Soundtrack: Charlotte Martin – Every Time It Rains
A volte Penelope vorrebbe raccontare dei sogni che ha.
Quelli da poco, quelli che ti si disegnano in mezzo alla fronte quando meno te lo aspetti, quando il resto del corpo è impegnato a stare seduto e a mantenere un minimo di contegno posturale. Quei sogni con nei quali i colori non hanno importanza e senza sfondo. Non è l’ambiente il sogno, è il sogno l’ambiente. Fumetti di china, con le ombre rigate e i vestiti sempre in bianco e nero. Di solito mi portano lontano. Di solito li sento fino alle ginocchia. Di solito capitano quando non dovrebbero. Penelope si vergogna un po’, si sente adolescente e non ce la fà. Qualche volta ne rido. Vecchia pazza visionaria che legge l’illegibile nelle pieghe delle pagine di un libro che non c’è. Capita anche che il sogno arrivi da fuori. Lo sento, lo so. Credo, mi pare, forse, non è detto. Lo vedi che sei una bimba tesoro mio? Ti piace ancora immaginare, ché questi sogni non sono e lo dovresti sapere.
Ma stasera sei strana, Penelope. Malinconica e infreddolita. E non è di questo che vuoi scrivere.
Spiegare cosa davvero mi manca è ancora difficile. Sarà difficile domani e anche il giorno dopo. Poi sarà passata e si riparte.
Come fai a mescolare così le cose?
Perché torna sempre tutto alla stessa radice, allo stesso seme, alla stessa goccia di luce spenta.
Se Penelope sapesse dire, stasera, perché si nasconde dietro sogni senza senso, le farebbe così tanto male da farle cadere gli occhi.
Ma la voragine che ho da qualche parte, in questi giorni, fa male da morire.
Come si fosse appena formata, come fosse fresca di sangue e dolore. Invece è qui da così tanto tempo che neanche dovrei ricordarlo.
E infatti non lo ricordo, lo immagino. Non so più com’era la faccia, la voce, l’odore. Non lo so da così tanto tempo che me lo sono inventato.
Quest’anno non va meglio. Non migliora mai. Non passa mai. E’ sempre qui.
E’ quello che mi fà pensare che non c’è scampo, non c’è un “persempre” in nessun caso, mai.
E’ quello che mi fà scappare prima o poi, è quello che mi porta a fare finta che non mi tocca niente, perché niente è abbastanza. Che mi basto a me stessa, che non mi serve nessuno. Perché nessuno può esserci.
Ritorno bambina a girare per le stanze di una casa ghiacciata. Ritorno a rivoltarmi nel letto aspettando mani che sistemano le lenzuola sapendo, sapendo e sapendo che le mani non arriveranno. Né ora e né mai.
E non serve che io mi dica che basta, non è più tempo, non ha più senso, non è più perdonabile aspettare ancora. non serve a niente. Non mi ascolto e ci riprovo.
Come un cane che cerca il portone di casa. Come una bambina che non ha imparato niente. Come un dolore che cerca di nutrirsi per non scomparire.
Perché se scompare il dolore non mi resta proprio più niente. Almeno è qualcosa, lo posso riproporre, lo posso riportare in vita ogni volta uguale a se stesso, senza usura, senza rughe, senza modifiche.
Il dolore lo ricordo così bene, mi ha accompagnato così a lungo, mi ha costruito così tanto da essere l’unica cosa che ho. L’unica cosa rimasta. L’unico segno limpido, reale, profondo di un pezzo minuscolo di vita, così piccolo da perdersi nel mare dell’assenza.
Lo suoniamo insieme, questo dolore. Io lo so, non importa come. Lo viviamo insieme. Ci abbracciamo forte e ci disperiamo di quello che non c’è. Io e lei e nessun altro.
Lo lascio fluire, ma non si scioglierà nel mare. E’ una fontana, non è un fiume. E’ un tubo avvolto su se stesso. E l’acqua è ancora limpida. Mioddio è ancora limpida, com’è possibile?
Se non lo rovesciassi fuori, una volta all’anno, ne resterei uccisa, credo.
Allora aspetto. Aspetto che arrivi il mio inferno di fine ottobre. Per non dimenticare. Anno dopo anno. Da 39 anni. E’ questo il mio “persempre”.