beata solitudine

Soundtrack: Ambersunshower – Rythm Child

Alone. At home.

Quando è una scelta, è la migliore scelta possibile. Quando non hai alternative, provoca colorito verdastro, rotazione del capo a 360 gradi e crisi ossessivo compulsive multimediali.

Ogni tanto mi ci vuole. La vecchia pazza con rigurgiti postadolescenziali che è in me si assenta e viene fuori la voglia di starmene a fare cose che mi rilassano, riposano, aiutano a riflettere.

Stirare?

Sìssì. Togliere le piegoline, dare una forma geometrica rifinita alle cose, come ai pensieri. Una pausa incredibilmente liscia tra una discesa di montagne russe e una ondata di piena.

Scrivo poco e male, ultimamente. Forse non ho il tempo di riflettere o di dare una forma precisa ai pensieri. Di solito macino ragionamenti come le rotative della Gazzetta dello Sport (riferimento non casuale, sia per qualità del pensiero che per numero di copie). In questo periodo la frase più illuminante che mi passa nel cervello deneuronato è “vabbuò, poi vediamo”.

E neanche stasera ho molta voglia di pensare. Ho un po’ di tempo ancora e voglio prendermelo tutto.

Poi vediamo.

Eppure cose sulle quali riflettere ce ne sono in quantità industriale. Anche (soprattutto?) about le mie relazioni umane. Relazioni umane? no, relazioni donne.

Ma anche per questo ho ancora un po’ di tempo.

Ho sempre in testa un post sul mio lavoro, ma non prende mai una forma definitiva e definita, manca qualcosa o qualcosa mi sembra eccessivo da dire (a me?), ma mi piacerebbe spiegare che cazzo faccio 7/8 ore al giorno chiusa in quel posto.

To whom it may concern.

C’è qualcuno che non parla inglese? – oltre me, dico -.

Noto che tendo inevitabilmente al delirio decontestualizzato. Segno di poco da dire.

Sono dove volevo essere. L’ho già detto? mi pare di sì. La faccenda mi stupisce e, stasera, mi stupisce anche la calma che mi gorgoglia in petto.

Mi guardo intorno e, quando riesco a formulare forme verbali, mi rendo conto che molte, davvero molte cose, sono cambiate per me. 7 vite, a occhio. Credo sia quello che mi piace fare malgrado i miei lamenti, le mie sbattute di piedi e le mie recriminazioni. Ho camminato e corso, sudato e preso capate contro i muri, strepitato e sussurrato quello che avevo da dire, massacrato altri e me stessa. E sono ancora qui.

Dato che mi sembra probabile che, vista la vita che conduco attualmente, una di queste mattine io non mi svegli affatto (4 ore di sonno a notte, lavoro, alcolici, cibo scombinato e postura standard da giudatrice di automobile metropolitana, il tutto senza fare uso di droghe chimiche), si sappia che mi è andata di lusso. Lussissimo.

Ma mi auguro che la genetica familiare prevalga, ho ancora un po’ di cosette da fare, non me le vorrei scansare. Ci tengo. Vorrei avere il tempo di diventare adulta, soprattutto. Cosa che avviene con una procedura piuttosto farraginosa e lenta quando si è lesbiche.

Perché non è pensabile che una le responsabilità se le vada a cercare, se non ne ha la necessità. Sarebbe una follia pura. Quindi i tempi si dilatano a dismisura e all’adultitudine non ci si arriva mai nei tempi giusti. Che poi quali sarebbero i tempi giusti? Bah.

E se essere adulti non è solo prendersi responsabilità, cos’altro è?

Esperienza. Esperienza? quella te la puoi fare anche a 8 anni, ma non ti fa né sentire né essere una adulta. L’esperienza serve per sfangarla, per bypassare, scappottare, scansare quello che non si vuole affrontare: responsabilità. Vedi che torna? lesbiche adolescenti permanenti. E, secondo me, siamo quasi tutte così.

Con la patente di bimbe un po’ furbette in un loop ludico senza spazio né tempo.

Giochiamo a fare le coppie, le donne, le adolescenti, le arrabbiate, le fuori schema, le esperte della vita. Giochiamo fra di noi ai quattro cantoni, a rubabandiera, a palla avvelenata. Giochiamo a fare le invisibili. Giochiamo a fare quelle che bastano a loro stesse. Giochiamo a “ignoriamo il mondo” e a “vaffanculo, tu no”.

Giocherellone incorregibili.

Lesbiche irresponsabili.

Donne al quadrato.

Che meraviglia e che culo.