Di Madri, nonne e matrigne

NON HO TEMPO PER TROVARE L’IMMAGINE

Soundtrack: Forest for the trees Dreams

Ho un mal di schiena che la metà basta.

Troppo tempo stesa. Sono presa in un gorgo di pigrizia senza precedenti.

Oggi prendo la bicicletta, almeno mi muovo un po’.

Ieri ho cercato di mettere il post sul blog, ma c’è una fottuta incompatibilità tra la mia pennetta e il computer dell’internet point.

Oggi ci riprovo e vedremo se ci riesco.

Sempre ieri si ragionava, con mia sorella, su quello che proprio uno non ha in sé. Su quello che noi, branco familiare, non siamo in grado di dare.

Non si può cavar sangue da una rapa.

Quando si cresce con un imprinting tanto particolare, come quello di non avere una madre, si alza la soglia del dolore. Impari a sopravvivere e, se puoi sopravvivere a questo, puoi sopravvivere a tutto (e questo non l’ho detto io).

E quello che si posiziona, sulla scala del dolore e dei problemi, al di sotto di quella linea rossa, non conta un cazzo e basta. Cosa da niente è.

La maggior parte delle donne che ho avuto a fianco, ma non solo, sempre questo mi hanno obiettato: “per te valgono solo i tuoi, di problemi, il resto lo sminuisci e sottovaluti”.

E’ vero, è sempre stato vero. Dico spesso che in fondo le nostre sono piccole vite e che, inesorabilmente, ognuno ha la propria personalissima linea rossa a delimitare la soglia del dolore. E che per ognuno è spaventosamente alta.

Ma negli anni, una parte di me ha smesso di rispettare le altrui linee. Una parte di me ha semplicemente cominciato a pensare che chi non ha idea di cosa sia il vero dolore, vale poco o, quantomeno, ancora non ha avuto il benché minimo contatto con la realtà e con la vita. Bimbi col ciucciotto in bocca.

Non è bello. Non è giusto. Non mi ricordo quando ho cominciato a diventare così.

Appartengo ad un branco familiare matriarcale, donne soprattutto pratiche, dall’aria inesorabilmente anaffettiva perché, tutto sommato, non c’è tempo da perdere con le smancerie, i poverina e gli abbracci perditempo. Bisogna fare. Fare subito, entrare in un loop di iperattività da emergenza che sia pragmatico, razionale, potente e che non lasci spazio alle emozioni inutili (piangersi addosso, abbattersi, fermarsi, proteggersi). Camminare anzi, correre e non importa chi o cosa si travolge nella corsa.

Siamo fatte così da tre generazioni

Mia nonna, mater ebrea cellula per cellula, che ci ha cresciuto con costanza e ostinazione, non ha mai concepito pause e/o attese. Fare, muoversi, organizzare,  predisporre, correre, agire. Ma lei è stata anche capace di abbracci caldi e partecipativi, sapeva consolare e farti sentire unica al mondo nella sua attenzione, sapeva leggerti negli occhi il dolore o la sofferenza e sapeva come curarla. Aveva nelle mani il potere di sciogliere ogni nodo dell’anima individuandolo con precisione. Io questo non ce l’ho, e me ne dispiace. Mia nonna un giorno ha detto: “avrei preferito morisse tuo padre, mio figlio, invece di tua madre”. Una dichiarazione d’amore e comprensione, il coraggio di capire e di vedere gli strappi dell’anima uno per uno, la consapevolezza che portare un dolore da adulti è, comunque, più sopportabile.

Fantastica mia nonna.

Poi c’era la moglie di mio padre. Madre coraggio per suo il suo figlio bello e dannato, donna fattiva nel caricarsi addosso una famiglia che non la voleva e che l’ha osteggiata apertamente per oltre 30 anni. Senza tregua. Lei non era donna da perdere tempo. Ci ha educate, ci ha dato il suo. E il suo era: sii autonoma, aggredisci il dolore, sappi chiedere aiuto, non dipendere da nulla, non ti aspettare niente mai e tieniti strette le tue emozioni, che condividerle non è di questo mondo. Mai una carezza, mai un abbraccio, mai una parola di comprensione. Ma presenza costante e adeguata in ogni momento difficile con i suoi modi e i suoi mezzi (storico il suo presentarsi con una pillola di tavor e un bicchiere d’acqua mentre al telefono, a 19 anni, mi comunicavano della morte dell’amico Claudio). Fu lei a mediare per l’organizzazione del mio aborto, lei a parlare con me quando morirono Massimo e Gabriella, lei a sostenere la mia andata via di casa. Con una durezza adamantina certo, ma gliene sono grata, ora.

Mia nipote, che è ormai lontana dalla sua bisnonna “panzer” e dalla sua nonna acquisita “don’t panic”, paga l’assenza di rassicurazioni, lo sguardo severo sui suoi momenti di cedimento passivo, la mancanza di parole di compassione (nel senso letterale del termine), l’assenza di abbracci e di carezze da incoraggiamento. Cerca di barcamenarsi e sopravvivere ad una modalità di essere che non prevede sconti, pause, cadute senza risalite, perdite di tempo.

Sarà anche per questo che, almeno io, ho la tendenza a drammatizzare sempre tutto. Se le cose appaiono peggio di quel che sono, forse si riesce a rimediare un abbraccio caldo o uno sguardo di approvazione. Non c’è più nessuno che debba o possa fare questo per me, non è tempo e non è il caso, ma è una sensazione che non muore, una incoercibile tendenza bambina.

Anvedi questa immobilità fisica dove mi sta portando.

Se dovessi riuscire a pubblicare sul blog ‘sti pezzi, saranno cazzi di chi legge. Noia mortale.

Non dovrei ma so che lo farò.

P.S. Ieri, a Napoli, hanno arrestato un ginecologo che faceva aborti clandestini. E’ lo stesso del quale parlavo nel mio post sull’aborto. Lo hanno preso dopo 30 anni. Il suo collega si è beccato anche una accusa di molestie. Non è cambiato niente.

Di zavorre e di armature

 

Soundtrack: The Doobie Brothers Long Train Running

23 giugno 2008 (che non so cambiare la data sul post)

Non amo scrivere in treno. In aereo mi calma, ma in treno mi rintrona. Mi rintrena?

Sto ascoltando Alanis, quello nuovo e do inizio alla mia settimana di passione. Vado da mia sorella per riflettere, per disintossicarmi, per venire a capo, ancora una volta, come sempre, come in ogni altri singolo giorno della mia vita, di me.

Sarà per questo che, periodicamente, mi incaponisco ad occuparmi di qualcun’altra che, possibilmente, stia peggio di me.

Pensiero altro per distogliermi da pensiero me.

Può essere altrettanto faticoso, ma sempre e comunque meno doloroso.

In Tassì mi veniva in mente un film di più dieci anni fa: Mission. C’è Robert De Niro che attraversa l’intera jungla amazzonica trascinandosi appresso la sua armatura e tutte le sue armi. Per scontare la colpa. Aveva ucciso per gelosia ed arroganza. Il fratello.

C’è un momento, forse più di uno, nel quale si va in giro trascinando la propria armatura e le armi usate di solito per scontare qualcosa. Qualcosa che non ci si riesce a perdonare. Se non diventasse metaforico, avrebbe un valore reale. La fatica fisica è l’unica cosa che placa la rabbia e l’orrore di sé.

Se si potesse provare fatica fisica, a trascinare i propri sensi di colpa, prima o poi ti sentiresti fiera di te – perché lo fai –, poi più forte – perché il peso resta uguale, ma tu diventi più potente -, poi sapresti che è arrivato il momento di buttare tutto via. Tutto. Che hai fatto sta strunzata sufficientemente a lungo, che un obbiettivo lo hai raggiunto, che ci sei riuscita a venirne a capo.

E la sensazione di leggerezza la sentiresti tutta per intero. Nel corpo, nelle spalle, nella schiena. E potresti volare, volendo.

Ma questa fisicità non c’è nel rapporto con i sensi di colpa e/o rimpianti e/o semplice senso di responsabilità nei confronti delle cose e dei fatti dei quali sei stata protagonista. Quindi puoi andare avanti tutta la vita e, in qualche caso, lasciare anche la tua zavorra ad altri prima di andartene. Succede.

Dunque, mettiamo che mentre stai girando per la jungla amazzonica con la tua armatura di ferro attaccata alla schiena, incontri qualcuno che fa la stessa cosa.

Identica.

Saggezza vorrebbe che tu ti allontanassi, il più velocemente possibile. Che tu cambiassi strada, che fingessi cecità assoluta. Una cosa così.

Ma magari no, ti guardi negli occhi e vedi nello specchio il tuo dolore e la tua paura. La tua stessa intolleranza all’esistenza, la stessa voglia di riscatto con te stessa.

E pensi bene di iniziare un pezzo di sentiero insieme.

E fai male.

Ma anche per lei è uguale. Vede la stessa cosa. Vede un modo per alleggerire il cammino. Come te.

No. E’ solo un incontro sbagliato al momento sbagliato. Un incontro di quelli da non augurarsi. Non in questo modo, non con questo peso.

E magari qualcosa funziona, magari chiacchierando e piantandosi gli occhi negli occhi sembra tutto più leggero, più agevole, più breve.

In qualche momento riesci persino ad offrirti di portare un po’ del suo acciaio. E lei del tuo. Sembra bello.

Non lo è.

E non è colpa di nessuno. E’ solo un buco nero che si sarebbe dovuto evitare. Senza nulla togliere al valore delle persone e del loro dolore, senza nulla togliere alla bellezza, alla gentilezza alla piacevolezza.

Buco nero.

Quando lo hai capito e lo scansi, ricominci ad odiare. Ricominci a sputare merda. Ricominci e basta.

Aggiungi qualcosa alla zavorra. Una ginocchiera, un elmo, un’altra spada. Perché dopo un po’ ti accorgi che stai facendo la stessa cosa per la quale vai in giro ad autopunirti con cura maniacale.

Ed è solo per questo che andava evitato quell’incontro.

Per il resto le persone sono quello che sono. Belle e brutte, orride e meravigliose, gentili e bastarde, intelligenti ed ottuse.

Niente altro, niente di diverso da te.

Questo cd della Alanis lo avevo sottovalutato. Sto a rota di sigaretta e non poco. Peraltro il cesso è impraticabile. Devo trovarne un altro. C’è un altoparlante che ronza ininterrottamente da quando siamo partiti. Angosciante.

Non mi aspettavo un pendolino così affollato. Lo chiamano Eurostar. Dovrebbero mettersi scuorno (=vergognarsi N.d.T.).

Cercherò di fumare alla prossima fermata.