Soundtrack: Frédéric Chopin – Studio op.10 n.12 in Do minore “La Caduta Di Varsavia”
Stasera mi sento irrequieta.
Roma è deserta. Sono tornata in macchina da piazza di Spagna attraversando una città luccicante di pioggia sottile e bella da non credere. Mi sono persa piacevolmente in un gran numero di strade laterali che ho scelto di imboccare senza sapere dove sarei arrivata. E sono arrivata a casa. Comincio a sentirmi meno ospite e più “abitante” e ricordo le centinaia di notti passate in macchina in giro per Napoli, senza un posto dove andare ma molta voglia di non fermarmi.
E’ una sensazione potente.
Un paio di giorni fa, in macchina (bella, la mia macchina, un pezzo di casa è), la pennetta Mp3 ha rovesciato fuori dalle casse – tra i Prodigy e i Cure – la “caduta di Varsavia” di Chopin.
E io ho capito. Ho capito che quello che non mi torna mai, in qualsiasi versione di questa meraviglia io ascolti, quello che me lo fa sentire ogni volta “non esatto” e non completo, è la mancanza del rumore delle unghie di mia nonna sui tasti del pianoforte.
Ho ripetuto spesso che sono, fondamentalmente, rozza e ignorante. Ovvio quindi che la musica classica, generalmente mi annoi mortalmente. Ma Chopin è un’altra cosa. E “la caduta di Varsavia” è un’altra cosa.
Credo che le pareti del mio muscolo cardiaco siano foderate con gli spartiti di Chopin. E’ un pezzo della mia formazione affettiva.
Nel salotto di mia nonna, davanti ad una finestra aperta sul panorama di Posillipo, era steso un pianoforte a tre quarti di coda, nero, con tasti di ebano e avorio. Un Bösendorfer. Mia nonna lo apriva, ogni pomeriggio dopo le cinque – come da orario condominiale – e suonava per noi.
Ero piccola e chiedevo Chopin, chiedevo la Caduta di Varsavia perché, ogni volta, mi pareva che Varsavia cadesse sulla mia testa, come una pioggia di note perfettamente visibili e straordinariamente tangibili. Ben distinte, una per una, le conoscevo tutte, compagne di gioco dei miei pomeriggi a casa della nonna.
Sentire queste note, da bambina, seduta sotto la coda del pianoforte, guardando i piedi di mia nonna sui pedali (e quel rumore, ogni volta che un pedale veniva abbassato, di meccanismo e fili che si tirano), era una emozione che mi prendeva dalla testa ai piedi. Ogni singolo senso era compreso, avvolto, coinvolto, stravolto, stropicciato e, quindi, abbandonato, su quei quattro accordi finali che aspettavo e dei quali conoscevo il preciso tempo e momento.
Le unghie di mia nonna sui tasti e il “tic” dei pedali dalla strana forma, non ci sono mai nelle registrazioni ufficiali, e io non ne ho una sua.
Vedevo muri che crollavano, mattoni sbriciolati, polvere e dolore. Aspettavo le scale con un’ansia vicina al terrore, terrore dell’emozione che sarebbe arrivata e scivolata di lato, appoggiata sulle mani di mia nonna, agili e ferme, veloci e straordinarie. E il parkinson spariva sempre, quando suonava. Le dita lunghe, la pelle chiara, le macchie a milioni che ci ricordavano i suoi capelli rosso tiziano che noi non avevamo mai visto.
Gli occhi semichiusi, ad un tratto il movimento veloce della mano destra per girare la pagina dello spartito (ma era solo per abitudine, sono sicura che non lo leggesse affatto). Qualche volta l’onore di aspettare un suo gesto per essere io quella che girava la pagina, più veloce e silenziosa possibile. Precisa, sennò la magia si interrompeva.
E mi chiedevo ogni volta come fosse possibile emettere tanti suoni con sole 10 dita. E come fosse possibile arrivare al cuore e all’anima così direttamente, profondamente, irrevocabilmente.
Magia.
Quelle scale da brivido, troppo basse, troppo alte, troppo piene. le note tra i capelli, sugli occhi, nel naso. Soffocare di musica e guardare mia nonna mescolarsi con Chopin, con il pianoforte nero, con la mia gioia, con l’amore che provava per quello che stava facendo, per noi, per la vita.
Poi qualcosa nella musica si apriva e a me pareva il mare, parevano le onde, pareva un guardare la foschia dopo la battaglia di non so cosa. E fuggire e fermarsi e ripartire per morire.
Ha suonato finché ha potuto, malgrado il parkinson ed il glaucoma, un giorno ha cambiato il piano con uno Yamaha rosso, a mezza coda, corde incrociate. Io non volevo, mi pareva un abbandono, una perdita, un lutto. Niente più rumore di meccanismi che si muovono, niente più arpa nascosta nel pianoforte, sparito il terzo pedale, nessuna emozione nell’alzare quel copritasti nero e lucido e scoprire la scritta gotica dorata.
Ma lei diceva che era diventato impossibile accordarlo. Ci impazziva per quelle stonature incorreggibili.
Prima di andar via, mia nonna disse a mia sorella che, in quel pianoforte, lasciava la sua anima.
La mia amica B** lo ha suonato, quel pianoforte, e ha detto che la sua anima l’ha vista.
Mia nonna è nata ad Alessandria d’Egitto, sua madre era italiana e suo padre greco di Salonicco. Parlava 5 lingue ed era una regina.
Ma questa è un’altra storia.