questo 2009 mi angoscia e non capisco il perché. Ne ho il terrore.
Veloce che ho fretta di andare a dormire. Domani sveglia militare.
Prima di tutto mi preme fare presente che il mondo intiero è un manicomio assoluto.
La gente è fuori di testa e tutti indistintamente credono di essere gli unici sani tra i matti.
Poi Mork è una hacker che mi entra nelle pagine di stat counter. Ti ricordo che è un tantinello illegale e che è inutile che provi a rabbonirmi su facebook, ti sputtano qua lo stesso.
Attualmente il testo sulle bozze di wordpress ha una misura variabile tra i tre e i sei punti e non vedo una mazza.
Quindi veniamo al dunque.
Sono stata, per anni, una lesbica camion. Poi sono passata al rango di vintage, conservando la base camion e accompagnata dalla variante banana.
Ebbene mi sono rotta il cazzo.
Sono una signora, ho un’età, resto una gentillesbica inguaribile ma mi rifiuto categoricamente di essere trattata come una camion pischella in perenne debito nei confronti delle fiche di legno e delle principesse.
Dunque nessuna si aspetti più di potermi estorcere un “accompagno” di notte perché “da sola ho paura”. Da oggi anche io divento una inguaribile coniglia e chi ritiene di avere più diritto di me ad una rapina o ad uno stupro notturno, si pigliasse un cazzo di tassì.
Chi ha da montare e smontare armadi pax è pregato di chiamare i rumeni. A me mi si spezzano le unghie che da stanotte lascerò crescere a dismisura.
Chi ha pacchi da trasportare si doti di un carrello con rotelle. La Penelope ha una certa età e rischia il colpo della strega o la sciatica. Anzi, a questo puinto direi, accompagnatemi a far la spesa che i sacchetti sono troppo pesanti per le mie fragili membra.
Resto disponibile per uno o più di questi servigi, in un unico e indiscutibile caso.
Che me la si dia.
Altresì, fottetevi o chiedete a un portatore sano di pene. Io sono oberata di impegni.
Soundtrack: A New Funky Generation – The Messenger
Di cosa sia il burn out, ne abbiamo già scritto. Sennò leggete qui.
Non so se sono proprio alla quarta fase o sono andata a inventarne una quinta. Può essere.
E’ che comincio a far cazzate. Ed a lavorare ‘na merda.
Appena rientrata dalle vacanze.
Ho perso il controllo.
Non è il lavoro in sé che mi consuma o confonde. Di quello conosco confini e contorni, delusioni e miserabli glorie.
E’ di nuovo il contesto. Come 20 anni fa. Come quando ho lasciato la prima volta.
Famiglia, scuola, centro.
Prima o poi uno o tutti e tre arrivano come l’uragano Kathrina e lasciano morti e feriti.
Non solo il lavoro fatto insieme (ciccio piccolo e terapista) svanisce ed evapora e scompare nel nulla. Non solo.
Potendo ci si aggiunge anche qualche beffa o qualche gesto che mette me in condizioni di dire “ho fatto cazzate”.
Magari alla fine è solo questo. Solo un errore di una terapista con il delirio di onnipotenza e la convinzione di salvare il mondo dai suoi stessi mali.
Sì, è questo.
E non mi va di assumermene tutte le responsabilità. Voglio darle a qualcuno che non sono io.
Sarò mica sola a lavorare con i cicci piccoli?
Con le colleguzze cerchiamo vane e vaghe strategie per stare meglio, per non affondare nella melma.
Ma non basta.
Sarò la rappresentante sindacale di questo posto di merda.
Almeno si varia un po’, ma penso di essermi infilata in una situazione ancora più snervante.
Lavorativamente mi sento una vecchia amareggiata e isterica.
Ci ho messo tutta la giornata ma l’ho finito. Il libro è “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson. Leggetevelo. 676 pagine che lasciano orfani.
Questo bastardo del mio computer rifiuta di connettersi con il mio cell. Sia infrarossi che bluetooth e non posso scaricare la foto del panorama di Napoli che ho fatto dalla finestrona della colombaia.
Bene, detto questo, passiamo al resto.
Il treno del ritorno è, di solito, un treno malinconico e nevrotico di suo. L’Intercity ha un che di triste, perché è, in fondo, il treno di quelli che tornano dove devono tornare senza gloria e senza gioia. Se a questo aggiungi l’effetto estetico che è veramente terrificante, il risultato è un’immagine che ricorda in modo impressionante l’emigrazione dei contadini del Bangladesh verso il Nepal. E lo dico volendo offendendere i vagoni di Trenitalia e non le persone che lo affollano e che, comunque, se si lavassero di più, male non gli farebbe.
Mi secca quando voi lettori del blog avete aspettative su di me. Mi sento manipolata e mi scatta la dispettosità intrinseca senza contare l’ansia da prestazione.
Un secondo compagnello di blog – oltre la già citata Vita -: Nuvolepensierose, mi ha sgamato su feisbuk.
“La copertura è saltata”.
E non basterà rimettere gli occhialetti neri e impomatare i capelli.
Che poi non so perché ho scelto di fare di questo blog un blog anonimo. E’ terribilmente discordante con la mia patologia narcisistica.
In generale mi pongo il problema giusto rispetto ai genitori dei miei pazienti.
Il favoloso dice che sono diventata noiosa nei post.
Sono tornata a G.C. per salutare il favoloso in partenza.
Starà via sei mesi che è un tempo ragguardevole. In un periodo che non è l’arrivo dell’inverno e il letargo che ne consegue e la mancanza di dinamismo e attività tipici. Tornerà a giugno. Per niente facile.
E guardarsi intorno con un occhio affondato nella lana grezza e stropicciata dei suoi maglioni e l’altro che cerca di farsi strada tra le dita delle sue manone che, in qualche modo, ti torturano un po’, è bello e fa bene al dentro. Vederlo iperattivo e sorridente (effetto del cortisone che sta prendendo), mi si trasforma in energia.
Io non so dire quando sia successo davvero che lui sia diventato così importante per me. Sì certo siamo stati insieme, sì, tutte le cose delle quali ho già parlato. Ma da un certo punto in poi è successo qualche cosa di altro. E io non so dire cosa.
Di fatto resto lì e non vado a trovare mio padre. Di fatto mi addormento sul divano il pomeriggio come una vecchia o come una bimba, non saprei. Di fatto quando lo sento di mattina entrare in salotto e mettersi al computer silenziosamente (non poi tanto, in verità), mi riaddormento serena.
So che lui vorrebbe che mi svegliassi prima, per chiacchierare, per dire strunzate, per mettere in atto le nostre eterne pantomime ossessive e identiche sempre. Non mi sottraggo mai. Non potrei. Non ne ho intenzione.
Una parte di me si chiede, spesso, cosa mai potrei fare io per lui per restituire quello che ricevo. Su ogni piano, ad ogni livello. Sono sempre in debito, ne sono consapevole.
Ma per lo più me ne fotto.
Qualche volta cedo e mi presto a qualcosa che non incontra del tutto la mia approvazione. Ma se serve va bene così. Ci sarà modo e tempo per rimettere le cose al loro posto.
L’amore che ho per quest’uomo io non me lo riconosco per nessun altro al mondo. Sia chiaro. Non ho mai permesso a nessuno di essere così profondamente nelle mie vene.
Il ciccio favoloso 2 dice che siamo due facce della stessa medaglia. Può darsi. Il ciccio favoloso 2 ha un accesso speciale, favorito certo dalla presenza del favoloso medesimo, questo è fuor di dubbio, ma io non ho mai rispettato il cane per il padrone. Il ciccio favoloso 2 ha quella meravigliosa ostinazione da catuotero (=intraducibile, N.d.T.) calabrese che me lo ha fatto ritrovare tra pancreas e polmoni senza neanche me ne accorgessi. E mi vien da ridere.
Molte persone associano me e il favoloso. A parte le considerazioni del fab2, che sono sensate e argomentate, per gli altri è un fottutissimo stereotipo. Non siamo simili. Affatto.
Semplicemente abbiamo “maturato” le stesse strategie di sopravvivenza. E le abbiamo in comune con molta altra gente.
Sabato sera siamo stati a cena, come capita spesso, tra amici trentennali. Letteralmente. Persone che conosco da quando avevo 11 anni.
L’amicodelmuretto parte per il Sudan. Va a fare il medico sfrontierato. Ne sono fiera.
Le cene dalla ziasaimon sono rassicuranti nel loro svolgersi immutabile e solido. Come il il natale in famiglia (se ne hai una e ci si vuole almeno un po’ di bene). E si mangia meravigliosamente bene.
Ma ieri sera era diverso. C’era qualcosa di incredibilmente e inaspettatamente diverso e di non facile da spiegare.
Un accenno di movimento, di dinamica, di grecale. Anni che non lo sentivo.
Qualcosa cambia e cambierà, staremo a vedere cosa.
Tutti loro sono, comunque, pezzi della mia vita. Dopo 35 anni non potrebbe essere altrimenti.
Non importa quanto siamo distanti nelle scelte e/o nei desideri. Non importa.
In ognuno di loro io posso leggere la mia storia e loro possono fare lo stesso con me, gli ideali di vita raggiunti o abbandonati, i sogni realizzati o ignorati, le deviazioni inaspettate, gli stop eterni e anche le paure e i pericoli scampati.
Un paio di considerazioni prima di andare a dormire, che è tardi e che mi devo alzare prima dell’alba ed ho persino sonno che è quanto dire.
Ci sono persone che si lasciano divorare dall’invidia. E non è questo il punto, sull’invidia ho poco da dire, it happens e, oltretutto, a volte è pure utile. Resto esterefatta quando l’invidia diventa la persona, quando si trasforma da aggettivo a soggetto attivo. Quando questo succede, la persona è capace di odio vero, profondo, distruttivo. Odio che ti fa desiderare, davvero e non tanto per dire, di vedere qualcuno star male o soffrire o morire.
Se ci penso bene, sono persone fisicamente riconoscibili nella loro forma verde/giallognola e asciutta fino all’aridità.
Ci sono persone che hanno in testa solo obiettivi e traguardi. E anche su questo, di per sé, non ci sarebbero questioni da sollevare. E’ un buon modo per costruire qualcosa, un buon modo per arrivare da qualche parte. Mentire, nascondere, omettere, manipolare e fingere per arrivare a quegli obiettivi e quei traguardi, mi fa tremare le vene dei polsi (che espressione meravigliosa).
Queste persone si riconoscono con maggiore difficoltà, sono brave a dissimulare e brave a cogliere i punti deboli delle persone nemiche o di quelle che è meglio avere come amiche.
Non mi piacciono (mava?), mi fanno un po’ paura. Ho sempre la sensazione di non sapermene difendere a sufficienza. Perché quello che non capisco, lo vedo solo all’ultimo momento e può far male.
Ma ch’ ‘rè? na lezioncina sulle aberrazioni umane? Forse.
Poi ci sono persone che prendono la vita come fosse una mulattiera delle Alpi Carnie. Passano su sconnessioni e voragini sempre con lo stesso passo e lo stesso sguardo negli occhi traparenti.
Si fermano di tanto in tanto a guardare il panorama e scacciando le domande come fossero mosche cavalline.
E ci sono anche persone che sanno esattamente come sono e chi sono, ma non vogliono far dispiacere nessuno e fingono di essere quello che altri hanno deciso per loro.
Io a queste persone voglio bene. Molto bene.
Alle mule che conosco vorrei alleggerire il basto e lisciare il pelo. Vorrei si sedessero sul muretto a secco della mulattiera e si domandassero cosa mai le ha portate lì e dove, in realtà, vorrebbero essere. Quando ci provo e le vedo piangere, vorrei secernere miele e manna. Ma non si può. Non lo so fare, più che altro. Credo nel potere della parola e insisto a lacerare veli nella ferma convinzione che sia utile. Magari, invece, faccio solo male. Maledetto delirio di onnipotenza. Ma il mio è un gesto d’amore, per quanto orribile possa sembrare: una ferita se è chiusa male e fa infezione la devi riaprire. E pulire la carne viva. Mah. Convinzioni del cazzo.
E per quelli che si sforzano di essere quello che non sono, mi sento profondamente responsabile. Io che so cosa significa non essere uguale, io che so cosa significa crescere in un altrove che non è di tutti, io che so quanto costa costruirsi senza l’aiuto e l’appoggio delle certezze del “comune” e dello “standard”, non avrei dovuto permettere che succedesse. Avrei dovuto fare di più e combattere di più, prendermi il rischio e provarci. Testa di cazzo, come al solito un lavoro a metà, iniziato in ritardo e finito troppo presto.
Infine, concluderei con un paio di domande epocali sulla mia persona. Pare che io ispiri istinto protettivo. Perché mai. Non lo capisco e non me lo spiego. So di avere spesso bisogno di aiuto, che siano questioni pratiche o emotive, mi manca sempre una lira per apparare (=raggiungere, N.d.T.) 100 lire e finisco per annaspare in giro in cerca di chi mi aiuterà per rimettermi in piedi. Non so sei sia una cosa della quale mi dovrei vergognare, ma comunque sono così e non mi sembra particolarmente orrendo. Mi pare ci sia di peggio.
Ma proteggermi da cosa? Non sono buona, non sono imprudente, non sono avventata. Al massimo sono un po’ cretina, a volte. Immagino capiti a tutti.
Magari la penso così perché mi si protegge talmente tanto bene che manco mi accorgo dei rischi che corro.
Penelopebasta addiction! almeno non faccio male, Vita!
Volevo avvertire luca spoldi che non so postare comment sul suo blog. Volevo fargli i cicci perché mi ha linkato con “dedica”.
Pensa, Altunghino, che Alice vuole mettere in palio una notte con me. Non mi sembra verosimile. Ma sicuramente è un pensiero gentile…
Ella, la Alice, propone ciò: chi mi trova, mi si tromba. Accetto suggerimenti più realistici ed educati per i festeggiamenti dei 100.000. Qualcosa di fattibile e magari più controllabile. Tanto ci vorranno ancora un paio di mesi.
Le amiche si preoccupano per il mio ormone. Che cosa delicata.
Altre i preoccupano per i ritorni ed i comportamenti da adottare. Mi ero incazzata. Poi ho capito. Va bene così, mi sembra giusto. Cercherò di spargere in giro fluidità e leggerezza, sennò addiventa ‘na palla.
Vorrei la palla di vetro. La mia si è rotta. Davvero, non metaforicamente.
Un tempo leggevo le carte. Gli arcani maggiori e solo al diritto. Niente cattive notizie, mi innervosivano. Ho smesso di leggerle perché porta sfiga. A me. Il solo fatto di leggerle. Ma ero una brava cartomante soprattutto per la previsione di matrimoni e gravidanze. Tribus può testimoniare. Anche per individuare miei/mie futuri/e fidanzati/e. Il fab ci è passato e anche qualcuna che mi legge e non scrive mai.
O voi lettori/trici silenti che tornate compulsivamente e mai commentate, orsù, iniziate il nuovo anno con la follia di un commentucolo qualsivoglia, un saluto scarno, due parole in croce, il vostro perché.
Il mio narciso ha fame. Il mio narciso è un vampiro, a ben pensarci.
SVELATEVI, porca pupazza (che modo carino per non insultare le signorine della salaria).
Comunque avrete delle sorprese in primavera. Se tutto va bene.
Vorrei farmi venire in mente qualcosa di più carino e nuovo della caccia. Vedremo.
Chi dovrebbe andare a dormire
chi si preoccupa dei giorni a venire
chi pensa che io valga la pena
e chi con la mente si arena.
Ho scritto filastrocche per anni. Ancora mi diverto a farlo. In rima baciata. Ma anche ABBA.
Ho scritto lettere d’amore per altri. Uomini e donne. Su richiesta.
Ho scritto testi pubblicitari a strafottere. Anche sul veleno per scarafaggi.
Scrivo le relazioni sui pazienti in tre minuti, in piedi e/o nel cucinino e direttamente in bella copia.
Ho riempito decinaia (come dice la collez) di quaderni.
Ho scritto poesie.
Ho scritto lettere di protesta, lettere amministrative.
Ho scritto anche storielle sui miei colleghi, di fantascienza, horror o erotiche.
Stasera dovrei scrivere la domanda per un concorso che scade domani.
Concludiamo questo circo di feste e festine come si conviene.
Poi basta che mi so’ un po’ rotta il cazzo.
Il problema sarà passare ad altro.
Distratta mi hanno.
Penelope gatta non sta bene e questo mi preoccupa oltremodo. E’ questione complicata portarla dal veterinario.
Avrei voglia di lamentarmi un po’. “Lamentusa”, dice Alice.
La verità è che sono settimane che non ne ho da scrivere. Mi resta il gesto compulsivo di aprire il blog e cliccare su “new post”. Non riesco a farne a meno.
Ma quello che ho dentro, in questi giorni, non è condivisibile neanche con me stessa.
Mi sento aggrovigliata come una matassina di lana dopo che ci ha giocato un gatto. Piena come un otre e ingenerosamente portata a trattenere. Stitica.
Insomma non lo so come mi sento, non so come sto e non ho idea di un cazzo di niente.
Eppure qualcosa si è conclusa ed altro si è materializzato. Del 2008 non posso lamentarmi, in realtà, è andato bene, è stato denso e piacevole e pieno di cose nuove. E’ volato via. Ho incontrato persone speciali, mi sono innamorata, mi sono mossa molto, luoghi, cose, situazioni. Tutte nuove. Ho potuto accarezzare e costruire sogni. Sono ancora a Roma, ho una vita, ho affetti. Cose costruite in questo anno passato. Più di quanto mi aspettassi. Ho retto la solitudine, ho imparato ad averci a che fare. Ho fatto i conti e la pace con gli anni che ho e la testa di cazzo che mi appartiene (neanche più tanto, in verità, non mi pare). Ho perso alcune persone con dolore, perché perdere le persone mi fa sempre un po’ male, anche quando non c’è motivo, anhe quando non è il caso ma, anzi, è meglio così. Ho scoperto che sono in grado di sopravvivere a molte cose. Non da sola, ovvio. Con l’attenzione e la cura della mia “rete”, il mio facebook reale, quotidiano, fatto di amici che ci sono, restano, arrivano, si fermano e risolvono. Ho messo in piedi un blog che in un anno regge e procede, la mia creatura personale, la mia soddisfazione ossessiva che placa e guarisce. Ho tutto ciò che voglio, sono dove voglio stare, mi sento come voglio essere. Per quanto scassacazza e lamentusa. Sono andata in barca e ho sciato (due cose che non facevo da secoli, mi pare), ho fatto dell’ottimo sesso (poco, però), ho realizzato che quello che ho alle spalle è, appunto, alle spalle. Ed è per questo che la fenice tatuata è dietro e non davanti. Fatto tatuaggio, riavuta la moto, fatte figure di merda inaspettate. In realtà quest’anno è volato alla velocità della luce. La discesa dopo la salita. Mi chiedo se mi aspetta la pianura o partirà un’altra salita. Ma va bene tutto. Non importa. Siamo pronti anche quando non lo siamo. Ho più paura del vuoto che di altro. Non vorrei fosse un anno vuoto. Lascio un anno ricco, vorrei continuasse così.
Ed è meglio quando sono mentalmente impegnata (che “innamorata” è troppo e “fissata” mi pare patologico). Sto meglio, scrivo meglio, ho energie e le cose capitano.
Non mi va di stare ferma nel 2009 e ho il terrore che possa accadere.
Qualcuno per caso ha trovato, in queste ultime settimane, la mia ironia ebraica congenita da qualche parte? Se la trovate riportatemela, ne ho bisogno.
Di ritorno da Owindoli. (che la Alice non ha scaricato le foto, sennò la mettevo)
Noi da Napoli di solito si va a Pescocostanzo, Rivisondoli, Roccaraso. Mi ritrovo a romaneggiare. Strange thing.
Adoro la vita di comunità. Adoro in tutte le sue forme.
Sono cresciuta così.
In brevemente infiniti week end nei dintorni della mia città. In gruppi da 4 a 22 persone in una casa sola. il rito della spesa. Le occhiatacce a chi non è abbastanza ordinato, i cazziatoni a chi non fa un cazzo, le serate interminabili a fare giochi di ogni genere: dal poker a nomi cose e città.
All’epoca le canne. Questo capodanno 2009 birra e birra e birra. Necessaria per me, per poter comunicare in inglese, si sa.
Gruppetto femminazze da sbarco. Ma pure da sbraco.
Però ho sciato. Chè sciare è procedurale e alla fine delle 4 ore totali spalmate su due giorni, ricordavo anche come si fanno le curve a sci uniti. Anvedi.
Ci sarebbero due diverse cose da dire.
A parte il fatto che è stato un piacevolissimo capodanno e che Alice, Da Queen, Betty Ford Center e la rocker belga sono gran compagnelle di viaggio.
C’è un presente. C’è un passato.
Prima di partire il Favoloso mi ha chiesto perché non ho mai scritto nulla su Massimo. Non sono pronta, ho risposto. Ma la cosa mi frulla nella testa e andare sulla neve con gli amici mi ha piantato un chiodo nel cervello con un paio di colpi ben assestati.
Non mi piace stare sempre con i pensieri rivolti all’indietro, ma il mio passato torna e si ripropone continuamente come la peperonata calabrese con le cipolle di tropea.
A volte mi stanca, a volte non posso fare a meno di dare ragione al favoloso: sono il prodotto di quello che ho vissuto, dei miei legami, dei miei morti, dei miei feriti e dei miei dolori.
E’ che non ho nessuna intenzione di essere solo questo.
– Il tatuaggio mi prude che la metà basta, perché non so se ho comunicato worldwide di essermi tatuata la fenice immagine di codesto blog, sulla spalla –
La fenice appunto.
Se so stare in una casa con gente che conosco ancora poco con le quali ho solo la dimestichezza degli affetti immediati, è perché lo faccio da una vita.
Ci giro intorno ma non ci arrivo. Immagino non sia il momento.
Il presente è mio e solo mio. Il presente è fatto della voglia di continuare, di esserci, di non perdermi niente, di non lasciar sfuggire il tempo quando il tempo amichevolmente si offre.
Rimandiamo i concetti.
Allora che cazzo ti sei messa a scrivere a fare, Penelope?
Checcazzo ne so, mi andava.
Momenti topici:
“Alza le punte” – in seggiovia/ l’odio per gli snowboarders (non vorrei insistere, ma voi volete fare i fighi che vanno con lo snowboard e lo fate a Owindoli spalmandovi in gruppi di trenta al centro della pista ogni sei metri? ma andatevene affanculo a Bormio)/fndada/le handy lesbians che mettono le catene/la belga che si sveglia con la faccia insanguinata/i dolori muscolari di Da Queen/il camino/la macchina ricoperta di neve e il badile.