Soundtrack: Tuck & Patty – Time after Time ( 1988 )
Com’ero 20 anni fa?
Non me lo ricordo.
E 10?
Buio totale (nel caso vi toccavano Puff Daddy o Madonna come soundtrack).
Ricordo, ma non so quando, di essere stata una persona distruttiva, violenta, disgregata e senza nessuna idea su chi fossi per davvero.
Per lo più (ma si scrive attaccato o staccato?) una stronza.
La frase che mi ha accompagnato per un decennio buono era: “ti voglio bene ma non ti stimo”. Una cosa atroce da sentire quando capisci che cosa significa. Ma ci vuole tempo e fatica per capirlo. E manco sono sicura di averlo capito ora.
Vagavo nei vuoti della mia personalità (?) cercando di diventare un essere pensante, autonomo, ragionevole e affidabile. Facevo anche un po’ finta, intorno ai 35, di essere diventata una persona fatta e finita.
Se cerco di dare un senso al mio “percorso” (maddai come sto anni 80 stasera) devo prendere in mano un volume della “Enciclopedia della Patologia Mentale da Adamo ed Eva ai giorni nostri”. E non è detto che lì trovi qualcosa che mi possa aiutare a riordinare il tutto.
Dentro e fuori le cose di continuo. Cento cose iniziate e non finite. Fughe forsennate. Margini. Autoesclusioni. Proteste silenti che mi facevano esplodere la giugulare.
Amicizie tirate e massacrate fine al limite più estremo. Prove di forza. Polemiche sterili per restare lì, al centro del mondo degli altri. Affetti giocati sul tavolo verde (o la va o la spacca). Movimento perenne da necessità di non pensare, non pensare, non pensare mai.
Denaro che scivolava dalle mani come fosse olio d’oliva. Relazioni affettive da incubo. Terrore di misurarmi con le cose, le persone, la realtà, la società, i ruoli, le responsabilità (detto così, però, mi pare che io stia parlando di stamattina).
Ma io questo non lo sapevo. Credevo di essere definita e solida, credevo di essere sfaccimma (=figa, N.d.T.), tosta e assolutamente alternativa alla noia terrorizzante della mediocrità. Credevo di essere meglio, credevo di saperci fare, di essere l’unica a sapere come si vive davvero, di essere più viva di chiunque altro.
E gli altri erano nemici. Nemici che non capiscono, che non sanno campare, che non sono sinceri abbastanza, onesti abbastanza, liberi abbastanza da avere a che fare con me.
Che tenerezza.
Quando vedo una persona ancora incastrata in quel fottuto labirinto di specchi deformanti, mi sanguina il cuore. Allungherei la mano per tirarla via di là, per riportarla al sole, alla luce impietosa che mostra solo il terrificante vuoto che ci si porta dentro. Non riesco a farne a meno. Sono capace anche di mettermi lì, all’uscita, e aspettare che qualcuno si aggrappi alla mia mano. A volte ho preso gli specchi a testate. Ma le mani non si aggrappano e la testa mi ha fatto male.
CRIPTOPOST carico di reconditi significati che “me capisc’ sul’ io”.