Bukowski, passato e stranezze.

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Soundtrack: Iggy Pop Lust for life

Doveva partire in un modo, questo post, ma un paio di cosette mi hanno fatto incazzare “all’ultimo a tutto” e non so come andrà.

Giornata particolarmente strana, oggi. 24 ore di eventi minuscoli ma corposi. Piccole cose dall’alto peso atomico. All together.

Forse è arrivato il momento delle spiegazioni, semplicemente. Forse no. Forse è nello scorrere delle cose. Forse no.

Stasera spettacolo di Alice: “Mai leggere Bukowski sobri” alla Locanda Atlantide. Non certo il posto migliore per metter su una cosa teatrale, ma è andata favolosamente bene.

Alice è molto brava. E questo basti.

Non sentivo parlare di Bukowski dai miei vent’anni. All’epoca lessi tutto quello che aveva scritto. Credo di avere anche una versione delle poesie con testo originale a fronte (negli scatoloni, ancora) perché pensavo che fosse importante leggere le cose come le scriveva lui e non tradotte.

Era un mito. Adolescenziale. Il mito dello scasso e dell’autocentramento assoluto. Il mito del “fanculo faccio il cazzo che mi pare”. Il mito di chi può dialogare e patteggiare con la morte.

In fondo era uno scrittore, uno che sapeva solo scrivere, non vivere. Per quanto abbia fatto e visto, per quanto estreme siano state le direttive/direzioni della sua vita, penso non sapesse fare di meglio che scriverne e che passasse il tempo a codificare le sue ore per farne pagine. Peraltro egregiamente. Ma questa non è una recensione né un’analisi della vita di Charles Bukowski.

Riascoltare le sue poesie non mi ha riportato indietro. Mi ha fatto guardare chi sono ora.

Poco da dire, di fatto sono quello che volevo essere, faccio quello che voglio fare, evito quello che voglio evitare e scrivo. Ma non sono una scrittrice maledetta. Non sono una scrittrice, di base.

Questo è il punto che mi manca. Il resto è come lo volevo, a ben guardare.

Perché conta molto poco il contesto, conta l’essenza. Il contesto ha sempre un che di casuale, fortunoso, incontrollabile. Ed identificarsi con il contesto è una aberrazione.

Strano discorso, nevvero?

Ho difficoltà a capire il peso che ho avuto nella vita di alcune persone. Anche di quelle che ho vissuto poco. Non riesco a comprendere quanto ho lasciato o modificato o rotto.

Non ci resta che aggiustare i momenti rotti. Dice Charles.

Posso capirne alcuni, di questi momenti rotti, di altri proprio non ne vedo i contorni.

Posso capire di essere stata importante nella vita di una persona che ho vissuto per anni e con la quale ho condiviso quasi tutti gli angoli di me, quanto questa persona può essere stata importante per me. So che, prima o poi, bisogna riguardarsi in faccia e dirsi qualcosa che non sia mai stato detto, qualcosa che restituisca le giuste dimensioni, scendere ad un paio di compromessi che, in fondo, non costano più tanto e realizzare, fino in fondo, che la condivisione è una dimensione che non evapora, non scompare e non si volatilizza. Banalmente si trasforma. Ad un certo punto.

Capisco meno il peso che mi si può assegnare in storie volatili e senza trama. Mi stupisco di annusare tracce di me dove non ci dovrebbe essere che aria e vento. Non ho dato tanto, non ho avuto tanto. Non c’è granché da ricordare.

Abdico volentieri. Non me lo sento addosso neanche un po’ il ruolo della pietra miliare. Non me lo sento e non ce l’ho. E questo vale, fondamentalmente, in entrambi i casi.

Le giornate sono fatte di molte cose, persone, accadimenti, dettagli, incontri, gratta e vinci, contrattempi e risate. L’ombra di qualcuno deve, necessariamente, perdersi nelle pieghe di queste mille cose.

Mantenere il faro puntato per non perdere l’ombra, non è un bene, è una follia.

Buonanotte a tutti e un abbraccio ad Alice che, in un pezzo dello spettacolo, mi ha fatto commuovere (certo dopo 5 minuti, il pezzo era finito e stavano facendo tutt’altro, ma io so’ leeeeentaaaaa).

Fa nu cazz’ ‘e fridd’.