So what?

mose

Soundtrack: Charlotte Martin – Pills (vi mancava eh?)

Che cazzo sto combinando?

Costruisco inutili passioni di pasta di sale e polistirolo. E me le guardo come fossero vere.

Passo le ore a lisciare le sagome e modificare le forme come fossero coccole e carezze.

Nella testa mi si confondono visi, vasi, cose, case. Non trovo niente. Qualche palla di sottomanto della Penelope testarda e semprealfianco. Graffette e spillette. Polvere che fa grattar le dita.

Ho la testa vuota. 13 ore di sonno stanotte. Prima sveglia alle sei per un biscotto e una sigaretta. Poi liscia fino alle dieci. Oggi dalle 4 alle sei e mezza. Tra poco risistemo il capino sul cuscino e vado.

Sono stanca. Di molte, moltissime cose. Avrei dovuto capirlo giovedì che sarei finita stesa.

Ho fatto quasi 6 ore di straordinario questa settimana. Pare niente, Pare.

Vedo una madre, giovedì. Una donna sottile sottile. Consumata. Anche i capelli sta perdendo. Trasparente e disperata. Da non sfiorare, perché non si disfi come gli alieni nei cartoni animati sotto i colpi dei fucili laser. Guardarla e lasciarla stare. Che niente si può fare.

Suo figlio ha 11 anni. Ha la Sindrome di Kabuki. Ne ho già parlato. Il suo è un peggioramento di quelli inesorabilmente lenti, progressivi, distruttivi. Mese dopo mese, anno dopo anno, scompare nel nulla una funzione. Le ossa della testa si modificano e prendono forme astruse che bloccano il naso, che aprono voragini nel cranio. Non cresce di un centimetro, malgrado le iniezioni quotidiane di ormone della crescita. Reni, udito, vista, sistema immunitario.

Un ricovero al mese. Analisi del sangue ogni 20 giorni, credo.

Lui sorride sempre. Sempre. E’ allegro e solare dolce come un’arnia.

Una cicatrice gli attraversa il cranio, sembra un’aureola.

Lo vedo poco, per via dei ricoveri. Ci lavoro meno che niente. Non so cosa fargli fare.

Al colloquio con la madre ci siamo spaventati in tre: la NPI, lo psicologo ed io, per alcune notizie non confortanti. FINTA DI NIENTE, diceva il mio amico Massimo.

Alla fine sono dovuta uscire perché volevo disperarmi e basta. E non è bene. Sono stanca, evidentemente.

Io vorrei portarlo a fare un giro in motoscafo. in elicottero. Vorrei fargli vedere, che ne so, le falesie irlandesi, cazzo. Vorrei fargli fare quelle cose speciali che valgono la pena. Ma non è il mio mestiere.

Il mio mestiere si fa perché non si tollera l’impotenza. Non ce la si fa e allora si finisce medici, infermieri, psicologi, terapeuti, terapisti. Così riesci a sfangarla. Passi le tue giornate a illuderti che non sei impotente. Che sei attiva e utile. Qui non servo a una mazza.

Ho chiesto alla NPI cosa cazzo devo fare con questo ciccio piccolo devastato e devastante.

Metteremo su un “momento ludoteca” apposta per lui. Farà sentire meglio me, non so lui.

Guardo la collega TNPEE preoccuparsi per le assenze che le portano diminuzione di guadagno e resto ghiacciata. Non capisco tanto bene. Forse non ho capito bene. Forse sono io che funziono male. Di solito me ne fotto, di tanto in tanto, mi prende male.

Preferisco i cicci rabbiosi, quelli che cercano di picchiarti. Preferisco. Non che io sia canonica nella gestione dell’aggressività. Ho il mio discutibile metodo. Perché sono una bimba dispettosa io. Se serve, li sollevo da terra e poi li stendo sul pavimento e gli punto gli occhi negli occhi. Animale uno ad animale due. Io alfa, tu gregario. Nun ce provà più, con la voce di panza più profonda e ferma che ho. Sono scene buffe. Se mi sgama qualcuno con sale in zucca mi manda al confino. Non si dovrebbe fare così, in verità. Ma è più veloce ed efficace.

E questa settimana non è mancato niente. Cicci che mi hanno fregato per mia disattenzione, madri invadenti, insegnanti spaccapalle. Colleghe più disordinate e scoordinate dei cicci. Troppo lavoro.

Solo lavoro.

E stasera che dovrei essere immersa in una seratina for women only, sono a letto con Penelope a rivoltarmi il cuore e la pancia.

E non prendo medicine perché ho la fobia. Quindi si ha da aspettare che passi seguendo i consigli della nonna: riguardati, riposati, non prendere freddo.

Fumare si fuma lo stesso.

Ovviamente niente invito a cena. Non erano giornate. Poi non sono affatto sicura che la pupazzetta di pasta di sale e polistirolo abbia il dono della parola. Anche perché non sono Michelangelo.

 

Ho dormito 13 ore

termometro

Soundtrack: Jazzamor Ain’t No Sunshine

e ancora ne dormirei.

Mi sento ‘na chiavica. Mal di gola e alterazione del cazzo della temperatura.

Bollettino medico.

Avrei avuto da scrivere in queste sere, ma non ce l’ho fatta.

Avevo storie e deliri ma avevo anche sonno.

Se sono arrivata a giustificarmi per non aver scritto, siamo alla frutta.

Ho voglia di coccole e non ho voglia di parlar di niente. Non me ne frega niente.

Torno a letto.

 

Stucked.

stucked1

Soundtrack: Feist Intuition

Io, io , io. Io.

No, di Luxuria ancora non voglio parlare, non sono venuta a capo di quello che ho in mente, non sono d’accordo con le questioni sollevate da altri, non sono d’accordo nemmeno con quello che penso io.

So solo che se è vero che ha vinto perché il popolo LGBTQ si è mobilitato, pensa un po’ se ci si potesse mobilitare per qualcosa di vero e necessario. Ma non si può. E nulla cambia.

Che poi parlando di lei escono tutte. Anche i discorsi sul matrimonio gay. Che continuo a ritenere una pessima rivendicazione. Ma la R** stasera mi ha smontato le motivazioni e non so più cosa dire.

Mi si chiede della coltre di nebbia sollevata.

Che poi è calata di nuovo.

Mettiamola così.

Ho visto persone che stanno per dare direzioni precise alla propria vita e che, come spesso accade, vivono la paura e la voglia di tornare indietro di corsa e cancellando memoria e ragioni. Durerà poco, perché ognuno, alla fine, va dove deve andare.

Certo, nel frattempo, si sfrantacagliano le palle a me. Come se avessi equilibrio e solidità sufficiente per fare da palo per la lap dance.

E questo è un capitolo che, tutto sommato, non comporta grandi patemi o sussulti.

Ho anche visto adolescenti fragili e insicuri albergare in androidi dalle solide forme di adulti vaccinati e consapevoli. Capisco quindi, anche in questo caso, che il desiderio di frastagliare le palle a me deve essere invincibile. Devono essere calamitate. Come il miele per le api. Come se io potessi essere un fermalibro di uranio e non la carta velina che sono.

E in questo capitolo sono incastrata. Irrimediabilmente.

Incastrata negli occhi. Incastrata nei gesti. Incastrata nelle promesse. Incastrata in un gioco seduttivo che mi terrorizza e non mi diverte affatto.

Cazzo, mi divertisse, avrei materiale per anni. Perché sedurre ed essere sedotte è favoloso, di solito. E’ un momento magico e onnipotente, mi fa sentire solida e perfettamente a mio agio. So cosa fare, come farlo, quando scattare e quando svampare senza lasciare traccia che non sia la voglia di rivedermi. So vedere le mosse dell’altra, prevedere le successive e preparare la migliore faccia sorpresa che ci sia sul mercato. 45 anni serviranno pure a qualcosa. Di solito.

Per sedurre ognuno usa il talento che ha.

Tutto il mio corpo si dimena incastrato tra la sensazione di usare il mio talento e di essere usata, per il mio talento.

Niente di trascendentale. Non me la tiro fino a questo punto. Non ancora. Ognuno ha il suo: cani, porci e principesse.

Vado  rota. Mi placo. Vado a rota. Mi placo. Mi ipertendo. Mi addormento. Adrenalina. Serotonina. Vaffanculina.

Attendo i momenti. Temo i momenti. Cerco. Scappo.

Mi oppongo, Vostro Onore. Non si fa così, non è giusto. Una lesbica in solitaria va trattata con i guantini bianchi di lino, perbacco.

Mi dia altri dieci minuti, Maestà, che questa sensazione di solido contatto me la voglio sentire nelle vene ancora per un po’.

Ma insomma che cazzo vuoi?

Soprattutto, hai una vaga idea di cosa stai creando?

Immagino non ti sfiori il lobo temporale.

L’idea che io possa restare incastrata.

10 minuti 10. A far finta di esser disponibile ad altro che non sia rotolarti addosso.

Uffffff.

Dovrebbe e potrebbe essere un piacevole gioco sotto il MIO totale controllo. Gnente, te dico gnente.

Bah.

La R** dice che devo fare pace con me stessa. Me lo dice da anni. La guerra dei cent’anni. Non riconoscere le vittorie per non accettare sconfitte. Alla fine quello quell’è. 

Forse mi si fa davvero rappresentante sindacale. Forse no, dato che aspetto che scenda babbo natale dal camino e mi porti in dono la CGIL.

La volgarità degli obiettivi. La miserritudine degli obiettivi.

Alla fine anche questo, quest’è.

Io, io, io. Io.

Ti dovrò invitare a cena, uno di questi giorni, mia cara Biancaneve. Ce la giochiamo tra un primo piatto ed un dessert al cioccolato. Di certo da seduta non dovrei inciampare. E magari ne usciamo. Io ne esco, almeno.

Mi tocca fare la figa.

Dio, come mi secca.

 

Che giornata!

fatica

Soundtrack: The Kooks she moves in her own way

Post privo del benché minimo interesse collettivo e del tutto avulso dalla realtà circostante e contestuale.

Mi prima di andare a dormire ho bisogno di affermare con veemeza che il mondo è un manicomio, io sono gravemente lesionata nelle cervella e che la maggior parte della gente lo è anche peggio di me e manco se ne rende conto.

Giornata lunga come un inverno artico.

Si apre su una incazzatura cosmica per la intrinseca maleducazione dell’Amministratore Unico del mio centro che mi costringe a fare tardi ad un GLH.

GLH significa una cosa tipo “Gruppo Lavoro Handicap”, mi pare. Concretamente è un incontro tra operatori della riabilitazione e gruppo docenti di un qualche ciccio piccolo dotato di insegnante di sostegno. Interessante? sì sì, come un calcio sulle gengive.

Per fortuna era un incontro easy, di un bel ciccio grande che va una scheggia. Il quale ciccio grande è dotato di una mamma bella in modo imbarazzante. E grata in modo imbarazzante. E imbarazzante, insomma.

Almeno è un gran bel vedere.

Il resto della giornata passa a cercare un equilibrio di interazione lì dove serve e una marea di cicci piccoli che si susseguono mentre le mie funzioni cerebrali vanno spegnendosi per la stanchezza. Nemmanco mi ricordo cosa gli ho fatto fare. Il presepe credo. Ma siamo senza colla e quindi non focalizzo con cosa cazzo li ho fatti lavorare. Bah.

A fine serata, come non bastasse, in segreteria parte un delirio paranoide maniacale ossessivo persecutorio che coinvolge me.

ME.

No, dico: ME.

Ho dovuto poi, tornata a casa, mettere in piedi un teatrino via msn per chiarire le questioni.

Tutto, ma non mi coinvolgete nel deliri complottistici lavorativi. Nun c’a pozz fà.

Poi mi si è incantato il cellulare facendomi fare le figur di merd. Bah.

Finale assoluto, una conversazione stile “villa arzilla” con Alice. Ne abbiamo avute di peggio, devo dire, ma questa ha avuto un suo perché. Si comincia parlando di seduzione e interazioni femminili e si finisce a parlar di intestino.

Tipiche conversazioni tra donne, direi.

Questo è il report di oggi.

Considerazioni serissime:

  • quando il regazzino con difficoltà è bello e figo, tutti sono meglio disposti, i disturbi si lasciano nell’angolino, non sia mai si dovesse rovinare l’estetica generale;
  • noi logopediste non serviamo ad un cazzo di niente, ma possiamo tranquillamente far finta di sì;
  • mai lasciarsi fuorviare dall’immagine del prossimo. Anche dentro Golia alberga un infante fragile e bisognoso di conferme;
  • mai dire qualcosa, qualsiasi cosa, senza testimoni davanti;
  • costruire cose serve a tutti, grandi e piccini, anche i rigidoni incrollabili e gli insicuri cronici possono scoprire di avere vene creative e manualità decente;
  • mai fissarsi sul linguaggio del corpo, ha una ambiguità intrinseca e sbagli a interpretare 7 volte su dieci;
  • mai illudersi di aver preso una delle 3 giuste;
  • se avete notizia di qualche offerta pacchetto benessere estremamente economica, fatemelo sapere.

Era mia ntenzione sviscerare la questione Luxuria. Ma non sono in grado. E non posso dire mi dispiaccia.

Spero di avere argomenti più interessanti nel prossimo futuro.

Il popolo LGBTQ ringrazia

per la vittoria di Wladimir Luxuria all’isola dei famosi.

E se lo ha deciso la produzione, ci va di lusso ché è marketing assicurato.

Se davvero hanno votato gli italiani tvdipendenti, ci va bene e ci nascono un paio di riflessioni interessanti nel bene e nel male.

Ne riparleremo.

Nel frattempo e altrove, mi si sono aperti considerevoli squarci nella coltre di nebbia.

Ne riparleremo.

E’ tardi e ho sonno e domani di nuovo 9 ore. Ma, stavolta, comincio incontrando la mamma di un ciccio grande che è ‘na favola a guardarsi. Il mio ormone impazzito ringrazia.

Notte a tutti.

Record annuale.

sancarlo

Soundtrack: volevo quella del Monte Calvo di Mussorvsrfdrski, ma non me lo scarica il mulo, quindi niente.

Questa settimana sono uscita più volte di quanto io abbia fatto nell’ultimo anno. Più o meno.

Avendo a che fare con un notevole numero di persone nuove, meno nuove e storiche.

Ce soir concerto di musica classica nella chiesa di Sant’Agnese in Agone. Mozart e Brahms (l’ho scritto bene?).

Mozart è un musicista pop e Brahms è troppo per la mia anima rozza.

Ho scoperto che la musica classica non mi rilassa, mi intasa il cervello. Completamente.

Mi scuseranno R&B alle quali ho già fatto questo pezzo. Se lo rileggono e pace. Aggiungerò qualcosa che non ho detto.

Mi partono, contemporaneamente, almeno 4 fili di pensiero.

I ricordi: con la nonna al San Carlo, palco al terzo piano, di fianco al reale. Poltrone rosse. Io piccola e vestita color ruggine vergognandomi come una foca. Ma secondo la nonna così bisognava andare. Ricordo un paio di mise e arrossisco fino alle orecchie. Con la nonna che fuma nel foyer. Con la nonna in estasi per la musica e i balletti. Con la nonna di ritorno a casa. E poi da adolescente, con i miei amici, all’Auditorium della Rai a vedere i concerti della Scarlatti usando l’abbonamento dei genitori di Massimo. Da non credere ci andassimo davvero. Credo a volte anche strafatti. Chiederò per sicurezza. E i concerti di musica da camera a villa Pignatelli con la scuola, sempre ben accetti pur di non stare in classe e dove, malgrado tutto, si ascoltava in silenzio, noi branco di quindicenni vuoto a perdere. Ragion per cui i pezzi di Mozart li conosco addirittura. Stavano lì da qualche parte nella mia testa. La R* dice che è perché sono una signorina perbene. Io penso sia strano.

Le immagini: son animo rozzo, figlia dei cortometraggi animati della Disney e cresciuta con Fantasia. Ogni nota di violino fa partire un film vero e proprio. Boschi frondosi e poi salite e discese a rotta di collo, mostri tra gli alberi scuri e poi radure aperte e luminose, sole che sorge trionfante, vento e uccellini che cinguettano. Sentieri che si perdono e falesie sulle valli. Un acido, in pratica.

La musica: “ommioddio queste note stanno tali e quali in un pezzo che conosco… cazzo qual è? cazzo cazzo. Sarà mica C’era una volta in America? aspè, questo qui l’ha preso qualcuno italiano negli anni 80. Mavà che pare un pezzo dei Queen”. In un loop infinito tipo cassetta autoreverse.

I pensieri: ché stasera sono stata a fare aperitivo con lei-la ex. Immagino che si incazzerà come una biscia a leggerlo sul blog. That’s life… my life, per la precisione. Sotto la viola ed i violini del quartetto di bravi musicisti di musica da camera, il mio pensiero si avvolgeva sulla consapevolezza che, se stiamo ancora ad aspettare che l’altra ammetta ufficialmente di aver sbagliato, siamo ai piedi di Pilato. Ma magari da qualche parte si deve iniziare, chissà. E gli errori son materiale umano. Ci vorrebbe quel colpo di reni che permetta, con serenità, di dire che sì, qualcosina poteva andare diversamente e che sì, è comprensibile la reazione dell’altra (che poi sarebbe la mia, obviously) e che si può passare oltre.

Quindi i ricordi entrano nel film di cenerentola che ha una sua personalissima colonna sonora mentre penso ad altro. Ad un certo punto mi viene il nervoso. Chiamerei un vigile. Un ingorgo pazzesco e tutto vira in un delirio lisergico tipo: la mia ex sul Monte Calvo mentre mia nonna la tira per le orecchie per portarla a vedere il concerto degli Emerson Lake and Palmer. Tiè. Fumiamoci una sigaretta và.

Nel frattempo la R* smanettava sull’iphone per vedere dove eravamo, chi è Santa Agnese (che è stata parecchio sfigatella, pora), quanti gradi ci sono e se il pavimento è orizzontale.

Ma che post pieno di link culturali, sembra quasi vero.

Concludendo, che domani mi sveglio all’alba e ho 9 fottutissime ore di lavoro che cominciano con un incontro scolastico per un ciccio piccolo per il quale sono in completo burn out, mi sono offerta di fare un servigio alla Alice. Ho insistito, l’ho pure mandata affanculo perché non voleva farmelo fare e, naturalmente, non l’ho fatto.

Et voilà: Penelopé.

 

Bukowski, passato e stranezze.

buk1

Soundtrack: Iggy Pop Lust for life

Doveva partire in un modo, questo post, ma un paio di cosette mi hanno fatto incazzare “all’ultimo a tutto” e non so come andrà.

Giornata particolarmente strana, oggi. 24 ore di eventi minuscoli ma corposi. Piccole cose dall’alto peso atomico. All together.

Forse è arrivato il momento delle spiegazioni, semplicemente. Forse no. Forse è nello scorrere delle cose. Forse no.

Stasera spettacolo di Alice: “Mai leggere Bukowski sobri” alla Locanda Atlantide. Non certo il posto migliore per metter su una cosa teatrale, ma è andata favolosamente bene.

Alice è molto brava. E questo basti.

Non sentivo parlare di Bukowski dai miei vent’anni. All’epoca lessi tutto quello che aveva scritto. Credo di avere anche una versione delle poesie con testo originale a fronte (negli scatoloni, ancora) perché pensavo che fosse importante leggere le cose come le scriveva lui e non tradotte.

Era un mito. Adolescenziale. Il mito dello scasso e dell’autocentramento assoluto. Il mito del “fanculo faccio il cazzo che mi pare”. Il mito di chi può dialogare e patteggiare con la morte.

In fondo era uno scrittore, uno che sapeva solo scrivere, non vivere. Per quanto abbia fatto e visto, per quanto estreme siano state le direttive/direzioni della sua vita, penso non sapesse fare di meglio che scriverne e che passasse il tempo a codificare le sue ore per farne pagine. Peraltro egregiamente. Ma questa non è una recensione né un’analisi della vita di Charles Bukowski.

Riascoltare le sue poesie non mi ha riportato indietro. Mi ha fatto guardare chi sono ora.

Poco da dire, di fatto sono quello che volevo essere, faccio quello che voglio fare, evito quello che voglio evitare e scrivo. Ma non sono una scrittrice maledetta. Non sono una scrittrice, di base.

Questo è il punto che mi manca. Il resto è come lo volevo, a ben guardare.

Perché conta molto poco il contesto, conta l’essenza. Il contesto ha sempre un che di casuale, fortunoso, incontrollabile. Ed identificarsi con il contesto è una aberrazione.

Strano discorso, nevvero?

Ho difficoltà a capire il peso che ho avuto nella vita di alcune persone. Anche di quelle che ho vissuto poco. Non riesco a comprendere quanto ho lasciato o modificato o rotto.

Non ci resta che aggiustare i momenti rotti. Dice Charles.

Posso capirne alcuni, di questi momenti rotti, di altri proprio non ne vedo i contorni.

Posso capire di essere stata importante nella vita di una persona che ho vissuto per anni e con la quale ho condiviso quasi tutti gli angoli di me, quanto questa persona può essere stata importante per me. So che, prima o poi, bisogna riguardarsi in faccia e dirsi qualcosa che non sia mai stato detto, qualcosa che restituisca le giuste dimensioni, scendere ad un paio di compromessi che, in fondo, non costano più tanto e realizzare, fino in fondo, che la condivisione è una dimensione che non evapora, non scompare e non si volatilizza. Banalmente si trasforma. Ad un certo punto.

Capisco meno il peso che mi si può assegnare in storie volatili e senza trama. Mi stupisco di annusare tracce di me dove non ci dovrebbe essere che aria e vento. Non ho dato tanto, non ho avuto tanto. Non c’è granché da ricordare.

Abdico volentieri. Non me lo sento addosso neanche un po’ il ruolo della pietra miliare. Non me lo sento e non ce l’ho. E questo vale, fondamentalmente, in entrambi i casi.

Le giornate sono fatte di molte cose, persone, accadimenti, dettagli, incontri, gratta e vinci, contrattempi e risate. L’ombra di qualcuno deve, necessariamente, perdersi nelle pieghe di queste mille cose.

Mantenere il faro puntato per non perdere l’ombra, non è un bene, è una follia.

Buonanotte a tutti e un abbraccio ad Alice che, in un pezzo dello spettacolo, mi ha fatto commuovere (certo dopo 5 minuti, il pezzo era finito e stavano facendo tutt’altro, ma io so’ leeeeentaaaaa).

Fa nu cazz’ ‘e fridd’.

 

 

Niente di importante

lettovuoto

Soundtrack: Cinematic orchestraall that you give

Davvero nulla.

Una mattinata faticosa per troppo sonno. Dormire un’ora sul lettino della stanza degli specialisti. Svegliarsi e pensare che non è lì che si vorrebbe stare. Festicciuola di saluto alla NPI che va via, verso lidi migliori e più convenienti. Rientro di una pallina da flipper che adoro ma penso stia meglio a casa sua che nella mia stanza di terapia.

Pomeriggio perso alla Agos a parlare con un demente assoluto nordico che continuava a non capire cosa gli stessi dicendo.

Che era “Nun te pozz’ pagà”.

Non mi sembrava complicato. E mi pare fosse pure un problema suo.

Scopro anche, riguardando le cartuscelle, che mi vogliono solare 1500 euro quelli della concessionaria.

Via.

Tutto di nuovo in discussione.

Ripartiamo. Dalle noci. 40 ne avrò mangiate.

Però ieri sera bella cena con la mia algida e sapiente cugina e la sua scattante e smartissima figlia.

Sto troppo da sola. Voglio stare troppo da sola.

Scrivo con Penny sul polso, fb aperto e due conversazioni su msn.

Il mio mondo è fatto di parole scritte e orecchie pelose. Pare io non voglia altro.

Pare io non veda altro.

Pare io non sappia relazionarmi in altro modo.

Ho sonno. Non voglio andare a dormire. Ho sonno. Non voglio andare a dormire.

Sto tornando in quel barattolo arrabbiato e sfuggente. Sto rientrando nella caverna sulla montagna. Per andare in letargo. Per placare la sete.

No, che palle, stasera non mi posso leggere. Mi do fastidio.

 

Il gorgo delle rate.

la mia getz

Soundtrack: Tracy Chapman Fast Car (guarda tu che ho tirato fuori dal cascione)

Mi compro la macchina nuova. Come può essere possibile questo? Perché mi conviene di più comprare una macchina nuova che pagare la vecchia. Sono entrata nel gorgo delle rate. Non ne uscirò viva, ma tanto sticazzi, non potranno rivalersi su nessuno. Quindi, a due anni dall’acquisto di una diesel 1500, vado su una doppia alimentazione 1200. Il debito aumenta ma le rate si abbassano secondo un principio a me incomprensibile ma assolutamente ovvio e palese per i rivenditori di denaro. Ne sono terrorizzata, ma pare io non abbia alternative. Sarà gialla. Sappiatelo. Almeno così ho deciso per ora. Mi sento un italiano medio. Sono un italiano medio. Ovvero faccio cose che non mi posso permettere perché non mi posso permettere di non farlo. Chi ha inventato questo sistema?

Vabbè, basta, che noia.

Sono un’orsa, non necessariamente maggiore. Di sicuro un’orsa di montagna. Sono pure contenta faccia freddo. Lo aspettavo. Sono perplessa. Di me, delle cose che mi accadono intorno. Sono ricaduta nel gorgo degli sguardi solidi. Non dovevo. Mangerei thai tutti i giorni. Non ho molto da raccontare, quissù sulla montagna succedono poche cose, il letargo avanza, la neve copre l’ingresso della caverna. Mi appallottolo al caldo e aspetto che passi. Ringrazio la rabbia feroce che mi governa, se non fosse per lei sarei una depressa patologica.

La R* è arrabbiata con me, dice che la trascuro. Non è vero, sono solo un po’ assente. La Alice dice che dovrei passare oltre (più o meno), oltre mio padre e la sua rapitudine, oltre le etero adolescenziali, oltre l’immagine, la F** dice che dovrei avere meno paura (all’incirca) e meno maniacalità nel giudizio. Ci proverò.

Ieri sera ho visto la bimba di F**. La lottatrice di Sumo… sorride, mangia e dorme e non vuole sapere niente di niente. Bella ciccia, sole e vita. La mamma è affaticata ma combattiva. Deve essere bello. E anche spaventoso. Stasera cena thai con R** e MTV. Adesso so un sacco di cose di politica nazionale e internazionale delle quali non avevo la più pallida, considerando che non vedo un telegiornale da mesi. Domani cena familiare. Tre uscite in una settimana. Record assoluto. Devo fare un sacco di telefonate.

Certo che pur di scrivere, stasera, potrei digitare la nota della spesa. Si evince? Si evince.

Quando faccio così vuol dire che ho in corpo qualcosa e non riesco a dirlo.

E davvero non lo so.

Vorrei essere in riva al mare. Carica di sciarpa, cappello e guanti a guardare le onde grigio antracite. Vorrei sentire il vento freddo tra le guance e gli occhi. Vorrei un braccio sulla spalla a farmi calore. Vorrei intravedere la luna tra le nuvole nere. Vorrei essere libera. Vorrei essere vera.

Questo è il periodo del vorrei. Bisognerebbe passare al presente indicativo. Al massimo l’imperfetto. Non è che sia molto facile da spiegare il brodo primordiale che mi si agita dentro.

Ho sognato acqua e sangue. Non sogno mai, io. Sangue che non riuscivo a contenere e che non ammettevo esistesse e acque di un fiumiciattolo in movimento. Un fiumiciattolo con una riva sola. Fiumiciattolo disabile.

Ho un sonno che mi si porta via. Vorrei (vorrei) evitare di cadere di nuovo. Vorrei (vorrei) vedere lo sgambetto quando arriva ed evitarlo.

Buonanotte, gente paziente.

 

 

 

Oggi

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Soundtrack: Orchestra Baobab – Come Alive (non è vero, non c’è, il box oggi fa i capricci e forse è meglio)

Volevo mettere una foto del presepone, ma non mi funziona la porta ad infrarossi e del bluetooth si è persa ogni traccia.

Volevo ringraziare Imogene, dato che dal suo link sono arrivate badilate di lesbiche svizzere.

Volevo scusarmi per il mio maleducato comportamento su msn. Che cazzo mi ci metto a fare se poi non rispondo a nessuno, non lo so neanche io.

Volevo avvertire che se domani si fa la cena mi metto un paio di stivali con tacco 7 a spillo e il vestitino.

Volevo dire che essere d’esempio mi fa impressione. Se fosse davvero così, stamm’ ‘nguaiat’.

Volevo suggerire a me stessa che forse soffro di una forma blanda di attacchi di ansia. Verificherò.

Volevo sottolineare che Feisbùk e i suoi giochini della minchia mi hanno completamente e definitivamente catturato.

Volevo dire al fab che mi manca, al doc che mi manca, a ziasaimon che mi manca.

Volevo dire pure che andare a lavorare mi sfracella le palle anche oggi (maddai?), però almeno c’è il presepe da fare, ma quest’anno ho meno idee del solito.

Voloevo dire che mi cambio la macchina, dato che in questo paradossale paese, se non hai una lira, ti conviene di più avere una macchina nuova che continuare a pagare la vecchia.

Volevo fare in modo che il post precedente scendesse più sotto e quindi ho scritto questo.

 

 

La definizione di una lesbica.

strakerfoster

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Soundtrack: Terra Naomi Up here

Prima dei 12 anni ricordo poco e male. Succedevano cose, mi attaccavo a persone ma non avevo idea di cosa fosse se non, a tratti e da un certo punto in poi, la sensazione di avere un disperato bisogno di interagire con le donne. Pensavo fosse una questione di orfanitudine.

A 12 anni ho dovuto scegliere. Fuori dal cortile della mia scuola media, guardavo delle figurine. Allarme rosso attacco alla terra. Tutte le mia compagne avevano una passione per uno dei due protagonisti: Straker (il biondo) o Foster (il moretto).

Non me ne poteva fregà de meno. Ma decisi che dovevo farmene piacere uno, non era normale che non mi interessassero.

Non ricordo chi ho scelto, ma ho attaccato la sua figurina sul diario. Ecco qua, così va tutto bene.

Lo avevo dentro, il senso di anormalità e diversità, lo avevo dentro così forte e così netto che ci ho fatto la guerra per vent’anni.

Uomini tanti, che non si dicesse che non ero interessata all’articolo. Tutti quelli che volevano me. Ché io non volevo nessuno.

I primi brividi ghiacciati veri a 17 anni. Insieme alle droghe, al sesso e all’alcool, anche le donne. Tante. Adulte e ragazze. Belle. Guardare e non toccare e cerca di non farti sgamare. Magari solo un po’.

Avevo un fratellastro che si presentava a casa periodicamente fidanzato con dei pezzi di figliuola da svenimento. Soffrivo e sbavavo. Poi uscivo. E scopavo, Con uomini. Perché non sia mai detto che…

Ma il mio fidanzato di allora (un biondino adorabile col mio stesso nome, amato da amici e parenti) se ne accorse. E si incazzò. E io non sapevo cosa dirgli. Volevo morire se possibile. In alternativa sprofondare. Eventualmente svaporare.

Ma io ancora non volevo dirmelo. A nessun costo. Non quella parola. Non una cosa tanto strana e anormale. Non una malattia come quella. Poco importa se sospetto che la maggior parte dei miei amici sia come me. Poco importa perché non si fa. Non si deve. Non si può.

Eppure non vengo da una famiglia cattolica, nè una famiglia moralista (no, moralista proprio no), non ho avuto un’educazione improntata alla morale comune, non ce lo potevamo permettere.

Ma mio padre ci teneva alla figlia femminuccia, la voleva la biondina magrolina educatina e ben vestita. Anche se mi lasciava guidare la barca, la macchina, se mi chiedeva di risolvere i problemi pratici e meccanici. E la moglie aveva un intercalare fisso “due categorie di femmine mi fanno schifo: le ragazzine incinta e le lesbiche”.

Inutile dire che sono stata entrambe.

Arrivata a vent’anni la guerra era del tutto consapevole. L’avevo in fronte e tra le mani. Non ne uscivo. Dagli amori folli e forsennati. Dalle figure di merda. Dalla morbosità irrefrenabile, dal bisogno costante di frequentare, vivere e sentire le donne e la loro voce.

Bastava pochissimo per farmi innamorare perdutamente e farmi passare notti su notti sudando e piangendo.

Sudando d’amore  e piangendo di paura.

Terrore.

A chi lo dico? si guarisce? è normale? mi schiferanno tutti. Nessuno vorrà avere a che fare con me. Mi cacceranno di casa. Non lo posso dire. Non lo posso fare.

Picchi di delirio intervallati da sospiri e sogni di possesso.

Talmente tanto e talmente forte che in analisi ci sono dovuta andare per forza. Ma questo è successo dopo.

Nemmeno con il fab riuscivo a condividere “questa cosa”. Nemmeno con lui, che pure ha regalato due anni di pace ad un cranio frullato e shakerato.

Ma dopo di lui le dighe si sono aperte. Non c’era modo per fermare pensieri e necessità. Non c’era modo di fare finta, non c’era modo di coprire le tracce, non c’era modo più di restare nel mondo dei normali.

Dio la paura che avevo. Non so neanche più di cosa. E’ talmente difficile ricordarlo ora, che mi sembra non sia mai accaduto.

Invece ci vivevo immersa dentro e senza riuscire a respirare. Fino a sviluppare ogni possibile sintomo visibile o invisibile. Fino alle allucinazioni (che l’abuso di droghe e alcool sostenevano ‘na favola).

I primi due anni, al corso di logopedia, credevo sarei impazzita.

Solo donne. Mi sono innamorata di tutte loro. Una dopo l’altra. Perdutamente. Inutilmente.

Ho “confessato” il mio amore assoluto praticamente ad ognuna di loro. Sono ben felice di avere dimenticato quasi del tutto le conseguenze delle mie dichiarazioni. Quasi, non del tutto. Ero pressante, maniacale, testarda e ottusa. Vedevo segni dove non ce n’erano (questo mi ricorda qualcosa di fin troppo recente) e mi incaponivo fino a farmi sanguinare cuore e cervello.

Poi una  di loro si è innamorata di me.

Uh? ma davvero? quindi non è una cosa che si svolge solo su me e intorno a me e per me. Succede a qualcuna che non sia io. Succede e adesso che si fa?

Ci si mette in piedi una relazione folle durata 6 anni credo, in un delirio di simbiosi, tradimenti con uomini e donne, maniacalità patologiche. Non importa se mi piace o non mi piace o quanto mi piace o quanto ci voglio stare. Diventerà acqua e pane, ossigeno e cemento, benzina e riposo. Diventerà tutta la mia vita.

E l’analisi. Per guarire da me. Per guarire da lei.

Freudiana. Trisettimanale. 6 anni interrotti all’inizio da una disperata fuga a Washington.

Ma non bastava l’oceano. Ero con me lì. a Bethesda. Niente era diverso e il dolore era devastante.

20 chili di burro di arachidi e maionese all’aroma di cipolla in 6 mesi. Su tutto il corpo, anche sulle orecchie credo.

La parola “Lesbica” non mi esce di bocca neanche sotto tortura. “Omosessuale” è un suono indistinto pronunciato a labbra strette. Non sono io. Non si parla di me. Per me è diverso cazzo.

E’ che ho bisogno di riferimenti femminili, io. Poi passa, appena cresco. Non sarà così per sempre.

Non mi accorgo che nessuno dei miei amici o dei miei parenti si sogna neanche lontanamente di schifarmi. Non conta. Mi schifo io.

SI torna in analisi. Si cresce. Si impara. Ma ancora non basta.

Intorno ai 30 anni il fab mi porta a conoscere il mondo gay partenopeo.

Esiste? esistono luoghi dove si riuniscono persone come me? come te? come noi che non sappiamo neanche dire cosa siamo?

Fino ad allora le mie storie le avevo avute, tutte intorno allo stesso filo. La base dei quattro cantoni, appunto.

Comincia la mia gaia vita e finisce l’analisi. Spariscono persone che, incolpevoli, mi avevano aiutato a massacrarmi l’esistenza. Diminuiscono le domande imbarazzanti (quando ti sposi? ma con chi stai?) e io imparo a mentire fin troppo. L’inutile schermo. La fatica della bugia non richiesta. Il bisogno di sentirmi dire “sarà che non ho ancora trovato quello giusto”. Continuare a trovare scuse e montare cosmiche puttanate a mio padre che diceva “porta anche lei”.

Omygod quanta energia sprecata. Quanto dolore inutile e improduttivo, quanta sofferenza autoprocurata nel nome di niente.

Ma non se ne può fare a meno, pare.

La bocca mi si comincia a sciogliere dopo i 30 anni. Amici gay, vita gay e famiglia lontana lentamente decimata.

Più nessuno da turlupinare.

E un amore grande, sereno, profondo, reale e pieno di sole. La sua famiglia compresa.

Se ne può cominciare a parlare.

Lentamente i ghiacci si sciolgono, gli anni passano e le cose scorrono, sempre più libere e serene.

A prescindere.

La mia famiglia se ne fotte allegramente, avrei potuto essere un tapiro, mi tollererebbero lo stesso.

Mia sorella Albus Silente sempre e comunque al fianco.

Mia nipote che si gioca la carta della zia lesbica con le amiche e fa la figa.

Mio padre che parlando con la mia ex e la prendeva in giro perché usava la pillola.

Mia zia che, al suo settantesimo compleanno, mi presenta a parenti centenari mai visti prima dicendo: “Questa è Penelope e questa è la sua compagnA!” (naturalmente mi sono nascosta in bagno per 20 minuti, poi mi sono resa conto che poco prima era entrato mio padre con la terza moglie, mia coetanea, e ho deciso che non era il caso di formalizzarsi).

Gli amici ricchioni e quelli no, che è lo stesso le amiche lesbiche e quelle etero, che non c’è gran differenza.

Le/i colleghe/i con le/i quali condividere e giocare.

Le battute, la solidarietà, l’affetto, il sostegno, le lezioni di sesso e lesbicitudine, le confidenze, l’ascolto, il cambiamento delle persone. Il mio cambiamento.

Il mio blog.

La mia vita.

La vita di una lesbica qualsiasi. Di una persona qualsiasi.

Quanto cazzo c’è voluto per arrivare a questo e quanto cazzo non ce ne era bisogno.

Penelope

pensa che sia arrivato il momento di parlare di come si arriva a definirsi “lesbica”.

Perché dietro tutti i commenti, il nodo è questo.

Lavo cesso, stiro panni, scrivo una cosa e poi mi dedico.

SUSPANCE.

Etero & Lesbiche

zoccoli

Soundtrack: Paola Cortellesi & Wooden Chicks ft Frankie HINRG – Non Mi Chiedermi

Non mi pare ne abbiamo mai accennato. Eppure è argomento di un certo spessore. perché sempre di donne parliamo e quando parliamo di donne dobbiamo necessariamente e consapevolmente comprendere una infinita serie di sottocategorie note ai più: zoccole, troioni, gatte morte, fiche di legno, profumiere… ed altre ancora.

E lo dico con tutto l’affetto e l’ammirazione che posso nutrire per le donne nelle loro multiformi livree.

Le amo anche per questo, sia chiaro.

I lunghi anni di militanza lesbica mi hanno insegnato alcune piccole cose da trasformare in regole necessarie per la sopravvivenza emotiva. Ne ho quattro.

Una è: mai e dico mai, interessarsi ad una etero. E’ questione di salute mentale. E’ una cosa che può distruggere la fragile psiche di una lesbica per quanto di lungo corso essa possa essere.

Quando una etero incontra una lesbica e capisce che codella è lesbica (e questo può accadere in un nanosecondo o in un’era geologica, dipende da vari fattori) scattano meccanismi da twilight zone.

La più controllata ed equilibrata delle etero può trasformarsi in un trojone alfa che se si rapportasse così ad un portatore sano di pene sarebbe considerata la sorella gemella disinibita di Jessica Rizzo.

Si può non crederci, mi rendo conto, potrebbe apparire eccessivo e romanzato, si potrebbe pensare che la volpe, stabilito che all’uva non ci arriva, risolve dandole della zoccola (all’uva).

Ma non è assolutamente così e, soprattutto, io adoro codesto comportamento (almeno quando sono nella fase bipolare ++).

Io lo vedo e mi sembra, ogni volta, un film.

Perchè alle Donne piace giocare, ma alle Donne non piacciono i giochi pericolosi. La seduzione è un gioco piacevolissimo. Ma anche pericoloso. Quando l’interlocutore è armato o troppo forte o troppo rozzo o troppo stupido, la seduzione diventa un pericolo quasi fisico. Senza contare che una etero ragiona secondo il principio che un “altro” uomo potrebbe seriamente mettere in pericolo il proprio standard di vita (matrimonio, coppia, persino il lavoro), mentre un’altra donna…

Cosa potrebbe mai mettere in pericolo un’altra donna? Se sei etero ti potresti innamorare di un uomo, ma di una donna… è ovviamente impossibile… solo curiosità… ma si gioca e basta…

Ovviamente, parte integrante del gioco della etero, è la consapevolezza che la lesbica, in quanto donna, sarà in grado di riconoscere ogni singolo segnale di troiosa seduzione strutturato su caratteristiche ricettive maschili, che ne resterà sopraffatta (perché noi donne non smetteremo mai di pensare che “la” concediamo e che quando “la” concediamo è un dono raro e ineguagliabile da accogliere con umiltà e tripudio), che il tutto può essere interrotto a piacimento in qualunque istante e a qualunque punto sia arrivato e che, se poi alla fine qualcosa ci esce, cosa sarà mai?

Dentro di sé, intanto, la lesbica resta basita. Le sfumature del basimento variano a seconda della esperienza maturata e del grado di autostima. La lesbica inizialmente osserva e pensa: “ma chest’ che cazz’ vuò?”, poi pensa: “ma ce l’ha con me?” poi si guarda intorno per vedere chi potrebbe essere il destinatario dello show, poi capisce (leeeentaaaa) e cede un po’. Ma anche no. A volte cede pure come una banana e da i numeri. Ma la lesbica ha poco da perdere, questo le etero non lo sanno. La lesbica ha l’imprinting della delusione amorosa e dei sensi. Anni e anni di palestra. Cuore forte e spalle potenti. Si lamenterà per un po’, poi passerà oltre a fare quello che ha sempre fatto.

Non so, in verità, come funziona per le etero, non so cosa si raccontano e come ricominciano a fare quello che erano abituate a fare.

Le donne che seducono altre donne sono una meraviglia e una forza della natura. Sono vene scoperte e pelle elettrificata, sono temerarie come tuffatori di Acapulco e spaventate come maruzze. Hanno sguardi e luminosità che agli uomini non sono concesse, hanno libertà e ironia, hanno paura di esserne catturate e non del contrario. Si fidano, le donne che seducono altre donne. Si scoprono. Fantastico.

Se una etero va a letto con una lesbica, di norma non lo dimentica più. Perché è diverso, Perché è forte, perché naturale, morbido e incredibilmente soddisfacente.

Se una lesbica va a letto con una etero, può dimenticarsene tra i capelli e le guance di altre decine di capelli e guance altrettanto lisce e cotonose.

insomma, che non si pensi che questo sia un post personale, ché ogni riferimento a fatti e persone realmente accaduti è puramente casuale.

Poi però succedono cose, metti ad esempio la mia ex, zoccolosamente abbordata in pubblico (=me, N.d.T.) da una etero che è poi diventata la sua amante ed ora la sua fidanzata…

Ehhh bè. Capita.

Di risvegli, lavoro e amici vicini e lontani.

risvegli

Soundtrack: Sylvie Vartan Zum zum zum

1 – Risvegli.

La nana si destò. Dormiva da seimila anni, mi sembra. E sognava di altri mondi paralleli dove accadevano cose e si poteva lusingare tutta quanta. La nana, al risveglio, ci ha messo un pochetto a realizzare che era uscita dal coma. Se l’è cantata e se l’è suonata per qualche tempo, subito prima del caffè. Poi ha dovuto aprire la finestra e fottersi. Sveglia sei e sveglia resterai. Vai a costruire seduzioni altrove, che qui ‘un c’è trippa pè gatti.

Sopravviveremo, si disse la nana. Un po’ mesta e un po’ consapevole che quando si desidera qualcosa e questo qualcosa non avviene, con un po’ di talento e qualche pezzo di carta e ferro, si può far finta che sia avvenuto.

O’ munn’ è come t’o fai ‘n capa (=il mondo è come te lo costruisci nella tua testa, N.d.T.). Come prova una famosa conversazione avvenuta più di una decade fa tra me e la mia amica Gabriella:

“Penelope, ho capito che A* mi ama!”

“E come lo hai capito, Gabriè?”

“Perché mentre baciava R**, mi guardava”.

Detto questo, stasera ci ho un poco le pive nel sacco, malgrado i maldestri tentativi di rassicurazione della Alice. Rien a faire. S’è fatto finta. Vabbè, format c:.

2 – Lavoro.

Giornata fantastica, under questo aspetto. Un tripudio di successi personali e collettivi. Un trionfo.

Absolutely.

Un ciccio piccolo comportamentale, riportato nei parametri di una modalità socialmente accettabile in meno di un anno, è un risultato più che gradevole. Manco a dire che non c’entro un cazzo, as usual. Come al solito si trattava di ascoltare, mettere paletti e dare fiducia. Nè più, né meno. Poco impegno, gran risultato da ascrivere a chi ve pare, quindi perché non a me? Rimane il problema della mamma che, come spesso accade, a veder il figliuolo cambiare, entra in paranoia, manco lo preferisse ingestibile e ciuccio. Ma si risolverà anche questo. La superlogopedista e la superequipe son qui per questo…

Poi un bel colloquio con genitori sfranti. Bello non di per sé, ma di per me. Quando mi sento sicura di quello che faccio e mi pare di avere in mano il mitologico polso della situazione, gli è una bella soddisfazione. Quando poi mi accorgo che i genitori hanno talmente intrioettato la figura della logopedista/signorina Rottenmeir, da vedersela davanti quando fanno qualcosa che non dovrebbero fare, è la vera onnipotenza: “IO… SONO… LA… LUCE!”. Per quanto anche questo potrebbe rientrare nel capitolo “risvegli” perché, e non poche volte, son convinta di dire le cose giuste e di aver centrato la questione mentre, nella realtà del mondo quotidiano, ho combinato un casino che la metà basta. Questo è il rischio, non si può avere tutto e, d’altra parte, questa volta mi pare di averla sfangata. Si vedrà.

Nel frattempo, il presepe di quest’anno è monumentale.

3 – Amici vicini.

Che io adoro, dei quali parlo e riparlo più che spesso. Devo supporre siano stati così gentili da entrare nel mio coma e sostenere la realtà parallela con affetto e fiducia illimitata. Ringrazio tutti, devo dire. Rassicura sapere che qualsiasi puttanata dico, mi credete, mia cara Alice&V**, mia cara R**, mio caro Fab2 e mia cara sorella adriatica. Abbiate la pazienza di darmi meno credito in futuro, bisogna pur tener conto delle salienti caratteristiche della mia personalità border line. Ma meno male che ci siete, sennò sarebbe una vita agra e sereticcia (=generalmente riferito al cibo, sta per stantia, secca N.d.T.), priva di sfumature e di fantasia.

4 – Amici lontani.

Il fab mi manca assaje assaje. Mi manca il suo sguardo impietoso, la sua cronica inabilità al gesto d’affetto limpido, la sua capacità di versarti addosso la verità delle cose con la rabbia dell’impotenza. Mi mancano le manone rassicuranti e il suo over-narcisismo che mi fa sentire a casa. Mi manca la sua tempistica, i suoi occhi preoccupati, il sorriso da gatto del Cheshire. Mi manca il suo sgamarmi, il mio sgamarlo. E le schermaglie dialettiche stremanti che perdo sempre (ché non c’è storia e chi lo conosce lo sa). Mi manca anche il suo digrignare i denti quando gli prendono i moti d’affetto e le domande inutili e inverosimili che tira fuori quando non ha voglia di parlare o quando vuole che TU dica qualcosa di preciso e insindacabilmente deciso da lui. Infine mi manca il suo cervello sguarrato (=aperto fino all’inverosimile, slabbrato, N.d.T.) e la sua presenza bionda.

Non te lo aspettavi eh?

Mostro.

Per quanto attiene a Biancaneve, resta inteso che la mia disponibilità è assolutamente invariata. Non sia mai detto che una gentillesbica come me venga meno ad eventuali, reconditi, sogni comatosi.

 

Aggiungo, infine, che ho declinato la richiesta di amicizia su facebook fattami dall’Amministratore Unico del centro per il quale lavoro, inviandoGli una mail che sì recitava (+ o -, mi so’ scordata):

Ciao °°°, niente di personale, ti assicuro, ma avere il mio capo tra gli amici di facebook mi fa un poco impressione e mi fa anche sentire un po’ limitata. Ti assicuro che non appena non sarai più il mio capo (cosa alquanto probabile, mi sembra), ti verrò a cercare.

Spero di non avergliela mandata proprio così, che mi pare una minaccia. Aspè che controllo. Ah no, ecco: “Quando non sarai più il mio capo (cosa che non mi pare improbabile), prometto che ti contatterò”. Era così. Suona meglio.

Staremo a vedere.

grilloparlante

Soundtrack:Charlotte Martin – Haunted (tutto ve lo metto, tutto l’album)

Mannò, che vedere? devi fare.

No no, io sto a vedere.

Dato che quello che vedo non torna, io mi siedo un po’.

Ma che altro dovrebbe accadere?

Che cazzo ne so. Mica pizze e fichi, qua.

Ho un grillo parlante in testa che borbotta come una pentola di fascioli.

Il grillo sostiene che non è tutto oro quello che luccica, che ogni cosa potrebbe essere il suo contrario e che la prudenza è d’obbligo.

Che palle ‘sto grillo.

 

Macchespiritosoni

che ho qui sul mio blog…

Sono al lavoro, ora buca, ciccio piccolo mancante.

Sono senza PC, divorato sotto i miei occhi impotenti da ‘na trojan.

Forse stasera, forse domani. Vedremo.

Avrei da raccontare le storie dell’impossibile.

Peraltro comincio a sospettare alleanze inusitate.

Ma di questo non parleremo affatto.

Aaabbbelliiii.

Qui sono partiti i lavori del presepe.

Ieri Calcata con il Fab2. Splendida giornata.

In generale un we passato dormendo per placare la sindrome da astinenza del Pc. Avrò sommato una trentina di ore di sonno.

Il futuro appare roseo. Ma anche no. Vedremo.

Buona settimana a tutti voi e anche a tutti essi.

 

Per fortuna crescono malgrado noi.

sogni

Soundtrack: Emiliana Torrini Baby blue

Fa freddo stasera. finalmente.

Oggi brutta storia al lavoro. Brutta.

Di quelle che non voglio sentire. Di quelle mi danno la misura della mia inutilità.

Brutta da far accartocciare il cervello e la pancia.

E non ci posso fare un cazzo di niente. Nemmeno arrabbiarmi.

Con chi poi? con qualcuno che ha avuto quella stessa età e quella stessa faccia e ha visto e vissuto e sentito le stesse cose. E su, sempre più su, fino alle palle di Abramo.

Che ne doveva avere tre di palle, Abramo. Una era marcia da far schifo.

Ma non conta mai quanto schifo fai. Regola vuole che i figli li puoi fare comunque. La regina Elisabetta o Marylin Manson che tu sia.

E quando vedi che chiedono aiuto, al modo dei bambini. Che è un disegno o una pipì addosso, una storia inventata o pupazzi che si muovono, a me viene da incrociare le braccia, accavallare le gambe e pensare “io non ho niente per proteggerlo, io non ho la risposta, io non ho la soluzione, io non ho un cazzo di un cazzo” e lo sguardo mi si abbassa.

La lancia in resta si è arrugginita da tempo e il cavallo bianco credo sia morto a furia di prendere capate contro al muro.

E poi loro crescono lo stesso. Con il loro baule puzzolente tra capo e collo. Aspettando di poterlo rovesciare sulla nuca di un altro bambino uguale.

In questi momenti vorrei essere più giovane e candeggiata nel cervello.

Non ricordo epoche nelle quali non siano stati i bambini a pagare. Pagare qualunque cosa. Qualunque.

E mi fa tristezza la mia rassegnazione. Ma tant’è, si farà quel che si può.

Poi per fortuna la serata vira verso i colori e vedo mia nipote.

Luce dei miei occhi.

Lei che riesce a crescere e a camminare malgrado una famiglia che un punto fermo non le ha dato mai. Una certezza, un posto solido dove fermarsi, ruoli definiti, standard e medie nazionali. E per colpa di nessuno. Per responsabilità di tutti.  E’ il nostro marchio di riconoscimento, il motto del nostro stendardo. Ogni famiglia ha il suo, il mio dice: “Cazzi tuoi se ce la fai” e senza cattiveria, giuro.

Non che la mia sia una famiglia peggiore di altre, ma è un’onda del mare. In un perenne movimento ondulatorio senza meta né fine. Siamo la quintessenza della libera navigazione a vista. Senza veder terra mai. Andare perché non si può evitare. Il dove è secondario, ché posto sicuro al mondo non esiste, almeno la barca finché regge è una certezza.

E lei, malgrado noi, è in piedi a fare quello che ha voglia di fare. A progettare. A costruire. Con i piedi piantati sulla riva e le spalle al mare.

Malgrado noi.

Grazie nipotazza, mi ripulisci il cervello.

Passiamo ad altro che è tardi e casco dal sonno e mi devo svegliare all’alba.

Penelope intanto sogna sguardi ad alta percentuale di interpretazione. Niente saluti perché il tempo vuoto è stato pieno. Dello stesso pensiero. Ritrovarsi come niente fosse e sorridere tra gli occhi e la fronte e non nella bocca. Contemporaneamente. Le invenzioni di Penelope. Ma mi leggi Biancaneve? Hai un idea dei livelli di sputtanamento della nana Penelopele qui presente? Hai idea di chi sto parlando? Non ho modo di saperlo, forse è meglio non saperlo affatto.

 

Post notturno.

lookin' @me

Soundrack: Charlotte Martin – Steel (che tanto vi tocca tutto l’album, sono addicted)

E’ tardi.

Mi sono fermata sotto al mio palazzone postfascista, stanotte. A fumare.

Facendomi un po’ inumidire da quest’aria inqualificabile.

Avevo voglia di aria. Ho voglia di aria.

Ho voglia di stare in piedi in una piazza deserta a non far nulla.

Ho voglia di stare seduta sotto un albero che mi sputa rumorosamente addosso le foglie per un intero pomeriggio.

Ho voglia di non dover alzare lo sguardo per vedere la linea della fine del mondo.

Ho voglia di vedere il blu dell’acqua dall’angolo del mio occhio destro mentre sto a non fare niente.

Ad aspettare.

Passeggiare piano piano. Quei passi che faccio io. Quelli che nessuno riesce a tenere, perché troppo piccoli e lenti.

Non mi va di stare in questo letto.

Mi pesa il pigiama.

Le lenzuola mi stanno come una camicia di forza.

Stanotte.

Mi sto stretta.

Stanotte.

Voglio stare sotto alla luna come fosse il 15 agosto a mezzogiorno.

Voglio non essere stanca di fumare.

Voglio stare su un ramo e guardare su e mai giù.

Voglio andare dove non sono stata e tornare dove non dovrei andare.

Voglio sentire il collo libero.

Non voglio nessuno intorno, non voglio persone, parole, gesti. E non voglio smettere di amare persone, parole, gesti.

La mia gatta stasera mi abbraccia. Ma non sono triste o malinconica.

Semplicemente non sono abbastanza.

Abbastanza grande da. Abbastanza forte da. Abbastanza sfaccimma per.

La mia gatta ha voglia di coccole e schiaccia la sua tempia sul palmo della mia mano.

Non ho voglia di dormire.

Ho voglia di stare seduta sul marciapiede di una città di mare. Una di quelle piccole. Una di quelle che sembrano di cartone.

Penelope mi segue nelle mie instabilità da 17 anni e mezzo. Ha pazienza. E un affetto illimitato. Un bonus permanente.

E non ha altri che me.

Impressionante. Chissà se le pesa. Chissà se ha ancora voglia di passeggiare al buio tra mattoni e frasche e erba secca. Chissà se ha ancora voglia di inseguire uccelli e topi e lucertole. E di fare figli. Ne avrà fatti una trentina nella sua carriera di felina alfa.

Ho la musica nelle orecchie. Charlotte Martin è una droga. E io sono ossessiva.

Il post è scritto con il computer di M**. Domani lo restituisco. Ho ripreso il mio. La cosa favolosa di questo laptop è che è stato comprato a Napoli e si chiama “O book”. Lo adoro per questo. Tu tien’ l’ Imac e j’ teng’ o’ bùk. Fantastico. mi mancherà anche perché è una scheggia.

Voglio dirti, mia cara inesistente visione, che sei una parte consistente della mia giornata. Fin troppo.

Voglio portarti, fantasia resistente, in posti dove non sei stata e farti fare quello che hai voglia di fare.

Voglio aspettare la tua voce al telefono. Voglio sperare che il prossimo sms sia il tuo.

Voglio rivoltarti come un calzino. E porca puttana questa cosa mi fa incazzare oltremodo. E non mi sento neanche libera di dirlo come lo sento, che ‘sto cazzo di blog comincia a non appartenermi più – è più vostro che mio e ancora non capisco cosa vi tiene attaccati alle urla e agli strepiti di una donna sempre in cerca di cose che non esistono e non si fabbricano – e le cose che ho forti e chiare non possono più finire qui sopra. E mi manca e mi costa. Ed era pure quello che volevo. Porca puttana e povera la puttana che non c’entra un cazzo.

Io lo so bene cosa ho dentro, lo so bene che è di questo che ho bisogno, lo so bene che senza questo soffio d’aria che mi prendo dai tuoi gesti (non diretti a me, è ovvio), comincerei a morire. mi dispiace per te, a volte. Non sai in cosa sei avvolta. Immagino tu mia stia chiedendo ben altro. Ma io vedo molto più in basso, molto più a terra.

E tu manco lo sai ché non mi leggi. E so anche che tutte le volte che ho perso tempo a rubare quello che non c’è, non mi è rimasto niente. Questo mi dispiacerebbe. Niente è troppo poco.

Ho i piedi caldi e le spalle fredde.

Vieni qua che ti faccio vedere l’intero mondo.

Che dovrei raccontare della paura che ho di prendere un’altra randellata sulla nuca e di scambiare vigliaccheria per delicatezza e di pensare che se ti dico qualcosa poi me la spari in faccia il giorno dopo tu come altri, la qualsiasi della ferocia umana. Dovrei raccontare della diffidenza dei sentimenti che mi governa, della lotta che faccio con il senso di use/abuse che avverto ovunque. E non credevo sarebbe accaduto. Tu non sei così, o no? io non son capace di capirlo. Di me non mi fido. Che non ne resta per me.

La mia gatta gioca, alle 3 e 14 di notte, con il jack dello stereo.

Io gioco, alle 3 e 14 di notte, con emozioni che non andrebbero condivise.

I was up all night waiting for some kind of miracle, dice la Martin nelle mie orecchie.

Per avere i miracoli bisogna chiederli.

Any suggestion?

Post mattiniero

non-ho-ancora-bevuto-il-mio-caffe

Soundtrack: Dionne Farris I know

I post della mattina vengono sempre in un altro modo. E poi per ora c’è il sole.

Dunque.

Con la mia solita ed assoluta mancanza di discrezione personale, spiego.

Ho preso una gran botta. Di quelle che mi provocano comportamenti “banana” senza appello.

Scivolo, cado, mi sputo addosso, mi cola il naso, rovescio le cose, sbaglio le parole, perdo il controllo e mi comporto come una adolescente (anzi un adolescente) mentalmente instabile.

E mi diverto un sacco.

C’è da infilare, tra parentesi o per inciso, che qualunque lesbica sana di mente che abbia superato i 17 anni d’età e sia vissuta anche solo un anno fuori da un collegio svizzero di suore trappiste, saprebbe che una cosa del genere è da evitare come l’antrace, pericolosa come una ringhiera fuori norma di un balcone del quinto piano e carica di un potenziale devastante come una legge di Berlusconi.

Ma siccome io banana sono e banana resto, veleggio nel mare dei “mi pare”, “potrebbe”, “ma forse”, senza un freno che sia uno.

Le mie amichette mi guardano/ascoltano e dicono “che cosa carina”, rafforzando in me la convinzione che i segni neurologici avanzano indisturbati nel mio floscio cervellotto.

2+2 fa 4. Mi si dice. Ma potrebbe tranquillamente essere 18 – 6. Non so se mi spiego.

Quando sei all’interpretazione del gesto, sei una lesbica alla frutta.

Però, per ora, è divertente, vitale, piacevole e assolutamente energetico.

Mon dieu.

Ci vorrebbe un pezzo musicale adolescenziale, tipo il tempo delle mele. Ma è troppo. Cercherò di restare su qualcosa di dignitoso.

Buon mercoledì a tutti che, come sapete, è il giorno prima del giovedì, che è quello che precede il venerdì, che è l’ultimo della settimana.

La settimana è sfangata.

 

– Leggo ora il commento del Fab e mi stacco per un attimo dal mio nacisistico autocentramento. Son contenta di leggerlo così entusiasta, son contenta che sia Obama il nuovo presidente degli Stati Uniti e credo, davvero, che questo significhi qualcosa per tutti, indistintamente. Non mi importa se sarà o meno un buon presidente, mi importa che sia stato possibile far accadere l’inaccadibile. Si riparte e sono certa che sarà meglio comunque. –

 

Velluto e juta.

Soundtrack: Nicola Conte – Karma Flower

Mi sciolgo pigra.

Penelope ha finalmente capito cosa si vuole da lei e si può calmare. Ma era più bello inventare. Era più bello sognare occhi che si abbassano e pelle che si cerca.

Era più bello crederci.

Penelope vorrebbe parlare del suo voltaico sentire ma non ne ha il coraggio. Non vuole essere letta. Non vuole essere vista nella debolezza dei suoi polmoni.

Mi appoggio su note di jazz e comincio il mio viaggio notturno. Non vado mai troppo lontano, a volte rido di me e delle censure o del pragmatico realismo dei miei dormiveglia pilotati.

E mi chiedo quando sarà possibile di nuovo emozionarmi, arrossire fino ai fianchi. Restare ferma con le spalle ad un porta e guardare qualcuno che guarda me.

Sentire quelle serpentesche deviazioni delle vene. Riempirmi gli occhi di quello che vedo.

Non mi importa di cosa viene dopo. Mi importa di sentire il vento dietro alla faccia e il naso pieno di profumo fino a soffocare.

Provare ad allungare un braccio e a ritrovarlo su una spalla morbida e solida e solare.

Sentirmi prendere le mani. Sentirmi prendere la faccia.

Sentirmi.

Anche stasera le parole mi costano. Non trovo la corrente e mi aggrappo a scogli e mi infilo in gorghi perché le mani smettano di scrivere.

Ma non smettono, questo si sa. Penelopegatta ride di me e dei miei doppi messaggi. Ride della deriva che ho preso e della voglia che ho di innamorarmi.

Oh sì, quest’è? potevi dirlo prima, ma non è cosa che si possa decidere, lo sai.

E chi lo ha detto?

Quello che so per certo è che quando mi sento così, it’dangerous. Very dangerous.

Alla fne quello quell’è.

Volevo scrivere un post erotico, sia chiaro, ma la lucina USB ha illuminato altre lettere sulla tastiera.

Mi viene da prendermi in giro. Inutile buttarla sul sensuale. In realtà non c’entra un cazzo.

Vorrei una passeggiata al mare. Vorrei una carezza anche furtiva, fanculo all’autodeterminazione, vorrei ascoltare parole che non siano le mie. Vorrei fingere di credere ad un progetto, ad un’immagine, ad un desiderio. Mi basterebbe.

Ricordando le mie ultime storie, mi verrebbe da dire che è meglio restare chiusa a casa e rimandare a data da destinarsi. Prima di prendere un viso tra le mani si dovrebbe guardare qualcuno negli occhi e pensarci un paio di volte su.

Ma me ne fotto.

Adoescente emozionale. Non imparo e non voglio imparare.

Ancora romantica, ancora imbranata.

Credo di esserne fiera.