Sono stanca, profondamente stanca. Non mi pare di avere intorno più un granché di familiare. Un effetto campo di battaglia. polvere, detriti, sudore lacrime e sangue, ferro e brandelli. Non è nemmeno la calma dopo la tempesta, è quella sensazione da intervento della Protezione Civile.
Sono stanca di mollare e tenere, stanca di portare valige, stanca di pensare, stanca di tradurre le mie giornate in cose da scrivere. Sono stanca di guardarmi, stanca di essere sempre e comunque la stessa. Stanca di me.
Mi guardo intorno e mi chiedo quale può essere il livello massimo della mia stupidità. Cosa vedo davvero, cosa è vero e cosa no. Dove sono e chi sono le persone, io cosa c’entro, io quanto c’entro.
Mi pare che qualcuno mi trattenga la testa sott’acqua da giorni. Non riesco a respirare. E mi piace.
Cosa sono capace di fare. Cosa le persone possono avere da me. Cosa ho capito e cosa mi sono inventata. Domande che mi staccano un neurone alla volta, un neurone dopo l’altro.
Che pochi ne ho.
Allora non ce la faccio a scrivere. Non sono certa mi sia mai capitato prima – essente che sono grafomane oltre che logorroica -, ma mi sento un’idiota. Totale.
Non mi piace neanche più quello che scrivo.
il valore delle cose.
il valore delle persone.
Le battaglie perse in partenza.
La fiducia.
L’orgoglio.
Le richieste.
Costruire.
Difendere.
Mostrare.
L’onestà.
Demoni e Fantasmi.
Imbrogliare.
Attaccare.
Il pregiudizio.
Guardarsi allo specchio.
Le lacrime.
Essere come.
Mentire.
Gli strumenti.
Distruggere.
Regalarsi.
Guardarsi negli occhi di altri.
I desideri.
Apparire come.
Nascondere.
I sentimenti.
il dolore.
Il tempo che passa.
Le emozioni.
La birra.
Il blog.
Conoscere.
La cecità elettiva.
Informarsi.
Scoprire.
La fantasia.
La gatta nera.
La rabbia e il furore.
Coprire.
Regalare.
La realtà.
La realtà.
La realtà.
Quale?
Parole che definiscono cose che faticano ad essere definite. Definizioni di stati d’animo che scivolano uno nell’altro e nell’altro e nell’altro senza trovare Il Luogo. Luoghi senza un tempo e senza una dimensione. Ché la dimensione è un parametro variabile. Variabile come le increspature del pensiero. Un pensiero che non trova definizioni.
Bentornata. Ci sarebbe da dire. Eccoci, Penelope, di fronte a quella porta, di quel treno, di quel viaggio. Ricordi? avevi sbagliato vagone, avevi sbagliato treno, avevi sbagliato viaggio già molto tempo fa. Cosa ti fa pensare che questo sia il giusto binario? dentro non è cambiato niente, il tuo sguardo è ancora quello sguardo, perché mai dovresti vedere ciò che è e non ciò che vuoi sia?
Melodrammatica più del solito. Si evince che è meglio pausare.
Ovvero delle coppie lesbiche. Che hanno caratteristiche peculiari, riconoscibili, standardizzabili. Sempre.
Immagino che a qualcuno di voi possa maggiormente interessare come è andato il mio week end a Capri con i Fabolous. Vi basti sapere che, malgrado il freddo islandese, sono state splendide giornate sotto ogni punto di vista. Le seccie, non hanno avuto effetto. Ma niente bagno, sarà per il prossimo ponteperontepponteppì. Aggiungo anche un paio di cose alla mia wish list del compleanno: un GPS e un tatuaggio.
Manuale di lesbicologia.
Assumendo che, per lo più, chi si somiglia si piglia, è ovvio che le coppie lesbiche siano composte da due donne appartenenti, quasi sempre, alla stessa categoria. Quasi sempre.
A volte, invece, la coppia è sorprendentemente incompatibile. Ma resiste. Sulle modalità della resistenza, sorvolerei.
Ci sono le coppie che dopo qualche mese si mescolano in un tutt’uno senza soluzione di continuità: stessi vestiti, stesso taglio di capelli, stessa palestra di full contact, stesso lavoro, stesso linguaggio. Le gemelle omozigote del sentimento.
Esse tendono, nel tempo, a cancellare i nomi propri sostituendoli con nomignoli neutri e, generalmente, abbastanza standardizzati: Amò, Tesò, Cicci, Bibi. In questo modo, inesorabilmente, viene eliminata anche l’ultima parvenza di personalità, laddove ne fosse sopravvissutauna.
Ma anche quelle che appaiono diverse tra loro tanto diverse non lo sono mai. Magari una sembra più labrador dell’altra, la prima rivolge parola al suo prossimo, la seconda si trova il suo angolino nello spazio e si limita ad una apparentemente distratta osservazione della realtà circostante.
In realtà si tratta di una diabolica operazione congiunta e, perlopiù, quella che appare più socievole e giocherellona, è quella depressa. L’altra controlla, vede, provvede, teorizza, classifica, programma e sta una meraviglia.
Ci sono quelle che sembrano talmente incompatibili da rimettere in discussione la teoria della relatività. Non è detto che sia solo una questione estetica, affatto, anche se quella un certo peso lo ha. No no, è questione sostanziale.
Una adora la folla della discoteca, l’altra preferisce luoghi di eremitaggio in Afghanistan. Una compra scarpe compulsivamente, l’altra concepisce solo polacchine e infradito al cambiar stagione. Una beve, l’altra fuma (e mai nella stessa serata che stiano fatte tutte e due), una vuole viaggiare solo in moto, l’altra non ha la patente ma preferisce il tassì.
E poi ancora la coppia storica, la coppia vintage, quella che ha dato il via alla mitologia delle unioni lesbiche: la butch e la femme. Quasi sempre quella che mette lo strap-on, a letto, è la femme. Significherà qualcosa? Non mi voglio addentrare, per carità.
Il sesso è l’unico luogo della mente e del corpo dove ognuno è libero di fare, essere e mostrare quello che gli pare.
E di questo argomento, parleremo ancora.
Prima o poi i “comportamenti sessuali delle lesbiche” divisi per categorie, vi toccano.
Ultimo post prima di pausetta week end, sufficientemente sconnesso. Non ho una idea precisa, quindi si va a cazzo.
Prima di tutto il resto, che è stato scritto un’oretta fa, c’è una cosa che devo dire worldwide, perché sia chiaro che, per quanto bestia io sia, non sono una belva: so’ lemure.
[Ho da dire che, nei miei incontri, sono una persona fortunata e che, malgrado sia a tratti una guerra, è spesso una meraviglia e che, senza dubbio, sono onorata. Ho da dire che forse c’è un piccolo intoppo sul piano comunicativo e che forse dipende dalla mia totale disabitudine alla comunicazione verbale emotiva. Forse dipende anche dall’incredibile elettricità che esiste tra personalità che hanno similitudini e differenze quasi intollerabili, forse dipende solo dal fatto che sono una testa di cazzo. Forse dipende dal fatto che si pensa sempre, qualche attimo prima, di conoscere la risposta e i suoi retroscena. Ma non è sempre così, sto imparando. Alla fine ognuna sta come sta; ferite, sangue e potenza. Passeggiamo per questo tratto di strada ed è già abbastanza. Prove tecniche di trasmissione. Test strutturali. Revisione progetti. Comunque grazie sempre, che ringraziare non fa male.]
Ora, quello che ho scritto stamane.
Io voglio imparare a dire quello che penso anche con l’apparato fonatorio, non solo su carta.
Voglio essere fuori dai meccanismi del giudizio. Voglio imparare a fottermene che, a 45 anni, sarà pure ora.
Farò festa di compleanno a Roma. Regali che voglio:
Libreria Expedit – cd Alanis Morrissette – pentole nuove – lenzuola – roba da mettere in cuollo – orecchini/collane/anelli luccicanti – macchina fotografica digitale – altri pezzi lego. Al resto penserò.
Perché io costruisco fantastiche casette con il lego. Anche di 9 piani con terrazzi e portici. Faccio anche disegni colorati organizzati sui muri portanti. Per fare questo, prima raggruppo tutti i pezzi per colore, forma e misura. I raggruppamenti hanno strutture precise che, ormai, conoscono anche le mie colleghe di lavoro (perché le casette le costruisco al lavoro) e mentre costruisco, nessuno deve toccare niente (e lo sanno pure i cicci piccoli che mi chiedono di giocare con i pezzi che non uso, per non incorrere nelle mie ire).
Ognuno è complulsivo a modo suo.
Dico sempre al mio amichetto Fabolous, grande sostenitore della ricchionitudine maschilistica, che “Asso e asso fanno fracasso”. Chi vuol intendere intenda.
Ma le regine di cuori, messe vicine, più che fracasso fanno spettacolo da circo. Trapeziste che non si fidano, caroselli equestri con cavalli che vanno per i cazzi loro, contorsioniste della parola e del sentimento, funambole che scivolano sulle corde, domatrici che si lasciano mangiare dalle tigri. Quasi quasi divento etero. Che ogni lesbica è donna a modo suo, ogni lesbica ha le sue paranoie e deliri e crisi ormonali. Ma ogni donna, è lesbica a modo suo?
Non mi voglio fidanzare. Perché quando mi fidanzo divento baccalà. Non voglio proprio più. Ahhh, sia chiaro, non mi riferisco a nessuna in particolare, ma all’intera categoria. A me in particolare, che ormai sono più lesbica che Penelope. E pure banana. Se cominciassi ora a corteggiare qualcuna, finiremmo a letto nel 2050. E non so più neanche che tipo di donna mi piace. E una delle poche che mi è piaciuta integralmente, non me l’ha mai voluta dare. Banana. Non me la darà mai più, mi sa, ormai quel che perso è perso. Però potrebbe venire a casa mia a citofonare, lo prenderei come un buon segno e ce la sbrigheremmo entro il 2010.
LESBICHE. Possibile che non esista una parola un po’ più ironica di questa?
Masculillo. Si diceva a Napoli. Ma non si dice più.
Si sappia che voglio fare uno spettacolo con i miei monologhi e i pezzi musicali della Sonica. Ce la faremo? Non so, mi pare che abbiamo la stessa tendenza alla permalosità ed alla protezione delle proprie creature. Ma ce la faremo.
Vado a fare il week end in un posto che, puntualmente, mi tira fuori senza controllo ricordi del secolo scorso. Non ne posso fare a meno. Ci andavo con mia madre e ogni volta diventa una mappazza di sensazioni violente e dolcissime.
Ma stavolta voglio fottermene. Mi rilasso e prendo il sole. Se nessuno mi mette la seccia (=cattiva sorte, sfiga N.d.T.).
Nella disciplina dell’Aikido (un’-arte-marziale-molto-poco-conosciuta-ma-assolutamente-pura-e-splendida-da-praticare), le tecniche hanno nomi giapponesi che finiscono, quasi sempre, per “nage” (leggi naghé).
Strano a credersi ma ho praticato Aikido per 3 anni. Una cosa faticosissima, e dai 40 in poi, mica da piccola. Il mio Maestro è il fratello del biblicamente paziente Giobbe e la fidanzata del Maestro è una anime giapponese originale e meravigliosa e, per conseguenza, cognata di Giobbe.
Due anni per imparare a cadere. E mica chissà come, pure una chiavica. Tre anni per prendere il primo esame. Sono sesto Kyu. I bambini sono sesto kyu. Ma l’idea dell’esame mi sembrava terrificante.
Mi ero esercitata con molto impegno e mi si erano piagate le ginocchia e non ho avuto il coraggio di dirlo al mio Maestro. E nell’esame ci sono tecniche da fare (ma va?) in ginocchio. Un dolore… Ma io muta e dignitosamente composta. Certo non feci una gran figura.
Comunque, ci sono meravigliose tecniche da imparare per neutralizzare qualsiasi colpo o aggressione.
Ero una puzza.
Ragionando sulla stranezza del mio comportamento (ovvero iscrivermi e frequentare un corso che prevede dinamismo fisico e sudore da sforzo), mi sono accorta che, personalmente, conosco una sola tecnica di difesa, applicabile ad ogni possibile situazione di pericolo reale o presunto: fingermi morta.
Come la quaglia.
Del che: quaglianage.
La tecnica della quaglianage prevede che, in caso di situazioni che potrebbero, ipoteticamente, forse ed aventualmente, contenere in sé delle microbiche quantità di presunto pericolo, io mi immobilizzi, smetta di respirare, mi addormenti di colpo – se proprio la situazione sembra troppo carica di potenziale, immaginifica, aggressione – e, in qualche caso, che riesca financo a bloccare l’attività cardiaca.
E’ una tecnica che applico almeno 6 volte al giorno, in ogni possibile situazione.
Il fatto è che, per ora, mi ha salvato il culo.
Il fatto è che, in questo periodo, lo faccio continuamente.
Il fatto è che, fondamentalmente, I’m so scared.
E non so manco di che cosa. Io odio l’espressione “sono confusa”, la odio e la ritengo una delle peggio strunzate che apparato fonatorio umano possa produrre ma, fermo restando questo mio odio quando la suddetta (frase) viene pronunciata in questioni di coppia, mi sembra che un po’ in confusione ci sto.
Mi si dice che non scrivo più e non dico più cose interessanti. Non mi si dice proprio così, ma siamo là.
Il fatto è che, fondamentalmente, quello che avrei da dire riguarda, decisamente, un singolo essere umano e, per educazione, ogni volta mi parrebbe il caso di esprimerlo prima verbalmente to whom it may concern, poi, magari, on the blog.
Ma verbalmente non dico una beneamata minchia di quello che penso. Praticamente mai. So, il blog resta appeso a quello che avrei da dire e che ritengo sia disdicevole scrivere.
Autocensura perlappunto.
Ora ho poco tempo, mi si richiama al lavoro. Ma di questo avrò bisogno di parlare.
Quando è una scelta, è la migliore scelta possibile. Quando non hai alternative, provoca colorito verdastro, rotazione del capo a 360 gradi e crisi ossessivo compulsive multimediali.
Ogni tanto mi ci vuole. La vecchia pazza con rigurgiti postadolescenziali che è in me si assenta e viene fuori la voglia di starmene a fare cose che mi rilassano, riposano, aiutano a riflettere.
Stirare?
Sìssì. Togliere le piegoline, dare una forma geometrica rifinita alle cose, come ai pensieri. Una pausa incredibilmente liscia tra una discesa di montagne russe e una ondata di piena.
Scrivo poco e male, ultimamente. Forse non ho il tempo di riflettere o di dare una forma precisa ai pensieri. Di solito macino ragionamenti come le rotative della Gazzetta dello Sport (riferimento non casuale, sia per qualità del pensiero che per numero di copie). In questo periodo la frase più illuminante che mi passa nel cervello deneuronato è “vabbuò, poi vediamo”.
E neanche stasera ho molta voglia di pensare. Ho un po’ di tempo ancora e voglio prendermelo tutto.
Poi vediamo.
Eppure cose sulle quali riflettere ce ne sono in quantità industriale. Anche (soprattutto?) about le mie relazioni umane. Relazioni umane? no, relazioni donne.
Ma anche per questo ho ancora un po’ di tempo.
Ho sempre in testa un post sul mio lavoro, ma non prende mai una forma definitiva e definita, manca qualcosa o qualcosa mi sembra eccessivo da dire (a me?), ma mi piacerebbe spiegare che cazzo faccio 7/8 ore al giorno chiusa in quel posto.
To whom it may concern.
C’è qualcuno che non parla inglese? – oltre me, dico -.
Noto che tendo inevitabilmente al delirio decontestualizzato. Segno di poco da dire.
Sono dove volevo essere. L’ho già detto? mi pare di sì. La faccenda mi stupisce e, stasera, mi stupisce anche la calma che mi gorgoglia in petto.
Mi guardo intorno e, quando riesco a formulare forme verbali, mi rendo conto che molte, davvero molte cose, sono cambiate per me. 7 vite, a occhio. Credo sia quello che mi piace fare malgrado i miei lamenti, le mie sbattute di piedi e le mie recriminazioni. Ho camminato e corso, sudato e preso capate contro i muri, strepitato e sussurrato quello che avevo da dire, massacrato altri e me stessa. E sono ancora qui.
Dato che mi sembra probabile che, vista la vita che conduco attualmente, una di queste mattine io non mi svegli affatto (4 ore di sonno a notte, lavoro, alcolici, cibo scombinato e postura standard da giudatrice di automobile metropolitana, il tutto senza fare uso di droghe chimiche), si sappia che mi è andata di lusso. Lussissimo.
Ma mi auguro che la genetica familiare prevalga, ho ancora un po’ di cosette da fare, non me le vorrei scansare. Ci tengo. Vorrei avere il tempo di diventare adulta, soprattutto. Cosa che avviene con una procedura piuttosto farraginosa e lenta quando si è lesbiche.
Perché non è pensabile che una le responsabilità se le vada a cercare, se non ne ha la necessità. Sarebbe una follia pura. Quindi i tempi si dilatano a dismisura e all’adultitudine non ci si arriva mai nei tempi giusti. Che poi quali sarebbero i tempi giusti? Bah.
E se essere adulti non è solo prendersi responsabilità, cos’altro è?
Esperienza. Esperienza? quella te la puoi fare anche a 8 anni, ma non ti fa né sentire né essere una adulta. L’esperienza serve per sfangarla, per bypassare, scappottare, scansare quello che non si vuole affrontare: responsabilità. Vedi che torna? lesbiche adolescenti permanenti. E, secondo me, siamo quasi tutte così.
Con la patente di bimbe un po’ furbette in un loop ludico senza spazio né tempo.
Giochiamo a fare le coppie, le donne, le adolescenti, le arrabbiate, le fuori schema, le esperte della vita. Giochiamo fra di noi ai quattro cantoni, a rubabandiera, a palla avvelenata. Giochiamo a fare le invisibili. Giochiamo a fare quelle che bastano a loro stesse. Giochiamo a “ignoriamo il mondo” e a “vaffanculo, tu no”.
– Questo post inizia il 18 aprile e finisce il 19 aprile. Quindi non è sempre lo stesso –
Non so, ma stasera ho un po’ d’ansia.
Mi aspetto qualcosa di brutto o, quantomeno, bruttino.
Sono stanca strutta e stracqua, 13 ore tra lavoro e corso ECM. Ora vado a docciarmi e a cercare di assumere un aspetto umano. Non so se ci riesco. Ma mi andrebbe di essere aggressiva.
Buon Week end.
ore 11.15
Forse avevo ragione ad essere in ansia.
E sono varie le cose che intoppano, in questi pochi, ultimi giorni.
Oggi si va a casa di R**, che sta per diventare casa di R&B, a fare le handy-women per sistemare spazi e accessori vari. Sarà follia, ne sono certa.
Molte cose in questi giorni mi stanno richiamando alla vita reale e quotidiana. Al consueto difficoltoso realistico vivere. Si vede che ogni tanto ci vuole. Mi sveglio con la notizia che davvero non si sa quando ci potranno pagare e mi viene voglia di rimettermi sotto le coperte e scomparire per il prossimo mese. Magari lunedì mi faccio una postepay e vi invito a versare 1 euro per ciascuno. Può essere che il fitto ci esce. Stavo bene, evidentemente troppo (5 minuti di autocompatimento vittimistico)… Quindi, immagino, devo cominciare a pensare di andare via da Roma. Stamattina mi girano le palle che la metà basta. Stamattina tornerei sul tema delle rotture di cazzo.
ore 14.30
Ho perso il controllo. Del tutto. Sto sclerando come i barboni che urlano per la strada contro il niente. Mi viene voglia di fare come gli scorpioni. Nel cerchio di fuoco.
?
ore 15.30
forse mi sono calmata. Forse. Vedo intorno a me gente che vuole andar via. Anche io. Cazzo. Voglio andare in un posto dove le cose vanno lisce e non si intoppano, dove le persone sono calde e accoglienti, dove scompaiono le pippe e gli scleri e i malesseri e le confusioni e le fobie e gli incubi dell’esistenza. Voglio andare dove mi posso costruire la vita in asse lineare. Senza questi cazzo di picchi di merda. Autocompatimento. Autocentramento. Autoclave. Automobile. Autonomia. Automa. Autoparco. Autodromo. Autostima. Autoctono. Autorità. Automatismo. Autoscatto. Voglio uscire. Vado da R&B a sistemar. Sonica tu vieni? non lo so.
Ore 16.30
Non si va, R&B hanno da fare cose per stasera. Invece mi andava. Devo comprare le sigarette. Scendo lo stesso e vado a prendere un caffé da Sonica. E le sigarette del tabaccaio. E un po’ d’aria. E la nuova selezione musicale sulla mia autopennetta. Poi, stasera, mi tocca cena privata con la R** che suona B**. Poi voglio dormire per un mese e smettere di bere birra che mi rovina la pelle di pEsca. Idiota.
Ore 16 del giorno successivo.
Avevo detto che questo era un post perseverante. Ottima cena offerta dalla R**, devo dire. Poi stimolante chiacchierata al Tumbler con Sonica, Benny, A** e Ro**. Tema della chiacchierata in un prossimo post. Splendida notte. Meravigliosa dormita dalle 11 alle 14.30. Giornata di sole e calore e voglia di mettersi in costume. Sono borderline, ormai è acclarato.
Mi sa che ho finito lo spazio su wordpress, devo capire bene sta cosa, sennò non posso più scrivere.
No, non ne parliamo, diciamo solo che a me pare un piccolo, squisito assaggio del nostro prossimo italiano futuro. Diciamo anche che mi esplode il cervello se penso a quanto, ormai, si possano sentire autorizzati a fare il cazzo che gli pare e che la barista del Tumbler lo aveva detto che stava per succedere.
Dunque io mi metto un po’ in attesa. Aspetto di vedere se quello che penso è vero e se le cose stanno per andare come pare non possano che andare. Una parte di me si augura che tornino, come zombie, gli extraparlamentari di sinistra a mettere le cose in equilibrio. Una parte di me pensa che cosa più orrenda non c’è.
Nel caso mi diano fuoco sulla pubblica piazza, in quanto dyke, jewish, woman, terrona and ex-comunista (?), cui mancano solo quarti di negritudine (origini calabre va bene uguale?) e parenti rom (che pure è possibile visto i miei ascendenti), siete pregati di ricordarmi ogni anno con un bicchiere di birra Birrasconi e un pacchetto di patatine San silvio.
Deliro.
Dunque, detto questo, invito tutti coloro che leggono questo blog a festeggiare l’esistenza propria e altrui stasera al Tumbler, che ci sono delle ragazze molto brave nomate “Io e Annie” a sunà.
Un po’ come quelli de “la peste”, godiamocela finché dura.
Perché può durare poco e male, politicamente, umanamente, sfigatamente. Oggi mi ha preso così, perché le news che mi arrivano, da svariati fronti, sono difficili da digerire, come da post precedente.
Peraltro non si sa quando mi pagano, che non mi pare una notiziola da poco.
Infine devo dire (quante urgenze in questo periodo) che alla mia libertà personale tengo molto. Sto diventando, forse, poco generosa. Ma me la sono guadagnata come sempre si guadagna: sangue-sudore-lacrime. Me la sono cazzo meritata e me la tengo.
Scrivo male stasera, sarà l’indignazione, sarà la stanchezza.
Baci a tutti voi dalla lesbica/mezzaebrea/donna/terrona/excomunista/forseancheneraezingara Penelope.
Sono incazzata, nevrastenica e intollerante, stanotte.
Sarà che dormo troppo poco. Sarà che mi sono rotta il cazzo.
Delle frasi fatte, del lavoro non pagato, delle cose senza soluzione, della vittoria del PDL, della noia del mio lavoro in questo periodo.
Mi sono rotta il cazzo di sentire altri parlare di me, di sentirmi dire cosa devo e cosa non devo fare, di mettere le persone in condizioni di sentirsi autorizzate.
Mi rompe il cazzo avere orari, non avere abbastanza spazio sullo stendipanni, dover fare valutazioni a nuovi pazienti, non riuscire a farmi capire, aver voglia di mettere le mani addosso a qualcuno e non riuscire a farlo. In tutti i sensi possibili, senza escluderne neanche uno.
Mi rompo il cazzo dei miei pensieri rotondi e levigati, di non avere la libreria expedit, di ascoltare parole faticose e dolorose.
Mi hanno rotto il cazzo i mai, i faròdirò, anche i miei. Il non poter pagare l’affitto, l’avere sonno, l’avere voglia, il non poter fare quello che voglio.
Mi si sfracantano le palle a guardare la tv, a pensare alle cose, a mettere a posto i panni stirati, a inventare strunzate per negare che piango.
Palle, palle. Difendere la mia vita, che palle. Bloccare lo sclero, ragionare con la testa, non poter avere quello che voglio quando lo voglio. Palle.
Scartavetramento di coglioni per la mia ridicola compressione/repressione che per gentilezza chiamo “timidezza”, l’inutilmente eccessiva aggressività in situazioni prive di senso, la bronchite che non va via, la primavera che non arriva.
Soundtrack: The Blues Brothers & Aretha Franklin – Think (Freedom)
In discoteca, dopo due birre, collassai.
Lunga lunga sulle scale di un posto che mi pareva Sodoma e Gomorra.
Ma questo è un inciso.
Il resto è “bananite”, perché sono una banana e potrei sciorinare una decina e più di buoni motivi a sostegno del pensiero base.
Ma evito, sarebbe imbarazzantissimo.
Perché Freedom nella soundtrack? perché mi sono resa anche conto che sono libera di fare il cazzo che mi pare. Lo so, l’ho già detto altre volte, ma certe sere sono totalmente avvolta da questa sensazione di gioiosa non appartenenza. Questo è il lato migliore del mio essere lesbica. In questo periodo di lati peggiori non ne trovo. Forse giusto uno, ma mi sa che non è perché sono lesbica, ma perché sono banana.
Stamattina andrò a prendere le mie cose residue a casa dei genitori della mia ex-fidanzata. Ho costretto i fabolous a farlo e mi mortifico un po’, non avrei dovuto. Ma sono contenta di riavere i miei cd e la coperta della nonna, ma sono mortificata lo stesso.
Poi ci sono molte cose che non capisco: gesti che sembrano gentili e che diventano piombo alla cintura, frasi che sembrano leggere e invece fanno male. Magari capirò, magari no, non si può mai dire. Così come non capisco, a volte, se sono io a non voler far qualcosa – in fin della fiera – o se è semplicemente impossibile. Banana.
Sono le sei meno venti della mattina. Sono tornata in macchina, di nuovo, per strade deserte e ho vissuto l’ennesima sensazione di estraneamento da questa città che pure conoscevo come le mie taschine.
Non sapevo neanche dove andare a prendere i cornetti – a Roma adesso lo so – e tornare a casa per un tratto dei quartieri spagnoli, a piedi, mi ha fatto sentire parecchio a disagio – a Roma non mi succede mai -, senza contare che adesso mi sembra che i driver napoletani ritengano normale non appoggiare nemmeno il piede sull’acceleratore; dovessero mai raggiungere i 40 all’ora…
La musica stasera era una vera tortura “unz-unz”, ininterrotta. Non lo reggo, ho capito che preferisco andare altrove. A volte è bene ricordarsi perché non si fanno certe cose e se ne fanno altre.
Soundtrack: Frédéric Chopin – Studio op.10 n.12 in Do minore “La Caduta Di Varsavia”
Stasera mi sento irrequieta.
Roma è deserta. Sono tornata in macchina da piazza di Spagna attraversando una città luccicante di pioggia sottile e bella da non credere. Mi sono persa piacevolmente in un gran numero di strade laterali che ho scelto di imboccare senza sapere dove sarei arrivata. E sono arrivata a casa. Comincio a sentirmi meno ospite e più “abitante” e ricordo le centinaia di notti passate in macchina in giro per Napoli, senza un posto dove andare ma molta voglia di non fermarmi.
E’ una sensazione potente.
Un paio di giorni fa, in macchina (bella, la mia macchina, un pezzo di casa è), la pennetta Mp3 ha rovesciato fuori dalle casse – tra i Prodigy e i Cure – la “caduta di Varsavia” di Chopin.
E io ho capito. Ho capito che quello che non mi torna mai, in qualsiasi versione di questa meraviglia io ascolti, quello che me lo fa sentire ogni volta “non esatto” e non completo, è la mancanza del rumore delle unghie di mia nonna sui tasti del pianoforte.
Ho ripetuto spesso che sono, fondamentalmente, rozza e ignorante. Ovvio quindi che la musica classica, generalmente mi annoi mortalmente. Ma Chopin è un’altra cosa. E “la caduta di Varsavia” è un’altra cosa.
Credo che le pareti del mio muscolo cardiaco siano foderate con gli spartiti di Chopin. E’ un pezzo della mia formazione affettiva.
Nel salotto di mia nonna, davanti ad una finestra aperta sul panorama di Posillipo, era steso un pianoforte a tre quarti di coda, nero, con tasti di ebano e avorio. Un Bösendorfer. Mia nonna lo apriva, ogni pomeriggio dopo le cinque – come da orario condominiale – e suonava per noi.
Ero piccola e chiedevo Chopin, chiedevo la Caduta di Varsavia perché, ogni volta, mi pareva che Varsavia cadesse sulla mia testa, come una pioggia di note perfettamente visibili e straordinariamente tangibili. Ben distinte, una per una, le conoscevo tutte, compagne di gioco dei miei pomeriggi a casa della nonna.
Sentire queste note, da bambina, seduta sotto la coda del pianoforte, guardando i piedi di mia nonna sui pedali (e quel rumore, ogni volta che un pedale veniva abbassato, di meccanismo e fili che si tirano), era una emozione che mi prendeva dalla testa ai piedi. Ogni singolo senso era compreso, avvolto, coinvolto, stravolto, stropicciato e, quindi, abbandonato, su quei quattro accordi finali che aspettavo e dei quali conoscevo il preciso tempo e momento.
Le unghie di mia nonna sui tasti e il “tic” dei pedali dalla strana forma, non ci sono mai nelle registrazioni ufficiali, e io non ne ho una sua.
Vedevo muri che crollavano, mattoni sbriciolati, polvere e dolore. Aspettavo le scale con un’ansia vicina al terrore, terrore dell’emozione che sarebbe arrivata e scivolata di lato, appoggiata sulle mani di mia nonna, agili e ferme, veloci e straordinarie. E il parkinson spariva sempre, quando suonava. Le dita lunghe, la pelle chiara, le macchie a milioni che ci ricordavano i suoi capelli rosso tiziano che noi non avevamo mai visto.
Gli occhi semichiusi, ad un tratto il movimento veloce della mano destra per girare la pagina dello spartito (ma era solo per abitudine, sono sicura che non lo leggesse affatto). Qualche volta l’onore di aspettare un suo gesto per essere io quella che girava la pagina, più veloce e silenziosa possibile. Precisa, sennò la magia si interrompeva.
E mi chiedevo ogni volta come fosse possibile emettere tanti suoni con sole 10 dita. E come fosse possibile arrivare al cuore e all’anima così direttamente, profondamente, irrevocabilmente.
Magia.
Quelle scale da brivido, troppo basse, troppo alte, troppo piene. le note tra i capelli, sugli occhi, nel naso. Soffocare di musica e guardare mia nonna mescolarsi con Chopin, con il pianoforte nero, con la mia gioia, con l’amore che provava per quello che stava facendo, per noi, per la vita.
Poi qualcosa nella musica si apriva e a me pareva il mare, parevano le onde, pareva un guardare la foschia dopo la battaglia di non so cosa. E fuggire e fermarsi e ripartire per morire.
Ha suonato finché ha potuto, malgrado il parkinson ed il glaucoma, un giorno ha cambiato il piano con uno Yamaha rosso, a mezza coda, corde incrociate. Io non volevo, mi pareva un abbandono, una perdita, un lutto. Niente più rumore di meccanismi che si muovono, niente più arpa nascosta nel pianoforte, sparito il terzo pedale, nessuna emozione nell’alzare quel copritasti nero e lucido e scoprire la scritta gotica dorata.
Ma lei diceva che era diventato impossibile accordarlo. Ci impazziva per quelle stonature incorreggibili.
Prima di andar via, mia nonna disse a mia sorella che, in quel pianoforte, lasciava la sua anima.
La mia amica B** lo ha suonato, quel pianoforte, e ha detto che la sua anima l’ha vista.
Mia nonna è nata ad Alessandria d’Egitto, sua madre era italiana e suo padre greco di Salonicco. Parlava 5 lingue ed era una regina.
Soundtrack: The Blow – Come on Petunia (in parte, non del tutto)
Ho poco tempo stamattina, ma è da ieri che ho voglia di scrivere qualcosa.
Ma sono stata oberata di impegni.
Cosa voglio dire, in questi giorni, di preciso non lo so ancora. Ma è un tale continuo fluire di cose che se non scrivo qualcosa esplodo.
Spero stasera di riuscire a fare un post sul mio lavoro (non pagato fino a data da destinarsi) che ho dentro da un po’.
Ottimo risveglio stamani, con sfumature di gradimento che non provavo da tempo. Piove e Roma è grigia e la mia voglia di lavorare pari al PIL della Sierra Leone.
Che poi magari in Sierra Leone si producono diamanti e io manco lo so. Gnurant.
Ho le mani molli e il cervello omogeneizzato.
Quindi cosa voglio dire?
Vorrei saper comunicare come ci si può sentire quando si riescono a fare le cose che si ha voglia di fare. Vorrei conoscere le parole adatte a spiegare la meraviglia dello stare dentro di sè, vorrei essere in grado di disegnare nella mente di tutti i colori e le forme che vedo io.
Adesso è necessaria una pausa. Perché? perché le cose (quante volte, in questi giorni, ho usato la parola “cose”? sono a corto di vocabolario?) non vanno confuse, non vanno trasformate, non vanno portate dove non devono stare. Certo, tutto questo mi riempie di una falsissima sensazione di onnipotenza, ma va bene così, mi fa sentire fatta e finita.
Seeee, vabbè, mica si possono accumulare righe su righe di parole non dette e sensi altri e gergo personalizzato… o lo scrivo o non lo scrivo.
Emozioni di vario genere e tipo, fluire di cose, ritorni al futuro, delicatezze dell’anima, calore e colore e candore e calma e agitazione.
Perché potrei mettermi qui e spiegare, per filo e per segno, l’incredibile mole di cose e fatti e persone che ho incontrato e accompagnato in questi due giorni. Ma i fatti non contano un cazzo.
Conta quello che significano, conta il sangue che pompa, contano le parole che si agganciano e la potenza degli scambi. E poi se ci penso, già i fatti non hanno più un ordine cronologico nella mia cassa toracica. Quindi nun se po’ ffà.
Sul piano pratico, non ho fatto la spesa e non ho pulito casa. Lo sconterò tutta la settimana. Ma mi sembrava veramente una cosa orribile fare una o l’altra o entrambe le cose. Un sacrilegio.
Una cosa, però, la devo raccontare.
Sono stata, ieri pomeriggio, all’Ara Pacis, qui a Roma. E’ da premettere che:
non sono mai andata (o l’ho fatto veramente poco), in questi tre anni, in giro per Roma a vedere le cose uso turista, perché in genere mi sfracanto le palle;
essendo dotata di animo grezzo e ignorante, l’arte mi annoia quasi quanto un convegno di logopedia.
Invece è stata una faccenda di rara bellezza e delicatezza. Non credo fosse per l’Ara Pacis in sè (che quattro vecchie pietre incollate so’), ma per come il mio sguardo è stato cambiato e condotto dove doveva andare.
Le due amichette della Sonica (che il Signore abbia in Gloria Lei e C*&G*), quelle nordiche ma non svedesi di cui al post precedente, mi hanno fatto vedere cose che voi umani non potete immaginare. No, cose che io umana non potevo immaginare.
E sembra niente, ma il risultato è stato un terremoto che ha abbattuto le dighe dei castorini che hanno occupato le mie vene e le mie arterie emozionali trascinando tutto verso il mare, senza dolore e senza traumi. Senza recriminazioni e senza accartocciamenti.
E i castorini se ne sono andati affanculo.
E il fiume ha ricominciato a scorrere.
E le cose scivolano e puliscono e rinfrescano questa palude del cazzo nella quale ero seduta.
Ma ho molto altro da raccontare.
Una città che non si nasconde più, persone che vale la pena, recupero della memoria della cura, dell’attenzione, dell’accoglienza, i dubbi sulla natura delle cose e la sottile sensazione che, sì, le cose non sono davvero più così, ho quello che mi merito, ne sono certa, nel bene e nel male.
Scrivo con qualcuno accanto, stasera, che ha voluto fare una visita allo zoo di Penelope e guardarla zampettare sulla tastiera. Questo rende stranamente più difficile scrivere, per una serie di buoni motivi che non sto qui a spiegare che non sono cazzi vostri.
A parte, quindi, questa immane fonte di distrazione, non ho ancora finito di rimettere tutti i pezzi al loro posto e capire cosa mi è successo.
Ma perché mai dovrei sapere qual è il posto delle cose?
Ommioddio, hanno cambiato la grafica di wordpress e non ci capisco una mazza.
Ohhh. Un sacco di belle cose stasera. Mi si perdonerà il linguaggio adolescenziale, la lieve alterazione alcolica che mi pervade non mi consente formulazioni adeguate.
Eh eh.
Dunque, casa mia si apre, come desideravo, come mi piace, come mi appartiene. Da non credere.
Stasera cena da me. Sonica ha fatto il catering (nel senso che ha preparato una favolosa pasta alla norma) e portato due fantasmagoriche amichette nordiche. No che sono svedesi, nordiche nel senso di nord Italia.
Scopro che la mia cucina anni ’50 originale (non per mio merito, ma per immobilismo del proprietario) è accogliente. Che meraviglia.
Dunque mangiato e assai riso in compagnia di Elide. Abbiamo deciso di formare una giuria che, a proprio insindacabile giudizio, sceglierà un uomo per lei domani sera.
Ecco.
Poi al Tumbler. Incontrato altri amici della Sonica e, incredibile dictu, ho conosciuto OMAHA! Maddai? da non credere. Fossi meno inabile alle manifestazioni emotive avrei saltellato per la contentezza. Quindi mi scuso se sono stata un po’ sfuggente, ma è carattere, poi divento più frequentabile, col passare del tempo.
E, comunque, mi sono sentita socievole come un labrador, stasera. Come cazzo è divertente.
Devo dire che la Sonica mi mette di ottimo umore (uè, ti ho nominata 3 volte in questo post, mo’ non esageriamo).
Che altro dire? niente che ve ne possa fottere qualcosa a voi, lettori silenziosi e timidi, che non si capisce mai cosa vi leggete con piacere e cosa no. Ma cose che interessano me come, ad esempio: “chi lo avrebbe mai detto che ‘sto blog mi avrebbe portato tante cose?” e anche che adesso se trovo i commenti di Omaha mi posso ricordare la sua faccia e anche che mi sento cretina, stasera e anche che sono sveglia dalle 6 e sono le 3 ed è meglio se dormo. Anche perché non sono sicura di avere scritto cose sensate o intellegibili.
Ma non riesco a smettere. mi sono anche accesa una sigaretta.
Non mi pare però, di avere altro da dire. E non so nemmeno che musica o immagine mettere, proprio non riesco a concentrarmi. Lo faccio domani.
Appunto: espresse mie paure e riserve sulla possibilità di finire nuovamente culo per terra, nel giro di 6 ore mi arriva comunicazione amministrativa che, questo mese, non si sa se e quando ci pagheranno.
E io sono infognata 36 ore alla settimana in quel centro di merda.
Tant’è, vediamo cosa riesco ad apparare. Arrabbiarmi non ce la fo. Sarà un fatto karmico.
Un po’ di persone hanno amarcordato con me i tempi di Cappella Vecchia, mi aspettavo qualche intervento in più da parte di chi c’era e l’ha vissuta. Tant’è.
Stasera Tumbler in piccolo branco. Per poco, però, perché mi sveglio alle sei e mezza. Poi ho il corso: “il rapporto Terapista/Genitori/Paziente “, poi cena con le amichette della Sonica; insomma, qui ci rivediamo non prima di sabato.
Il piccolo branco di lesbiche al Tumbler, stasera, risente dell’avvento della primavera e ho sentito frasi che hanno uguali solo nei circoli del dopolavoro ferroviario. Siamo vergognose. Peraltro sedute sui trespoli, uso le civette sul comò, speranzose di far l’amore con la figlia del dottore.
Non tutte, però, ci sono anche civette che l’amore con la figlia del dottore già lo fanno e civette rilassate.
Allora vada per sabato al mattatoio, stavolta senza premio (per ovvi motivi appena esplicati), ma decideremo un punto di raccolta. Ho poche idee, mannaggia, non mi viene in mente una cosa sensata. E comunque è da coinvolgere anche Elide.
Mi impegnerò un po’ di più domani (seee).
Oggi è venuta F**, col suo pancino e la nuova espressione da adulta che le si è impressa sulla faccia in questi quattro mesi, le voglio un bene esagerato, mi manca e mi dispiace non poter vivere minuto per minuto il suo cambiamento.
Santa pazienza, ho come qualcosa sulla punta della lingua e non mi esce. Sono stanca e pure un po’ rincoglionita, I wonder why tanti flashback e ho una gran voglia di appoggiarmi sul pelo dell’acqua e lasciarmi portare senza muovere un dito. Ma anche no. E’ che non voglio arrivare da nessuna parte in particolare e non vedo perché sbattermi. E non so se è la cosa migliore o un modo per scansarmela. E mi scoccio di pensarci. Epperò ci penso. Eccheppalle. Vorrei ricordarmi come si fa a fare il vuoto mentale.
(la mia casa era quella sulle scale, dietro il ficus, in questo cortile ho fatto feste open con almeno 70 persone)
Soundtrack: Cocteau Twins ft R. Smith – Cherry Coloured Funk
Codesti giorni sono pregni. Ma pregni di che?
Non lo so.
Domenica pomeriggio, sulla via delle sette di sera, son giunte nella mia magione R&B con piglio determinato e battagliero.
La B*, che di solito si fa i cazzi suoi e, di solito, pare che scenda dalle nuvole di tastierilandia, aveva una cosa precisa da dirmi.
Precisa come un puntatore laser. E l’ho capita per metà. Perché metà la vedo e metà continuo a non vederla neanche sotto sforzo. Per quanto B* sia stata chiara, limpida, esaustiva e didascalica.
Quello che vedo (e metà di quello che la B* mi ha detto) è che io, quando ho a che fare con qualcuna, cambio. Radicalmente. E mi bastano più o meno 16 ore.
Ed è assurdo, ma succede. Pensavo fosse una parte che assumevo mio malgrado in passato, pensavo fosse una di quelle cose che è collegata all’oggetto della mia interazione (marò quanti giri di parole), invece sono semplicemente io.
Il che è drammatico.
E forse è ancora più drammatico che io sia andata totalmente in tilt. Un flipper cui hanno dato una bottarella di troppo. E non ho più saputo cosa fare, come comportarmi, cosa essere, come mostrarmi, quali limiti darmi, quali non darmi. In un loop di batteria elettronica che manco i Prodigy. Invece di lasciare che le cose andassero, vadano, procedessero, fluiscano (pare una cosa poetica, in realtà ho dubbi sulla consecutio temporum).
Una Lara Croft comandata da un pollice epilettico che continua a finire contro lo stesso identico muro. Accoderò video di conseguenza.
Sul resto devo ancora pensare, mi punge vaghezza abbia a che fare con l’autostima, la percezione di sé, l’accettazione ecc. ecc.
Così, collezionando cazzate dopo cazzate fino a provocare reazioni giustificate nel mio prossimo, mi sono ricordata di vecchie cose che sono ancora lì, cellula terroristica dormiente, ad aspettare un comando qualsiasi per saltare fuori e devastare il devastabile.
Non sono affatto sicura che c’entrino qualcosa con tutto ciò, magari è solo paraculaggine. Ma ho voglia di fare un riassunto.
Il 31 dicembre del 2000 (ehhhh), sono stata licenziata in tronco dal libraio antiquario che fungeva da donatore di lavoro. Licenziata alle 10 del mattino e buttata fuori dalla libreria alle 10 e 02. Per i miei ritardi cronici e per le mie espressioni supponenti che lo facevano andare fuori di testa.
Non avevo già soldi, non riuscivo più a trovare lavoro (troppo vecchia, nessuna specializzazione, troppo conosciuta come testa di cazzo, nessuna affidabilità, troppo sovradimensionata, nessuna umiltà con i capi). Thanx God non stavo con nessuno, ho iniziato a vendere tutto quello che avevo: tv, playstation, corredo, vestiti, oro e persino le stoviglie. Ero, appunto, sola, avevo già spremuto gli amici, aiuto dal pater chettelodicoaffà, non c’era più il negozio di Cd dove riuscivo sempre a lavorare quando mi serviva danaro.
Un pomeriggio mi sono seduta sotto il portico di Feltrinelli, ho realizzato che non potevo più sostenere la vita che mi ero costruita (?), ho fatto i conti col fallimento assoluto, ho pianificato il futuro giurando, in modo molto solenne, che un’altra botta così, culo a terra, non l’avrei presa mai più. MAI.
Avevo una casa di 18 metri quadri, tre gatti, un citofono che suonava a qualunque ora, libertà assoluta di movimento, nessuno cui rendere conto di niente, lavoro a nero. Avevo chi mi dava da mangiare, una vicina argentina che mi portava il caffè la mattina alle 7 e mezza sulla porta di casa. Un macintosh e un collegamento internet che era una rarità. Avevo il MIO territorio, il mio quartiere, il mio palazzo, l’unico popolare in una zona che più chiattilla e radical chic non ce n’è a Napoli. Scendevo a fare la spesa in pigiama, me ne fottevo. Avevo un conto aperto in libreria e uno nel negozio di cd, avevo il pub che mi portava i panini a casa quando mi rompevo di scendere e il contrabbandiere al piano di sopra che mi calava le sigarette nel panaro.
Avevo la vita che volevo, quella che avevo scelto nella ferma convinzione che sarei morta prima dei 40. Avevo il record di uscita di casa – la prima tra tutti i miei amici – e avevo iniziato a lavorare mentre tutti gli altri partivano col calvario universitario. Ho maneggiato soldi in quantità industriale per poi farli scivolar via con godimento e soddisfazione e, quando non li avevo, li trovavo sempre e comunque. Non mi sono negata nulla, che io ricordi.
Un percorso (?) di quasi 15 anni che si è dissolto nel nulla assoluto, lasciandomi l’assoluto nulla tra le mani. Nel frattempo avevo perso amici, parenti, amanti. In senso materiale ma anche figurato.
Ho provato terrore. Cosa mi restava?
37 anni, un diploma di Logopedista (ah, no, adesso è equipollente alla laurea primo livello… dopo 15 anni valeva anche di più), libri in quantità sporporzionata, 320 cd, tre gatti e le suppellettili della nonna.
Il programma futuro prevedeva: ritorno a casa del pater, tirocinio – che dopo 10 anni non mi ricordavo un cazzo di niente – poi ricerca lavoro e sistemazione permanente, definitiva, stabilizzata e sicura.
L’ho fatto e pensavo di morire.
Sì certo, la crescita, sì sì, adulta. E poi il futuro e le certezze e smettila di fare la testa di cazzo e stai zitta, ricostruisci e fai qualcosa di sensato, non ti fottere con le tue mani, stai attenta, impara a fare compromessi, metti i mattoncini al loro posto e non fare colpi di testa. Non litigare, non esagerare, non desiderare, non eccedere, non fare passi più lunghi della gamba. Che un’altra volta nella merda non ci voglio stare.
Oggi io sto vivendo la vita che voglio, come e dove la voglio. Mi fa paura perché ho paura di non saper, di nuovo, controllare me stessa e la mia testadicazzaggine. Vorrei una boa cui aggrapparmi, maancheno. Vorrei sapere cosa fare perché non mi accada di nuovo di restare senza nulla tra le mani.
C’è poi una seconda parte della storia. Magari un’altra volta, questo è il post della metà.
Lo aspetto lo aspetto e quando succede mi distraggo.
Come l’appello quando stavo alle elementari o i compleanni delle persone a cui tengo. O le magie dell’esistenza.
E adesso? non so che cosa organizzare: un incontro in luogo bibitorio? un venerdì in discoteque? un momento culturale in libreria?
Elide mi consiglia sabato 5 aprile qui. Con caccia doppia, me e lei, dos piccionas con una favas.
E potrebbero venire pure le amichette/amichetti da Napoli, ecchespaccimma (= parolaccia intraducibile e greve N.d.T.), anche senza caccia, solo ad incontrarsi ma anche solo a esserci, mica ci dobbiamo conoscere per forza. Magari facciamo così, ci vediamo lì e non se ne parli più e brindiamo alle assurdità.
Brindiamo ai contatti, alle persone, all’esserci, al fare cose per divertimento e farle pure benino, brindiamo agli amici e ai parenti, alle amanti restie, alle gatte nere e alle persone gentili, a chi scrive sul blog e a chi legge soltanto.
Va bene, sono d’accordo con questa idea, raccolgo adesioni.
Gradirei presenze napulitane, merdaccie che non muovete il culo per venire nella capitale. Vada per i 10.000, ma i 20.000 vanno festeggiati worldwide.
In meno di quattro mesi. Però.
Malgrado le lamentele, non mi pare male per un blog che racconta di vita lesbica e vita Penelopesca in stile Endemol.
Ma che emozione.
Voglio dire che non ho photoshop, quindi sono stata un’ora a maneggiare quella chiavica di Paint per inserire una miserrima scritta su una foto della Penny. Vogliate apprezzare il mio sforzo.
Insomma mi pare di aver perso un po’ di verve, una gran seccatura. Mi piacerebbe ancora parlare del mio lavoro, della follia delle interazioni tra lesbiche (un capitolo sulle relazioni simbiotiche tipiche, non sarebbe male), del mio rigurgito post adolescenziale che mi fa stare veramente bene (sarà normale a 45 anni?), dei regali che voglio per il mio compleanno, delle cose che cambiano, di mia nipote, della voglia di fare cose nuove che ho, dello strano fluire delle coincidenze, del culo che ho (in senso metaforico), della mia voglia di mare e di prendere sole e di farmi il bagno che la prima volta dopo l’inverno è sempre una sensazione fantastica.
E ho voglia di andare in barca, di ballare, di incontrare un gran numero di donne, di trovare il giusto equilibrio tra narcicismo e disistima.
Roma mi piace. Ci sono voluti quasi 3 anni ma, cazzo, Roma mi piace.
Un’altra caccia a Penelope? la prima è stata una caccia fortunata, ma mi sa che devo trovare un’altro tipo di cosa. Si accettano suggerimenti.
E poi che fine avete fatto tutti? il blog vede un calo demografico imbarazzante. Pochi commenti e pochi contatti.
Ho anche la sensazione che si sia abbassata la qualità di quello che scrivo. Sarà che vivo di più.