Soundtrack: Terra Naomi – Up here
Prima dei 12 anni ricordo poco e male. Succedevano cose, mi attaccavo a persone ma non avevo idea di cosa fosse se non, a tratti e da un certo punto in poi, la sensazione di avere un disperato bisogno di interagire con le donne. Pensavo fosse una questione di orfanitudine.
A 12 anni ho dovuto scegliere. Fuori dal cortile della mia scuola media, guardavo delle figurine. Allarme rosso attacco alla terra. Tutte le mia compagne avevano una passione per uno dei due protagonisti: Straker (il biondo) o Foster (il moretto).
Non me ne poteva fregà de meno. Ma decisi che dovevo farmene piacere uno, non era normale che non mi interessassero.
Non ricordo chi ho scelto, ma ho attaccato la sua figurina sul diario. Ecco qua, così va tutto bene.
Lo avevo dentro, il senso di anormalità e diversità, lo avevo dentro così forte e così netto che ci ho fatto la guerra per vent’anni.
Uomini tanti, che non si dicesse che non ero interessata all’articolo. Tutti quelli che volevano me. Ché io non volevo nessuno.
I primi brividi ghiacciati veri a 17 anni. Insieme alle droghe, al sesso e all’alcool, anche le donne. Tante. Adulte e ragazze. Belle. Guardare e non toccare e cerca di non farti sgamare. Magari solo un po’.
Avevo un fratellastro che si presentava a casa periodicamente fidanzato con dei pezzi di figliuola da svenimento. Soffrivo e sbavavo. Poi uscivo. E scopavo, Con uomini. Perché non sia mai detto che…
Ma il mio fidanzato di allora (un biondino adorabile col mio stesso nome, amato da amici e parenti) se ne accorse. E si incazzò. E io non sapevo cosa dirgli. Volevo morire se possibile. In alternativa sprofondare. Eventualmente svaporare.
Ma io ancora non volevo dirmelo. A nessun costo. Non quella parola. Non una cosa tanto strana e anormale. Non una malattia come quella. Poco importa se sospetto che la maggior parte dei miei amici sia come me. Poco importa perché non si fa. Non si deve. Non si può.
Eppure non vengo da una famiglia cattolica, nè una famiglia moralista (no, moralista proprio no), non ho avuto un’educazione improntata alla morale comune, non ce lo potevamo permettere.
Ma mio padre ci teneva alla figlia femminuccia, la voleva la biondina magrolina educatina e ben vestita. Anche se mi lasciava guidare la barca, la macchina, se mi chiedeva di risolvere i problemi pratici e meccanici. E la moglie aveva un intercalare fisso “due categorie di femmine mi fanno schifo: le ragazzine incinta e le lesbiche”.
Inutile dire che sono stata entrambe.
Arrivata a vent’anni la guerra era del tutto consapevole. L’avevo in fronte e tra le mani. Non ne uscivo. Dagli amori folli e forsennati. Dalle figure di merda. Dalla morbosità irrefrenabile, dal bisogno costante di frequentare, vivere e sentire le donne e la loro voce.
Bastava pochissimo per farmi innamorare perdutamente e farmi passare notti su notti sudando e piangendo.
Sudando d’amore e piangendo di paura.
Terrore.
A chi lo dico? si guarisce? è normale? mi schiferanno tutti. Nessuno vorrà avere a che fare con me. Mi cacceranno di casa. Non lo posso dire. Non lo posso fare.
Picchi di delirio intervallati da sospiri e sogni di possesso.
Talmente tanto e talmente forte che in analisi ci sono dovuta andare per forza. Ma questo è successo dopo.
Nemmeno con il fab riuscivo a condividere “questa cosa”. Nemmeno con lui, che pure ha regalato due anni di pace ad un cranio frullato e shakerato.
Ma dopo di lui le dighe si sono aperte. Non c’era modo per fermare pensieri e necessità. Non c’era modo di fare finta, non c’era modo di coprire le tracce, non c’era modo più di restare nel mondo dei normali.
Dio la paura che avevo. Non so neanche più di cosa. E’ talmente difficile ricordarlo ora, che mi sembra non sia mai accaduto.
Invece ci vivevo immersa dentro e senza riuscire a respirare. Fino a sviluppare ogni possibile sintomo visibile o invisibile. Fino alle allucinazioni (che l’abuso di droghe e alcool sostenevano ‘na favola).
I primi due anni, al corso di logopedia, credevo sarei impazzita.
Solo donne. Mi sono innamorata di tutte loro. Una dopo l’altra. Perdutamente. Inutilmente.
Ho “confessato” il mio amore assoluto praticamente ad ognuna di loro. Sono ben felice di avere dimenticato quasi del tutto le conseguenze delle mie dichiarazioni. Quasi, non del tutto. Ero pressante, maniacale, testarda e ottusa. Vedevo segni dove non ce n’erano (questo mi ricorda qualcosa di fin troppo recente) e mi incaponivo fino a farmi sanguinare cuore e cervello.
Poi una di loro si è innamorata di me.
Uh? ma davvero? quindi non è una cosa che si svolge solo su me e intorno a me e per me. Succede a qualcuna che non sia io. Succede e adesso che si fa?
Ci si mette in piedi una relazione folle durata 6 anni credo, in un delirio di simbiosi, tradimenti con uomini e donne, maniacalità patologiche. Non importa se mi piace o non mi piace o quanto mi piace o quanto ci voglio stare. Diventerà acqua e pane, ossigeno e cemento, benzina e riposo. Diventerà tutta la mia vita.
E l’analisi. Per guarire da me. Per guarire da lei.
Freudiana. Trisettimanale. 6 anni interrotti all’inizio da una disperata fuga a Washington.
Ma non bastava l’oceano. Ero con me lì. a Bethesda. Niente era diverso e il dolore era devastante.
20 chili di burro di arachidi e maionese all’aroma di cipolla in 6 mesi. Su tutto il corpo, anche sulle orecchie credo.
La parola “Lesbica” non mi esce di bocca neanche sotto tortura. “Omosessuale” è un suono indistinto pronunciato a labbra strette. Non sono io. Non si parla di me. Per me è diverso cazzo.
E’ che ho bisogno di riferimenti femminili, io. Poi passa, appena cresco. Non sarà così per sempre.
Non mi accorgo che nessuno dei miei amici o dei miei parenti si sogna neanche lontanamente di schifarmi. Non conta. Mi schifo io.
SI torna in analisi. Si cresce. Si impara. Ma ancora non basta.
Intorno ai 30 anni il fab mi porta a conoscere il mondo gay partenopeo.
Esiste? esistono luoghi dove si riuniscono persone come me? come te? come noi che non sappiamo neanche dire cosa siamo?
Fino ad allora le mie storie le avevo avute, tutte intorno allo stesso filo. La base dei quattro cantoni, appunto.
Comincia la mia gaia vita e finisce l’analisi. Spariscono persone che, incolpevoli, mi avevano aiutato a massacrarmi l’esistenza. Diminuiscono le domande imbarazzanti (quando ti sposi? ma con chi stai?) e io imparo a mentire fin troppo. L’inutile schermo. La fatica della bugia non richiesta. Il bisogno di sentirmi dire “sarà che non ho ancora trovato quello giusto”. Continuare a trovare scuse e montare cosmiche puttanate a mio padre che diceva “porta anche lei”.
Omygod quanta energia sprecata. Quanto dolore inutile e improduttivo, quanta sofferenza autoprocurata nel nome di niente.
Ma non se ne può fare a meno, pare.
La bocca mi si comincia a sciogliere dopo i 30 anni. Amici gay, vita gay e famiglia lontana lentamente decimata.
Più nessuno da turlupinare.
E un amore grande, sereno, profondo, reale e pieno di sole. La sua famiglia compresa.
Se ne può cominciare a parlare.
Lentamente i ghiacci si sciolgono, gli anni passano e le cose scorrono, sempre più libere e serene.
A prescindere.
La mia famiglia se ne fotte allegramente, avrei potuto essere un tapiro, mi tollererebbero lo stesso.
Mia sorella Albus Silente sempre e comunque al fianco.
Mia nipote che si gioca la carta della zia lesbica con le amiche e fa la figa.
Mio padre che parlando con la mia ex e la prendeva in giro perché usava la pillola.
Mia zia che, al suo settantesimo compleanno, mi presenta a parenti centenari mai visti prima dicendo: “Questa è Penelope e questa è la sua compagnA!” (naturalmente mi sono nascosta in bagno per 20 minuti, poi mi sono resa conto che poco prima era entrato mio padre con la terza moglie, mia coetanea, e ho deciso che non era il caso di formalizzarsi).
Gli amici ricchioni e quelli no, che è lo stesso le amiche lesbiche e quelle etero, che non c’è gran differenza.
Le/i colleghe/i con le/i quali condividere e giocare.
Le battute, la solidarietà, l’affetto, il sostegno, le lezioni di sesso e lesbicitudine, le confidenze, l’ascolto, il cambiamento delle persone. Il mio cambiamento.
Il mio blog.
La mia vita.
La vita di una lesbica qualsiasi. Di una persona qualsiasi.
Quanto cazzo c’è voluto per arrivare a questo e quanto cazzo non ce ne era bisogno.