Novembre.

Soundtrack: Charlotte Martin Every Time It Rains

A volte Penelope vorrebbe raccontare dei sogni che ha.

Quelli da poco, quelli che ti si disegnano in mezzo alla fronte quando meno te lo aspetti, quando il resto del corpo è impegnato a stare seduto e a mantenere un minimo di contegno posturale. Quei sogni con nei quali i colori non hanno importanza e senza sfondo. Non è l’ambiente il sogno, è il sogno l’ambiente. Fumetti di china, con le ombre rigate e i vestiti sempre in bianco e nero. Di solito mi portano lontano. Di solito li sento fino alle ginocchia. Di solito capitano quando non dovrebbero. Penelope si vergogna un po’, si sente adolescente e non ce la fà. Qualche volta ne rido. Vecchia pazza visionaria che legge l’illegibile nelle pieghe delle pagine di un libro che non c’è. Capita anche che il sogno arrivi da fuori. Lo sento, lo so. Credo, mi pare, forse, non è detto. Lo vedi che sei una bimba tesoro mio? Ti piace ancora immaginare, ché questi sogni non sono e lo dovresti sapere.

Ma stasera sei strana, Penelope. Malinconica e infreddolita. E non è di questo che vuoi scrivere.

Spiegare cosa davvero mi manca è ancora difficile. Sarà difficile domani e anche il giorno dopo. Poi sarà passata e si riparte.

Come fai a mescolare così le cose?

Perché torna sempre tutto alla stessa radice, allo stesso seme, alla stessa goccia di luce spenta.

Se Penelope sapesse dire, stasera, perché si nasconde dietro sogni senza senso, le farebbe così tanto male da farle cadere gli occhi.

Ma la voragine che ho da qualche parte, in questi giorni, fa male da morire.

Come si fosse appena formata, come fosse fresca di sangue e dolore. Invece è qui da così tanto tempo che neanche dovrei ricordarlo.

E infatti non lo ricordo, lo immagino. Non so più com’era la faccia, la voce, l’odore. Non lo so da così tanto tempo che me lo sono inventato.

Quest’anno non va meglio. Non migliora mai. Non passa mai. E’ sempre qui.

E’ quello che mi fà pensare che non c’è scampo, non c’è un “persempre” in nessun caso, mai.

E’ quello che mi fà scappare prima o poi, è quello che mi porta a fare finta che non mi tocca niente, perché niente è abbastanza. Che mi basto a me stessa, che non mi serve nessuno. Perché nessuno può esserci.

Ritorno bambina a girare per le stanze di una casa ghiacciata. Ritorno a rivoltarmi nel letto aspettando mani che sistemano le lenzuola sapendo, sapendo e sapendo che le mani non arriveranno. Né ora e né mai.

E non serve che io mi dica che basta, non è più tempo, non ha più senso, non è più perdonabile aspettare ancora. non serve a niente. Non mi ascolto e ci riprovo.

Come un cane che cerca il portone di casa. Come una bambina che non ha imparato niente. Come un dolore che cerca di nutrirsi per non scomparire.

Perché se scompare il dolore non mi resta proprio più niente. Almeno è qualcosa, lo posso riproporre, lo posso riportare in vita ogni volta uguale a se stesso, senza usura, senza rughe, senza modifiche.

Il dolore lo ricordo così bene, mi ha accompagnato così a lungo, mi ha costruito così tanto da essere l’unica cosa che ho. L’unica cosa rimasta. L’unico segno limpido, reale, profondo di un pezzo minuscolo di vita, così piccolo da perdersi nel mare dell’assenza.

Lo suoniamo insieme, questo dolore. Io lo so, non importa come. Lo viviamo insieme. Ci abbracciamo forte e ci disperiamo di quello che non c’è. Io e lei e nessun altro.

Lo lascio fluire, ma non si scioglierà nel mare. E’ una fontana, non è un fiume. E’ un tubo avvolto su se stesso. E l’acqua è ancora limpida. Mioddio è ancora limpida, com’è possibile?

Se non lo rovesciassi fuori, una volta all’anno, ne resterei uccisa, credo.

Allora aspetto. Aspetto che arrivi il mio inferno di fine ottobre. Per non dimenticare. Anno dopo anno. Da 39 anni. E’ questo il mio “persempre”.

 

Vi adoro, o lettori di codesto blog.

Soundtrack: Jestofunk – The Ghetto

Quando – dopo intensità quotidiane come quella di oggi e vari segni di cedimento neurologico progressivo -torno a casa, mi tuffo in Penelopebasta e trova l’acqua tiepida e profonda, mi arripiglio.

Certo, se non fosse per i 347 commenti di Alf**…

Comunque mi ricordo perché, percome e perquando questo blog è meraviglioso (per me).

Sono stanca parecchio e domani mi aspetta un convegnuccio ecm per diventare una brava logopedista da 40 punti all’anno (?).

Seminario sulla dislessia. Materia affascinante – e lo dico senza ironia -. Pensare che per qualcuno i segni grafici della scrittura non abbiano significato alcuno, che non ne avranno malgrado anni di scuola e di terapia, che non sarà possibile codificarli per trasformarli in suoni, nè trasformare questi suoni separati, nella mente, in un unico suono da associare ad un concetto, oggetto, verbo o qualsiasi altra cosa e, il tutto, senza cause apparenti, mi travolge di fascino (magari i dislessici non sono tanto d’accordo).

Vado un po’ a vedere se ho ragione io, con la mia solita prosopopea. Ovvero che gran parte se non tutti (tranne G. Bush, naturalmente) i dislessici puri (ovvero che non hanno nulla di associato tipo ritardi o disturbi del linguaggio e così via, non vi sto qua a fare una pippa) hanno una intelligenza piuttosto particolare e caratteristica. Sono brillanti. Sono da pensiero laterale. Sono acuti.

Sono persone che formano la propria personalità senza le facilitazioni della letteratura, dell’informazione, che formano il proprio lessico solo ascoltando. Minchia. Mica pizze e fichi.

Di solito il mio lavoro è questo: “ciccio, è pur vero che non sai leggere, ma sei un fenomeno dotato di giganteschi attributi”.  Quando funziona, è fatta, non leggono uguale, come ho già spiegato, ma della propria vita faranno il cazzo che gli pare.

Fine del primo paragrafo.

Qui a Roma è successo il delirio. Una protesta portata a braccia da ragazzi che hanno voglia di impegno sociale e di riscaldare la speranza di andare verso il meglio e non il peggio, è finita in mazzate politiche da brivido. Polizia connivente compresa. No history. Nessuno impara niente e questa città è libera di infascistirsi senza freno e con grande supporto. Mi fa orrore. Mi sono cullata nell’ipotesi che potesse, nel 2008, funzionare diversamente, che potesse essere battaglia civile, che potesse dimostrarsi un punto di partenza e di speranza. Son caduta dalla culla. Paese di merda.

Fine secondo paragrafo.

Si parlava sul blog dell’Alf** della questione “ghetto”. In relazione agli omosessuali, obviously. “Ghetto” come luogo riservato e delimitato, autoreferenziale, esclusivo fino all’autismo.

Io non ho nulla contro il ghetto, ripeto che lo ritengo fondamentale nella costruzione di sé. Penso anche, tutto sommato, che tutti hanno un ghetto, tutti sono cresciuti in luoghi fondamentali e chiusi che permettono di riconoscersi, confrontarsi, difendersi e rassicurarsi. Il tuo liceo è un ghetto, il tuo quartiere è un ghetto, a volte persino il tuo palazzo lo è. L’università, la discoteca dove andare tutti i sabato sera, il bar e la piazza dove stravaccarsi per ore.

Gli omosessuali, per anni, non hanno potuto contare su luoghi “qualsiasi”, hanno dovuto inventarne alcuni e renderli inaccessibili perché era necessario. Per proteggersi fisicamente, in alcuni casi legalmente e, soprattutto, psicologicamente. 

E lì sei difeso/a, ti riconosci senza sforzo, puoi contare su chi incontri senza doverti massacrare il petto dibattendoti tra “mi dice sì, mi dice no, mi mena, mi denuncia, sviene, muore d’infarto o mi ammazza se gli/le dico che mi piace?”.

E questo basterebbe di suo.

Aggiungiamo che è dal ghetto che sono nati i movimenti, le associazioni, le richieste di diritti civili.

Vero è che la tendenza a restarci, nel ghetto, è patologica e drammaticamente comune, ma questo è altro argomento.

Fine paragrafo terzo.

Oggi una ciccetta piccolissima di 3 anni e mezzo mi ha costretto a farle una lezione di educazione sessuale che proprio non volevo farle. E non perché mi imbarazzo, ché con i bambini non vedo di cosa ci si dovrebbe imbarazzare, ma perché la sua teoria mi piaceva tantissimo. Durante il gioco del dottore (lei dottoressa e bambola da visitare, disgraziati, ciccia piccola è, non maniaca sessuale), seguente conversazione:

“Fa male patatina”

“Ciccia Piccola, avevi detto che questa bambola si chiamava Luca”

“Sì”

“Allora niente patatina, tesoro, pisellino in questo caso, sennò dalle un nome da femmina” (con grande sforzo da parte mia di non utilizzare termini più appropriati e meno ridicoli di questi).

“No, iama Luca e pataina”

“No, Ciccia Piccola, non può avere la patatina se si chiama Luca”

“Sì , è piccoo, tutti piccoi pataina…”

“Tesoro, il pisello mica cresce dopo”

“Sì sì, piccoi tutti pataina, pooooi, creccono eeee…”.

ME-RA-VI-GLIO-SO.

Conclusione conversazione:

“Dottoressa allora sta bene questa creatura?”

“Sì, Capitano”

A me. Capitano. Saranno stati gli stivalotti?

Fine paragrafo quarto

Risposte on post ai comments precedenti:

@Alf**: innanzitutto prosit. poi vieni a Roma che ti faccio conoscere anche l’Alice, poi smettila di fare stalking sul mio blog, poi anche di usare il mio blog per fare acchiappanze a destra e a manca, poi è vero, sei simpatico, poi ti ho spiegato come accedere al blog di Alice. Mi pare tutto.

@Tribus: già sai.

@Alice: dopo conversazione di stamattina, premuto tasto: Ignore.

@Crila: perché io sono una dipendente a tempo indeterminato e faccio parte di un accordo firmato davanti a un prefetto e controfirmato dal sindacato. Tu sei una specialista consulente e ti becchi più soldi di me, di norma, ma senza sindacato ti resta l’avvocato… In realtà penso sia stato costretto a farlo dato che lo aveva inserito nell’accordo di conciliazione. Ma non è una buona cosa. Significa che gli restano soldi solo per il mese di ottobre e che da novembre fino a marzo ci fottiamo tutti.

@andreaibbamonni: macciao, chi sei? perché hai un nome sì complicato? perché pure tu uno e mezzo? facci sapere.

@unodei: mi pari un ADHD. Già da mo’ stai a pensare a quando dovrai ritornare? c’è tempo. Mi manchi però. Vorrei fare il natale con te. Come puoi pensare che avessi recuperato? con Ste** è diverso, l’ho amata molto e non me le perdo le persone che ho amato. Ma lei no. Neva eva.

@Elide: mia nipotazza adorata, chiamavi la zia e le sue lesboamichette e lo facevamo a pezzettini. Non avrebbero ritrovato neanche un bulbo pilifero di egli. Ma è andato via? meno male che riparti. Devo chiamare sua madre? dimmi, A ZIA, che ci penso io.

@r: grazie per stellina da Paris e per averlo fatto con l’IPhone… Vero, sciarramento (=allontanamento devastante, rottura insanabile, N.d.T.) es normalidad, ma pure es normalidad grandi amicizie dopo reiterati tentativi di omicidio.

@ziasaimon: effettivamente è un pezzo un po’ da pinnolo con smile disegnato sopra. Ogni tanto mi piglia. Non è vero, i fatti li sai ma, giustamente, non te li ricordi, visto il loro basso e scarso livello e, fondamentalmente, il “chissenefotte” mi pare il miglior comportamento applicabile alla questione.

Fine paragrafo quinto.

Mioddio un post chilometrico, meno male che sono stanca.

 

Feisbùk e la malattia mentale mia ed altrui

Soundtrack: Leftfield – Phat Planet (Dave Clarke Remix) che preparatevi, è un momento trance vintage.

Come dicevo Fb è un gorgo verso il nulla.

Una droga potente.

Un modo imprescindibile per occupare il proprio tempo da perdere.

E per procurarsi tempo da perdere.

Persino un argomento di discussione.

E su questo siamo d’accordo, mi pare.

Vada per la questione dei blog abbandonati, vada per la mania dei giochini del cazzo, vada anche per l’ossessione dei quiz inverosimili, per la stupidissima ricerca di gente che, se non vedi più da 20 anni, un motivo pure ci sarà. Riesco a giustificare (effigurati) le esplosioni narcisistiche, la voglia di far sapere al mondo a che ora si va a dormire o cosa si è mangiato, cosa stai vedendo in televisione e quante persone si chiamano come te. Non ho nulla contro il cazzeggio né contro il “grande fratello style” che ti consente di sapere i cazzi di tutti in tempo reale.

Ma che, dopo 10 anni, una persona con la quale non mi rivolgo la parola neanche per scagno (=scambio, errore, N.d.T.) dai suddetti 10 anni, una persona che mi ha: scippato la fidanzata, mentito, turlupinato economicamente, maledetto con riti voodoo e cercato di cancellare per un quinquennio circa, voglia, a tutti i costi, diventare mia “amica” su fb, mi destabilizza.

Mi rendo anche conto che si tratta di comunità virtuale e di puttanata dotata di una certa levità; so che ho dovuto dire un paio di sì a richieste di “amicizia” per pura educazione (mi pare troppo brutto premere quel cazzo di tasto Ignore), ma questo è assolutamente troppo.

Sono patologica, lo so. Sono facile all’addiction da qualsiasi cosa (stasera per comprarmi un fottuto pacchetto di Gauloises ho preso il diluvio universale e mi sono inzuppata oltre modo, guadando fiumi sprezzante del pericolo e utilizzando un sonar sensibile solo alla T di Tabacchi). Sono anche distratta e vaga, rimbambita e incline alla dimenticanza ma no, D*M* tra gli amici di fb, NO.

E mi chiedo come possa venire in mente una tale forma di deviazione del pensiero a chicchessia.

Tanto per rinfrescare le idee, D*M* è una delle protagoniste del mio personale giro dei 4 cantoni.

I am indigned. Sono indignata.

Perché ci vuole una mente malata e la faccia come il culo. E il mio non è rancore, giuro, è stupore…

Muy stupor del galoppar delle patologie e dalla accoglienza che esse ricevono su internét.

Guarda ‘sto blog…

P.S. Si sappia che mi sta arrivando uno stipendio e mezzo. Brindiamo alla salute dell’emo ebetoide.

La Camion che è in me.

Soundtrack: Alexkid – Come with me

Al mercato delle scarpe di Poggioreale, in G.C., in una passeggiata individuale sotto ad un sole da spiedo, la camion che è in me ha preso il sopravvento.

Il risultato sono gli stivalotti nella foto.

Periodicamente essa (la camion), tira fuori la capuzzella e si impone sulla vintage neutra che cerco faticosamente far prevalere come personalità lesbica dominante sulle altre.

La camion che è in me sogna (e qualche volta ottiene):

  1. Stivali con gli speroni;
  2. tute militari mimetiche originali;
  3. pantaloni di pelle nera;
  4. pantaloni multitasche;
  5. anfibi originali;
  6. canotte nere a girospalla;
  7. giacche da marinaio;
  8. borsalino e panama;
  9. felpe imbottite;
  10. cappotti lunghi e blu da ammiraglio ottocentesco;
  11. bretelle.

Di solito resisto, ho una dignità da difendere.

Ma a volte scivolo, la personalità camion è, comunque, molto volitiva. Non sono bastate le decine di anni di faticoso lavoro per tenerla a bada.

Per fortuna di tutti, e di chi mi frequenta in particolare, gli stivali con gli speroni non si vendono.

Me la vedo: la camionista nana procede nel far west metropolitanto accompagnata dal “klang klang” degli speroni che spuntano dai pantaloni di pelle sotto al cappottone blu con bottoni dorati e gradi sulle spalle e, in testa, un borsalino bianco.

Ommioddio

Signore dammi la forza…

 

 (ultimamente codesto blog soffre assaje della mia addiction a feisbùk. Spero mi passi presto)

G.C.

Soundtrack: Teresa De Sio Voglia ‘e turnà

La vetrata è aperta sul vecchio padrone violaceo che non si vede, oggi.

La foschia è un velo pesante che lo copre fino a farti illudere che esista un est, in questa città.

Il mare aggiunge un effetto Parkinson alle luci del Golfo.

Bianche, gialle, arancioni. Senza ordine, senza percorso.

Il mare appoggia l’odore dei suoi frutti su uno scirocco pigro e slabbrato.

Dal cortile salgono accenti arabi urlati in cantilene saracene. Non c’è modo di tradurre.

Ma la ferocia si lascia comprendere perfettamente.

La folla è densa, ampia, grassa, invadente, senza confini.

Le donne sono donne.

Gli uomini si guardano intorno costantemente come prede consapevoli.

Il rumore è continuo, ininterrotto ed è fatto di gole e lingue e auto e camion e asfalti accartocciati e motorini e clacson e canzoni e litanie.

Gli odori li conosco. Sono ancora uguali. Sono ancora fatti di pranzi domenicali interminabili e pesce da pulire e friggere. Migliaia di pentole piene della stessa cosa.

Dietro all’angolo qualcosa è stato rifatto, ricostruito, modificato e ti blocca i battiti. Sembra bello.

Ma qui niente è mai bello troppo a lungo. La bellezza è un nemico, un fastidio sgradevole, la prova che potrebbe essere quello che non è. Bisogna rimettere le cose in equilibrio.

L’energia sotto i piedi scorre ad una velocità intollerabile. Come facevo? 

La luce è violenta. Il buio delicato.

La città non dorme.

il mare non dorme.

Il vento non dorme.

Io non dormo e mastico scirocco.

Cerco tracce dei miei affetti come un cane da tartufo. Non ce n’è bisogno. La posso vedere coi miei occhi seduta sul divano. Mi ci accarezzo la faccia. Quello che conta è qui davanti. Non c’è bisogno d’altro. Col naso spingo un po’ perché non si accasci sotto ai colpi del dolore. Con la voce ascolto la voce che arriva da lontano.

Saluto strade e nomi. Torno a casa?

 

Sua Onnipotenza “la Logopedista”

Soundtrack: Charlotte Martin On your shore (u know what i mean)

Sono almeno 20 anni che non facevo una terapia privata.

L’ultima l’avrò avuta nel 88/89, non di più.

Non mi ricordavo fosse così appagante e gratificante e delirante e onnipotente.

Entri in casa di qualcuno e ti aspettano. Credono tu sia “La Soluzione”, immaginano che tu sia in grado di sollevarli dal peso dei loro problemi e che tu sia capace di rimettere le cose a posto.

Ti trattano come fossi un luminare della scienza e sono attenti e cauti nell’interagire. Come se avessero paura di perderti facendo uno sbaglio.

Sono uscita dalla terapia rimettendo a posto il mio logo da SuperLogopedista sotto la maglia.

E mi sono ricordata perché ho smesso di farle…

Sensazione pericolosissima, questa, che, generalmente, corrisponde ad un periodo futuro (circa 3 mesi dopo) nel quale tu verrai buttata fuori di casa perché stronza e incapace.

Ma me ne fotto.

3 mesi di terapia privata, adesso, sono manna e miele. Fra tre mesi tutto è possibile.

E sono anche arrivata con un’ora di ritardo…

Ero a chiacchierare con Alice in un baretto al Flaminio. Vorrei che molti dei miei amici conoscessero Alice. Ci andrebbero d’accordo. Pensa te.

La piacevolezza della condivisione di eventi e sentimenti che la maggior parte delle persone non conoscono e/o non reggono, è impagabile.

E se la mia vita è scritta dagli sceneggiatori della endemol, la sua è targata (taggata?) Sud America.

Non mi era mai capitato di sentirmi leggermente più in basso nella scala degli “eventi incredibili, improbabili e inauditi accaduti a giovane essere umano”, credevo di essere su uno dei pioli più alti.

Ho la fortuna di riuscire a incontrare persone interessanti, nella mia vita, ed è puro culo.

Ringrazio.

A volte è difficile parlare di sé ad altri. Il che detto da una che ha un blog che racconta solo dei cazzi suoi è ridicolo. Ma ci sono cose che voi umani non potete immaginare. Ci sono sempre, nella vita di tutti.

Con il passare degli anni impari ad avere un po’ paura di mettere sul tavolino verde i tuoi pesi, il tuo basto personale, la tua valigia del dolore, la tua gogna. Impari ad avere paura perché impari che non tutti lo tollerano, non tutti capiscono, non tutti riescono ad ascoltare senza sobbalzi e fitte e intolleranze. Ed è giusto che sia così.

Quindi eviti. O inizi piccoli discorsi monchi, assaggini ed antipasti per vedere la faccia, gli occhi dell’altro, per vedere se ce la fa o è troppo, ché troppo non gli puoi dare, non sarebbe giusto.

Ma anche per vedere cosa se ne farà di quei pezzettini.

C’è anche chi li userà contro di te, prima o poi. Non capita spesso, ma se capita fa male e rende più cauti, felpati, delicati.

Considero ormai una rarità l’incontro che ti permette di svuotare le tasche e non aver paura di essere derubata o equivocata o spaventosa.

La sto facendo un po’ lunga, mi pare.

Intanto non si può vivere costantemente con questa attenzione semiparanoide, bisogna fidarsi di tanto in tanto. Se va male, va male (certo, si prenderanno tremende misure di conseguenza, mica basta abbassare la saracinesca, ci vuole qualcosina in più che metta in pari…); se va bene ne vale la pena.

Quindi, adesso, sono cazzi di Alice.

Non avrai mica un figlio segreto col fratellastro della cugina della madre di tuo cognato?

 

I tests

Disorder Rating
Paranoid Personality Disorder: Low
Schizoid Personality Disorder: Low
Schizotypal Personality Disorder: Moderate
Antisocial Personality Disorder: Low
Borderline Personality Disorder: Low
Histrionic Personality Disorder: High
Narcissistic Personality Disorder: High
Avoidant Personality Disorder: Low
Dependent Personality Disorder: Moderate
Obsessive-Compulsive Disorder: Low

Take the Personality Disorder Test
Personality Disorder Info
What mental disorder do you have?

Your Result: ADD (Attention Deficit Disorder)
 

You have a very hard time focusing, and you find it difficult to stay on task without your mind wandering. You probably zone in and out of conversations and tend to miss out on directions because you cannot focus

Manic Depressive
 
GAD (Generalized Anxiety Disorder)
 
Paranoia
 
OCD (Obsessive Compulsive Disorder)
 
What mental disorder do you have?
Quiz Created on GoToQuiz
“You are 36% Narcissistic”
 

You have some symptoms of narcissism. You tend to take advantage of others and exaggerate achievements in order to get the praise and attention you rightly deserve.

Are you Narcissistic?
Take More Quizzes

 

Per colpa di Shuly, sono entrata nel gorgo dei test psicologici on-line. Sarà anche stata la cena thai.

Volevo dire che questo, per me, è un periodo delirante, bipolare, stravagante e ambiguante.

E infatti non scrivo per voi, o lettori di Penelopebasta, ma per me. E si vede.

Certo il mio disturbo narcisistico ne risente, c’è da dire.

Ma mi necessita, quindi fottetevi. Prima o poi passerà.

Stasera, durante l’attesa al thai per portarmi le mie belle mono-porzioncine a casa, ho incontrato una lesbica.

Per la terza volta e, per la terza volta, ci siamo scambiate uno sguardo feroce. Più lei che io. In fondo sono banana e non reggo più di 16 nanosecondi lo sguardo altrui.

Perché?

Perché c’è sempre un che di sfidoso e ferocioso?

Uh, che domanda del cazzo.

In realtà volevo scrivere tutt’altro post. Ma poi il coraggio mi è mancato.

Buonanotte, silenti.

Agg’ fatt’ ‘a bott’

Soundtrack: Charlotte Martin Cut the Cord

Oggi ho sclerato. Sbroccato. Dato di matta. Azzeccato le punte.

Al lavoro.

Ho faticato moltissimo per evitare di fare due cose: distruggere l’arredamento e piangere.

Quando dico che ho faticato a trattenermi è letterale, non simbolico.

Ho alzato la panchina del cortile e volevo fracassarla contro la ringhiera.

Per un attimo ero al centro della scena finale di Zabriskie Point. In slow motion. In pace.

Eppure tutti questi anni dovrebbero avermi insegnato qualcosa.
Il punto è che non si tratta solo di questo.

Una delle NPI mi ha fermato e mi ha chiesto che avevo.

Ma non potevo parlare. A meno di scoppiare a piangere come un isterica del cazzo in piena crisi.

Ho cazziato le giovani colleghe per il loro disordine, ho urlato nei corridoi. Ho cacciato i colleghi dalla stanza dove dovevo fare una riunione.

Al ritorno in macchina ho pianto (ma solo un po’), parlando con M*. Che resta l’unica persona della quale mi fido, attualmente.

Mi sembra abbastanza.

Io non voglio stare così.

Buona parte di questo è il lavoro. Oltre 60 giorni a denti stretti, ogni giorno potrebbe essere quello dell’arrivo dello stipendio, ma non lo è mai. E allora domani, domani sarà possibile, domani potrò fare, domani si sistema.

Lo stipendio è tutto. E’ casa, è uscire, è scaricare la tensione, è regalarsi e regalare, è andare a prendere il computer in assistenza, è fare la spesa perbenino, è la benzina, è pagare le rate rimaste indietro. E’ offrire un caffè a qualcuno dopo tre mesi che chiunque mi conosce è costretto a mantenermi se vuole vedermi e uscire con me.

Questo basterebbe da solo.

Ma non è la sola cosa.

E’ vedere la gente tirar fuori il peggio di sé che mi fa incongruamente male.

E’ lo sforzo per restare vigile e fuori dalle mani altrui che mi fa sudare sangue.

E’  il vuoto che sento in questo momento. Non alleggerisce. Non ne esce un momento di rilassamento, abbandono, condivisione.

Me la sto vedendo da sola e questo mi affatica oltremodo.

Non ho più risorse, non ho più energie.

Non mangio, non dormo.

Non ne posso più.

Non ne ho più.

Non.

Stamattina ho avuto l’onore di una visita di una lesbica di passaggio londinese sul blog che ha ritenuto di dovermi insultare un po’ per un post che ho scritto.

Siamo sempre lì. E se siamo vent’anni indietro, noi lesbiche, è fondamentalmente perché non è possibile né un confronto, né l’ironia, né un dialogo. La filosofia di base è: “se apri bocca ti apro il culo”. No hope.

Mi accorgo ora che c’è la teutonica tettona all’isola dei famosi. Mi sono persa qualche cosa?

Un manicomio quest’isola. Ci starei certamente benissimo, al momento.

 

 

Chiamatemi Wall-r

Il giuoco di parole è comprensibile solo agli anglo-partenopei, mi spiace…

Andatevi a vedere il film di cui trailer: WALL-E, vale la pena e non è, ripeto NON E’ un film per bambini.

Tranne il momento tipico di disinformazione Disney che, come si sa, sostiene il complotto globale che vuole far credere a noi pecoroni che l’amore vince su tutto, è un film da vedere.

Un po’ ET un po’ Short Circuit, ambientalista e sentimentalista, stracolmo di meraviglie della Pixar e ti fa tornare a casa col sorriso citrullo.

Ho pianto come i manga giapponesi, non so più come fare con me. Commossa in modo indecente.

Sarà la pre-pre menopausa.

Oddio stasera Penelope è qui sul letto di fronte a me mentre scrivo e mi parla alitandomi in faccia. Se muoio sapete il perché.

Al lavoro siamo alla fase “visto che è tutto totalmente fuori controllo, vediamo cosa ci posso guadagnare io”. E questa cosa mi fa sufficientemente schifo.

Esco di là e mi sento come fossi uscita da una discarica abusiva della camorra a Qualiano.

Annamo bene.

Ma resistere e resisteremo. Per la cronaca non è sicuro ci paghino i due mesi ancora non pagati.

Il mio sonno ne risente un po’. E anche il mio sistema nervoso.

Faccio notare che siamo già sui 60.000. No, dico, mica pizze e fichi, apperò, chi lo avrebbe mai detto, incredibile, e tututù e tututà.

A parte Feisbùk che è un gorgo, mi capita più spesso di leggere i blog degli altri. Questo mi fa sentire poco originale. Non che ci tenga in modo particolare,  anche perché a casa mia la parola “originale” definisce tutti gli appartenenti alla famiglia che dimostrino comportamenti inspiegabili e del tutto incongruenti con la realtà. Ma il mio è un periodo di vuotezza scrittoria. Immagino possa capitare. E poi non ho molta voglia di ironizzare su un cazzo di niente, a dire il vero.

Sempre lavorativamente parlando, merita la menzione di una serie di telefonate anonime giunte in sede centrale, nelle quali si sostiene che da noi si fanno le orge.

*sospiro*

Almeno, stasera, non mi sono persa.

 

Sono preoccupata

Soundtrack: Maria Mena Just Hold Me

Mi preoccupa la ritrovata tendenza a perdermi per Roma. Stasera sono arrivata a livelli irragionevoli e ingestibili. Sull’Appia per arrivare al Testaccio. Al ritorno Tuscolana (o Tiburtina, o Aurelia, che cazzo ne so) per arrivare a Nomentana. No, dico, non è normale e non è un segno di salute.

Mi preoccupa il fatto che quando non riesco ad esprimere come mi sento, mi viene solo da piangere. Come un’adolescente, come una che non sa parlare, come una che si vergogna di dire “Mi ha fatto male e non è che io sappia dirti il perché ed il percome per filo e per segno, so solo che stavolta mi ha fatto male”. Anche se so che è un mio problema. Non è un segno di salute neanche questo.

Mi preoccupa la mia voglia di uscire e la mia difficoltà ad uscire di casa. Mi annoio dentro, a volte mi annoio anche fuori. A volte no, è bellissimo. Ma a volte uscire di casa è una fatica improba. Non è sano.

Mi preoccupa la mia gatta, che stanotte corre e urla per tutta la casa. Non la capisco. Come non capisco me.

Mi sa che abbiamo entrambe bisogno di una badante.

Stasera il Gloss era chiuso, karma di merda, e allora siamo andate a fare un po’ di lesbian watching al Coming Out, che tanto ci piace di far chiacchiere e avvoltolarci di parole e riscaldarci di concetti; non importa dove, importa con chi. Poche donne, come al solito. Bestie rare.

Da vedere: un gran numero di camion – percentuale preponderante – e gruppi di post-adolescenti J-lo. Ma anche devastazioni fisiche che fanno lacrimare il cuore. A volte vorrei fermarle e spiegare loro che questo non c’entra, che non aiuta, che la negazione è un orrore che si paga e che vestirsi da rapper maschio nero americano è un travestimento, una copertura e uno scudo. Non serve e non cancella. E’ solo un modo per non volersi bene.

Noi lesbiche abbiamo un problema di autostima. Gira che ti rigira, i maschi sono arrivati a risolverlo e noi, ancora una volta, siamo indietro di vent’anni.

Personalmente credo di avere un problema di sovrastima. Questo blog, d’altronde, ne è la prova.

Ho mandato affanculo la dieta anticolesterolo. Mi sono sfrantumata le palle, ho voglia di divorare spaventose schifezze saporitissime e mi va di scofanarmi quello di cui ho voglia. Non è periodo e non ci riesco. Mi preoccupa anche questo.

Avevo dato un ordine alle cose e questo ordine non riesco a tenerlo.

Sarà arrivata l’ora che io mi trovi una fidanzata?

Sarà arrivata l’ora che io mi fermi a ragionare un po’ su quello che faccio?

Sarà arrivata l’ora di dormire che sono le 3 e mezza?

Buonanotte.

Settimana densa

Soundtrack: Minus 8 – Breathe

Sono stanca come una foca.

Mi ero disabituata a lavorare una settimana intera.

Ma lavorare è meglio che pensare, a volte.

Scrivo meno perché il gorgo di feisbùk è micidiale.

Su feisbùk ho trovato gente della quale non ricordavo il nome finché non l’ho letto.

Ora mi verrà anche la fissa dei sondaggini.

Cazzi vostri che tanto ve ne fottete e non votate.

Al lavoro succedono cose che voi umani non potete immaginare.

Mi sta venendo pure la paranoia che mi cacciano perché so’ lesbica. First in my life.

La gatta ha sempre fame.

Ma vederla socchiudere gli occhietti serpenteschi quando le gratto la gola è fantastico.

La nipote è il tulipano nero.

Ma sapere che sta bene mi fa star bene.

Il fabolous non scrive più e mi lacrima il pericardio.

Immagino sia perché ha da fare, ma anche no. La mancanza di informazioni crea mostri.

Vivo di fantasie prive di fondamento.

E meno male così mi annoio meno.

In realtà sto bene.

Certo ho una tosse da ottantenne che fuma toscani. Ma sono dettagli.

Vorrei uscire più spesso.

Ma sono stanca come una foca.

* Sospiro*

 

Piccolo Omaggio di un certo qual livello:

Ridin’ on a dream

Soundtrack: Anita Baker You Bring Me Joy (marò come sto mielosa stasera)

Bastardi che siete.

Nei più strani modi, vicini e mostruosamente identici alla mia ambiguità. Ma questa è un’altra storia. Se non fosse ridicolo a dirsi riferendosi a voi lettori di un blog autocentrato come questo, potrei affermare che siete un gran bel pezzo della mia vita.
Ora.
Sono incastrata nei miei dubbi e, cazzo, riuscite a dire in perfetto equilibrio tutto e il contrario di tutto. Volessi giocare alla roulette russa con le vostre risposte, sarebbe impossibile.
Ma j’adore.

Quante sono le persone che contano? Sono quelle, il resto sono acari da cuscino sui quali appoggio la testa volentieri, certo, ma acari sono e non braccia e pensieri.

Il mio sogno si srotola, come uno zerbino viola troppo lungo per stare fuori la porta. Comincia a salire su per le scale verso altri pianerottoli e si allarga e cresce ed è MIO.

Ma non è solo mio. Io non posso fare senza l’amore che mi cresce intorno. Non posso fare a meno di allargare i miei sogni ai calori ai quali tengo.

E quindi benvenute amiche mie, benvenute e grazie. Siete voi il sangue e il cibo di questo sogno.

Disse Evita dal balcone…

Non avevo mai visto, prima, così da vicino qualcosa prendere forma e apparire possibile. E’, per me, di una grandezza imbarazzante.

E non ho di che lamentarmi, è tutto così enormemente caldo stasera, da togliermi il fiato.

Ho qualcosa nelle mani. Non sono abituata.

Ho qualcosa che mi appartiene. Non sono abituata.

Ho qualcosa di valore. Non sono abituata.

Dio, stasera non mi vengono le parole. Non sono abituata.

Oggi è stata una buona giornata. Una di quelle che ti ricordano persino perché lavori.

Quando genitori ed insegnanti ti dicono “è cresciuto”, “è sicuro di sé”, “è autonomo e furbo come un volpacchiotto”, io ricordo cosa mi piace di questo lavoro e ricordo qual è l’obbiettivo di tutto: tornarsi dentro.

Quale che sia il fuori.

Io ci provo, prometto che ci provo a lasciar tranquilla la tela e a fermarmi per capire. Prometto anche di rivedere il mio bagaglio, per essere pronta a partire, se servirà.

Nel frattempo cercherò di non aver paura di sognare.

 

Non va bene

Soundtrack: Sofa Surfers Believer

Non mi pare vita la vita che sto facendo.

Incastrata in questo fottuto loop parassitario che mi mangia i neuroni e mi blocca il pensiero.

Non è questo che voglio.

La mente infilata lì, nella crepa del quotidiano, costantemente edematosa e infiammata da pensieri che non servono, non fanno stare bene, non aiutano, non portano soluzioni.

Tutto questo mi fa schifo. Cordialmente.

Mi sono rotta il cazzo di non avere altro cuneo che questo pensare alla sopravvivenza. Dipendenza. Astinenza. Altrui Tracotanza. Fare senza.

Davvero non ne posso più. Mi sembra di non avere spazio per altro che questo.

Voglio aria. Voglio un cranio libero e leggero.

Voglio stare bene. E voglio anche innamorarmi.

Voglio una vita.

Dovunque io debba costruirla.

Chè a quanto pare qui non ne ho costruita molta.

Fanculo.

 

Iperattività

Soundtrack: Abba Mamma mia

Dopo giorni di immobilità assoluta: divano/voragine – computer – letto – computer, ieri ho avuto la peggiore crisi di iperattività della mia vita. Manco avessi preso il cortisone.

Non è da me.

Pulita casa in pochissimo tempo, schizzando come una pallina da flipper; 25 minuti di cyclette pedalando come una rapinatrice in fuga; ballato techno-trance per quasi due ore come avessi 20 anni e mi fossi calata; lavorato ad un testo restando in piedi; trovate in facebook 30 cosette carine e deliranti; a piedi al cinema (Mamma mia! film delizioso) andata e ritorno a passo da bersagliere.

Ripeto che non è da me. Io sono, in genere, quella dei tempi dilatati, dellla modalità “risparmio di energia” e della uallera come stile di vita imprescindibile.

Comunque, Mamma mia! è un bel film e, per questo, vi beccate il pezzone degli ABBA.

Ragionamenti iperveloci di ieri mi portano, di nuovo, a pensare di andare via dal Lazio e trovare un altro posto. Un pendolo impazzito che ondeggia senza fermarsi e scegliere.

Così mi sento.

Troppe chiacchiere e pochi fatti.

Chiacchierato al telefono con una vecchia amica che mette di buon umore.

Ma, lo stesso, ho la sensazione di non andare da nessuna parte.

Resto qui a proteggere uno stile di vita che non so nemmeno se mi appartiene, ma “si ha da fare”, mi dico.

Mi ricorda il mio modo di non voler chiiudere la relazione con la mia ex-fidanzata, tutto queso solo perché logica dice che non si dovrebbe fare.

Fare come Maryl Streep e mettere su un albergo in un’isola greca? mi pare il corrispettivo altreoceanico del sogno europeo anni 70 di aprire un bar in Messico…

Ahhh, che noia.

Vado a lavurà, buon inizio settimana a tutti voi seri lavoratori e fancazzisti internettiani.

 

Le abitudini

Soundtrack: Tears for fears Everybody Wants To Rule World

Rientrando stasera, ero su una strada ben conosciuta in tempi passati. Molto passati.

Non so bene che associazione ho fatto, ma sono rimasta folgorata da una riflessione agghiacciante.

Io sono una persona piena di abitudini. La mia giornata è scandita da abitudini di ogni genere e tipo, alcune anche al profumo di Obsession. Magari è il mio segno zodiacale, magari la mia educazione da signorina d’altri tempi; ma no, non è questo.

Io sono piena di abitudini perché non mi so dare delle regole. Incapace. Ancora (e a questo punto credo forever). Non so autoregolarmi e le eteroregole le aborro.

L’unica che avevo per sopravvivere: le abitudini.

Cosa, come e quando mangiare, cosa, come e quando dormire, sistemare, i tempi, i cassetti, la sveglia, la colazione, la doccia, i posti delle cose, i gusti e i colori…

Senza queste sono irrimediabilmente perduta.

Una dodicenne in una caverna.

Una anarchica emotiva. E non ci trovo niente di romantico in questo.

Nulla. Solo un po’ mi aiuta a capire certe paranoie di alcuni dei miei cicci piccoli. Preoccupante…

Me ne accorgo ora perché sono stata costretta a cambiare o quantomeno a tentare di modificare le mie abitudini. Tolte quelle, navigo alla cieca nel vuoto cosmico.

Non mi so fermare e non mi so “regolare”. Praticamente su nulla.

Uff.

La metà basta.

Stasera, peraltro, parlando della situazione lavorativa mi sono resa conto, di nuovo, che poche alternative ho alla fuga dal Lazio.

E anche, come ultimo pensiero della notte, ho realizzato che mi manca umanità e calore. I giorni passati a casa da sola non mi sono sembrati, stavolta, fantastiche vacanze dalla stranezza del mondo, ma una lunga e piatta linea da stato comatoso.

“Voglio una donna” gridò il vecchio (citazione, ma non mi ricordo il film).

Ma sto bene.

Buonanotte, belli de casa.

 

 

Ho scoperto Facebook…

Soundtrack: Jazzamor Sometimes

Nei pellegrinaggi webbiani della assoluta nullafacenza fancazzistica di questi giorni, ho scoperto Facebook.

E sono fottuta.

Non che io abbia trovato amici di liceo o ex fidanzati, ché evidentemente la mia generazione aborrisce la tecnologia. E’ che ho trovato un mondo costruito apposta per fancazzisti e decerebrati/zombie come me.

Si può fare qualsiasi cosa.

Farsi i cazzi degli altri, giocare a cose assurde, sfidare gli amici/conoscenti/sconosciuti della tua lista, passare le ore a cercare persone per lo sfizio di trovarle.

E questo per ora. Mi sono iscritta ieri pomeriggio. ho una vita davanti…

Per il resto tutto bene, ho 37,2 gradi del cazzo e mal di capo, cosa che mi impedisce di scrivere quello che dovrei ma non di passare le ore davanti al monitor.

Significherà qualcosa?

Non riesco ad andare a Garbage City in queste condizioni. Si ha da rimandare. Con grande delusione della mia coinquilina che, mi sa, voleva la casa libera per il we.

Andare dal Fab mi solletica. Ci penserò, significa varie cosette. Vedremo.

Allora buon week end a tutti, divertitevi, scopate, ridete, abbracciate, bevete e fate amicizia.

Volemose bene.

Ahahahahahahahaha.

Fever

Soundtrack: Madonna fever

A casa devastata.

In verità il termometro non ce l’ho, ma non ho dubbi.

Anche la tracheite di merda, che io la odio.

Dopo settimane di assenza malattia legata a sintomi di poco conto: ZOT, beccatela tutta.

Mi vado a comprare le arance (dopo, però, che ora non mi reggono le gambe) e mi faccio le spremutine di vtamina C.

E pensare che vorrei scendere a Garbage City per il we.

Ho la testa vuota e voglio mamma, il che corrisponde circa ai 38° o poco meno.

Comunicazioni di servizio:

  • Fab: non ho capito che hai detto l’ultima volta e non mi hai spiegato;
  • Elide: facci sapere come stai e dove sei
  • V**: che fine hai fatto? non passi più
  • Lettore/ice di Ivrea che passi tutti i giorni, chi sei?
  • Ziasaimon: dove sei pure tu?
  • Crila: ?
  • R&B: come va?

Basta, mi pare di aver detto abbastanza cazzate e poi mi sudano le mani, si sporca il computer di M**.

E poi non riesco a fumare, uff.

 

 

Per il resto tutto bene.

Il cane non mi ha morso

Soundtrack: Fdel – Let the beat kick back

Sìssì.

Serata produttiva e inaspettatamente emozionante.

Il sogno prende forma e ne sono affascinatissima e spaventatissima. Comodo e rassicurante avere persone che sanno indicarti dove andare, devo dire. Anche se a ogni obiettivo raggiunto ne viene chiesto un altro che non credevi neanche esistesse.

E se il sogno mai si dovesse avverare (e così dirò fino a quando non lo vedrò), io credo piangerò.

Grata degli incontri di questo periodo, sguazzo sorridente in tonnellate di chiacchiere, risate e calore umano. Che meraviglia, ce ne sono ancora di persone al mondo…

Scopro stasera, con una punta di orrore, quanto possa essere difficile parlare di me guardandomi dall’esterno. E’ una tortura. Avrei pianto, per ogni domanda, tsunami di acqua salata sulla sedia della cucina. Ma l’orrore non è in questo, è nell’accorgermi che sono diventata bravina a controllarmi (effigurati senza controllarmi…). Non sono sicura sia una buona cosa, sono sicura che si tratti di capacità di dissimulazione acquisita nel peggiore dei modi. Va bene anche così, immagino faccia parte della passeggiata.

Mi vedo anche sempre troppo extralarge, troppo carica, troppo strabordante. Inutilmente peraltro.

Avrei pianto anche per le cose che ho letto. Travolgenti e dritte nel sangue.

Poi ho visto ridere e ho riso. E questo vale la giornata.

Thanx

 

P.S. Oggi, al lavoro, in un panorama deprimente ed avvilente, la Paperella del post precedente è stato “L’argomento”. Pensa te come stiamo. 

 

Adult Toys & Peoples

Soundtrack: Emma Lanford – Pornorama

Come sapete mi vergogno sempre un po’ di parlare widely di faccende sesso-inerenti.

Quindi sarò cauta, piena di eufemismi e secondo me pure imprecisa, non potrò certo tenere il passo con Collezionediuomini o il Sarcotrafficante, epilati linguali frequentatori di penelopebasta.

Gli Adult Toys o Sex Toys sono attrezzi sessuali per adulti (e ci mancherebbe…) di ogni genere, forma e funzione, adattabili ad ogni necessità più o meno immaginabile.

Ma non è questo che mi interessa.

Sono questione di discussione da sempre.

C’è sempre qualcuno che dice: “Io? nooooo, mai!”

Mai è una parola inutile. E se poi qualcuno/a te lo fa provare e ti piace? e se poi te lo regalano a natale in carta dorata e fiocco rosso?

Ma neanche questo mi interessa. La gente dice “MAI” su cose ben più sostanziali di questa. 

Miii, coma la sto prendendo larga. Quindi mi atterrò al cosiddetto “schema descrittivo” che insegno ai cicci piccoli per facilitargli la vita.

1 – CHE COS’E’?

Non è uno, ne sono moltissimi. Sono oggetti. Sono sconosciuti ai più, creativi come nulla altro, maneggevoli, di supporto per coppie più o meno amalgamate e grandi amici di buona parte del mondo lesbico (chi lo nega è vergine). Spesso dotati di vita propria, in altre occasioni adattabili al corpo umano. Si possono utilizzare con una o due mani, con il telecomando, con un laccio (Strap-on) applicabile in vita, alle cosce, alle braccia, al mento (eh eh, questo secondo me non lo avete mai visto, andatevelo a cercare) uso protesi, possono essere mangiati, possono essere applicati sul corpo altrui al fine di tener finalmente fermo il/lo/la/i/gli/le partners e farlo/a/i/e stare cionco/a/hi/he e zitto/a/i/e (che a volte è meglio). Alcuni di essi sarebbe meglio usarli al buio, che a vedere il partner in tal guisa può far scattare crisi di risate incontenibili, altri sono esteticamente s-p-l-e-n-d-i-d-i, da poggiare in bella vista sul buffet del soggiorno. Le lesbiche finiscono sempre per comprarne uno. Le scene al sex-shop sono standard (guardo-non guardo, rido-non rido, indico-non indico, avrei domande da fare ma mi metto scuorno, parla tu-no parla tu). Poi si sostiene che è per divertimento, un paio di volte e poi basta, massai se volevo un pene mi fidanzavo con un uomo… Il problema è quando si lasciano, diventa necessario un avvocato per stabilire l’affidamento dello strap-on. Alcune arrivano ad accordarsi per due week end al mese e una vacanza per una. 

2 – COM’E’?

Oggetti sessuali riproducenti organi sessuali maschili e femminili nelle loro forme più semplici (roba standard da uso quotidiano), ma anche a guisa di oggetti che mai mente umana poco avvezza alla ricreazione sessuale. riuscirebbe a concepire se non con un po’ d’aiuto da parte di amiche scafate. Le dimensioni variano in modo impressionante. Ce ne sono di minuscoli da applicare sotto gli indumenti e utilizzare con il telecomando wireless (“Presto, autista, la signora si sente male!” “non si preoccupi, è un orgasmo, mi è partito il tasto on della butterfly nella calca”) e ce ne sono per gay irrefrenabili (mutanda con fallo anale incorporato all’interno). Palline, paperelle, coniglietti, monaci zen, penne, orsetti, pinguini, girasoli, delfini. Uno di tutto. Studiati per punti G e punti R, in grado di raggiungere punti degli organi interni che manco sapete che esistono (gli organi interni). Trasparente o color pelle (etnicamente parlando), matto o lucido, dal giallo al nero coloratissimi. In Asia riprodurre gli organi genitali è/era reato, così sono stati loro a inventare tutte le forme alternative a quella anatomica in commercio. Anche in questo caso, il proibizionismo supporta lo sviluppo tecnologico.

3 – Di COSA E’ FATTO?

Plastica, latex, plexiglass, vetro (quello pyrex, giuro), gel, cuoio, acciao, silicone, fintapelle (spero). Le lesbiche non vogliono sapere di cosa è fatto. Chissenefrega, abbasta che funziona. 

4 – A COSA SERVE?

Secondo il Fabolous, serve a provare che il mondo ruota intorno al pene (quello è assai cazzocentrico, il fab) e, che, fondamentalmente le lesbiche lo usano perché, sennò: “Che cazzo fanno?”. Non per niente si chiamano giochi. Credo serva a divertirsi, a giocare e fare cose nuove. Sono oggetti necessari per allontanare lo spettro della LBD (lesbian Bed Death) e per creare piacevoli diversivi a letto (“sì ma alla prossima lo uso io”, “No tu no”, “Sì dai”, “Aspetta, un altro giro e te lo do” Io! Io!”, “don’t bogart that strap-on my friend”).

5 – CHI LO USA?

Chi mente e sostiene di non usarlo, di solito.

6 – DOVE SI TROVA?/DOVE SI COMPRA?

Il problema vero, non è comprarlo, che qualcuno che non si vergogna ed entra nel sex-shop lo si trova sempre, ma ritrovarlo dopo averlo nascosto. Non so per gli etero, ma nelle case delle lesbiche c’è sempre una madre che rovista i cassetti, un’amica ospite per un mese e mezzo, un nipotino di 4 anni e così via. Dopo i primi tempi di uso reiterato e ossessivo, come sempre nelle grandi passioni, bisogna pur nasconderlo da qualche parte. Dove? Nel marsupio all’interno della valigia dentro la cesta sul soppalco, nella scatola delle scarpe dentro alla sacca da tennis chiusa nel box ikea sull’armadio, nella scatola degli attrezzi (ogni lesbica ne ha una capiente) avvolto nella carta di giornale dentro all’armadietto dei medicinali sotto al lavello.

“Tesò ‘ndo cazzo sta?”.

“Dove lo hai lasciato l’ultima volta”

 

 

La notte

Soundtrack: Patty Smith Because the night

Toh, che originalità.

Scendo per comprare le sigarette. E’ tardi.

La notte pizzica nel naso.

Inizia con uno sbadiglio che finisce con un brivido al centro delle spalle.

Rumori amichevoli.

Mani in tasca.

Malgrado tutto resto un animale notturno. Gatta custom, da strada ma senza troppe pretese di velocità ed emozione.

Non è atto di coraggio scendere da casa per andar dal tabaccaio nel mio quartiere.

Per questo mi piace.

Qualche macchina spara a palla improponibili canzoni balcaniche o degli untz-untz da ritorno a casa dopo dancing sunday.

Che la domenica finisce prima degli altri giorni della settimana. Ed è la metà del venerdì e un terzo del sabato.

Finisce nel pensiero che domani si ricomincia. Come se ci si fosse fermati. Come se solo il lavoro cadenzasse lo scorrere del tempo e limitasse lo spazio.

Ma non è davvero così. Lo sappiamo tutti ma meglio dirlo a bassa voce. O la settimana muore prima di cominciare.

La notte insiste e persiste. Quando la perdo mi dispiace.

Dormire di notte è una perdita di tempo. Meglio di giorno, quando la luce ti investe e i rumori ti attraversano e le persone urlano e tutto è molto, molto definito.

Da una delle mie case si vedeva il Vesuvio e il golfo steso lungo curvo e illuminato.

Una cartolina un po’ banale. Ma non all’alba, non in quel momento scioccante nel quale le luci si spengono e il sole si appoggia sulla spalla sinistra del vulcano. Lo aspettavo spesso.

Per sapere quando era il momento si andare a letto.

Mi piace ancora la notte nera. Mi piace ancora guardare i palazzi con le luci spente e le finestre chiuse alla ricerca di un segno di vita alternativa.

E Roma ha i suoi landscapes, forse meno bastardamente evidenti. Come ovunque.

Mi piace ancora passeggiare di notte e stringermi per contenere il freddo.

Mi piace ancora mettere le mani in tasca e sentire.

Non è per guardare in alto. Non lo faccio quasi mai. E’ per passarci dentro.

 

– Minchia, tutta ‘sta storia per 150 metri dal palazzo al tabaccaio e ritorno… –

Nuove abitudini

Soundtrack: Cat Power (I Can’t Get No) Satisfaction

Mi spiace di non essere riucita a passare al Tumbler, iersera. La questione merita tutta la possibile solidarietà.

Oooohhh.

Ieri nipotazza a casa tutta la giornata. Aveva problemi di connessione ed è venuta qui. Così me la sono spupazzata all day long. Anche se lei è diventata un cyborg. Metà divano e metà computer, con cuffiette e microfono incorporati, che ripete le stesse frasi in inglese come le signorine del radiotaxi e si emoziona quando dall’altro lato le dicono “lovely”…

Stamattina sono uno straccio. Manco avessi fatto quali stravizi: Circolo degli Artisti e back home alle 3 e mezza. ottima compagnia, più che ottima, moltissimo ridere. Ormai ne sono totalmente dipendente devo dire,  ché non si può farne a meno delle ragazze (Alice, la Va**, la Omaha e la I**, i Pelati). Adesso mi sento come se mi avessero disassemblato e riassemblato alla rinfusa. Mamma mia che fracicume.

Persa l’abitudine.

In compenso mi capita di fare assai cose diverse dal solito. Per necessità, certo, ma pur sempre diverse.

Per quasi 30 anni ho fatto colazione allo stesso modo. Giuro. Lo sanno tutti. Trent’anni di caffellatte e oro saiwa. Mezza confezione ogni santissima mattina. Avrebbero dovuto darmi un premio fedeltà, pacchi premio annuali, medaglie al valore, targhe commemorative.

Poi ho cambiato. Un cataclisma. Sono passata alle macine. 15 anni di macine. Caffellatte semper. Devo comprare il megapacco ogni volta, sennò mi durano scarsi due giorni. Ogni mattina la zuppagna con tre macine a botta, la giusta temperatura che ammolla e non squaglia, il palato rivestito di uno strato cementifero al sapor di panna e nonsocchè. E poi altre tre e altre tre e altre tre. Fino alla soddisfazione assoluta di aver prosciugato del tutto il liquido caffellattifero.

Da una settimana, via le macine. Le provo tutte (ma non mi togliete il caffellatte che sclero e uccido): fibre, biscottini miserabilmente ipolipidici di ogni genere, fette biscottate e marmellata, merendine decolesterolizzate.

Mi sembra di avere cambiato personalità.

Dottor Jeckill e Mr Hyde.

Pare una cazzata.

Ma non lo è. Mi alzo dalla tavola colazionifera, la mattina, con difficoltà nel riconoscimento della mia persona. Che io sia posseduta?

Sto provando anche ad inseguire un sogno, anche. Mai fatto prima.

E con serietà e impegno.

Certo, sarebbe bene io facessi un corso per meglio prepararmi a ciò. Mi servirebbero un paio di parametri in più, per fare le cose per benino.

Ma ho una ottima consigliera. Ed è già un passo avanti.

Mi sa che devo trovare un modo per ridurre il fumo.

Non esageriamo, cambiare abitudini fino a questo punto mi pare troppo, mica sono Mandrake.

 

Strutta e Stracqua

Soundtrack: ma voi lo vedete il soundbox?  no perché a me non si carica

E meno male che non vado a lavurà.

Sono a casa anche il resto della settimana.

Ferie.

Perché a stare lì non ce la faccio.

Quindi oggi cose utili.

Recupero di L** uscito dal San Giovanni e supporto logistico.

Ormai quella zona non ha più segreti per me. In generale, direi, mi perdo meno. Mi pare una buona notizia.

E quanto può essere piacevole, a volte, sentir parlare napoletano stretto, con le sue traduzioni improbabili, le desinenze astratte, l’interpretazione della lingua italiana…

E’ come la cotoletta: sapore di casa. Impagabile.

Io so – di essere una persona fortunata -.

Io so – di avere intorno affetti e cure, malgrado la pessima partenza -.

Io so – di poter contare su persone e attenzioni -.

Io so – che non importa quanto e come me le sono meritate, non è mai questo il punto -.

Io so  – che vivo e vivrò incontri e casualità semper gravidi e pregni -.

Io so – che quello che conta è esserci -.

Io so – di essere una lamentosa fracassacoglioni egocentrica in debito permanente -.

Io so – che sono capace a voler bene -.

Io so – che il modo si trova sempre -.

Buonanotte.