
Soundtrack: Carole King – You’ve got a friend
Sì lo so, questa sndtrack è eccessivamente melensa e paracula, però.
Però, quando hai una amica che ha il coraggio di dirti che sei diventata qualcosa di molto simile ad un essere insopportabile:
A – la devi ringraziare;
B – ti devi scusare per le omissioni e i millantati crediti vantati;
C – devi essere fiera di conoscerla;
D – devi fermarti a pensare.
La ringrazio, mi dispiaccio, sono fiera, a pensare già ero, non mi ero fermata.
Sarà un post pesante, meglio avvertire.
Ieri sera salendo le infinite scale che portano alla colombaia dei Fabolous, a Napoli, dopo una serata strana, assai strana, mi sono resa conto che sono molte le cose che mi accadono, molte le cose che proclamo starnazzando come un’anatra, molte le cose dalle quali credo di dipendere. E sono sistemata perbenino in una crepa del muro. Affaccio la capuzzella ma non esco, non si sa mai. Quindi non sto bene. Che non è un “non sto ancora bene”, perché il passato è remoto. E’ un non sto bene ora, qui.
Non mi riconosco. Non sono dentro me, mentre faccio le cose; e perché? perché non mi decido a fare quello che va fatto. E non lo faccio perché non sono abbastanza dentro di me per farlo. E siamo punto e a capo.
Sto vivendo una vita senza un dentro. L’unico dentro è questo blog, ma non posso passare le mie giornate pensando a come le scriverò la sera, parola per parola, frase per frase, titolo e musica comprese. A volte dalla mattina.
Sembra che l’unica cosa che mi interessi sia come apparire, cosa gli altri DEVONO pensare di me, quanto chi ho intorno mi debba. A prescindere.
Chiamatemi Tutankamon.
Ho tutto ciò che è possibile desiderare, ma sembra non basti: ho amici, ho affetti, ho solidarietà, appoggio, attenzione, soddisfazioni, una casa decente, un lavoro sicuro, riconoscimenti e persino gente che mi infila le mani nei pantaloni e la ragionevolezza per togliere quelle mani e declinare il “delicato invito”. Di cosa altro pretendo di avere bisogno?
Ringraziando il cielo, non ho una storia, perché se l’avessi sarebbe la rovina. Lo so, ne sono consapevole e cosciente, ne sono felice quando ragiono.
Ho una città intera davanti ai miei occhi e credo di dover guardare ancora indietro per trovare qualcosa. Qualcosa che non c’è e non si può trovare alle mie spalle. Eppure mi perdo ancora in questa città.
– Anche oggi, confesso, di ritorno da Napoli, con tutto che c’era la R** in macchina, autostrada deserta, due ore pulite di viaggio e poi sbaglio ingresso in città. Un’ora in più… –
Ho gli ingredienti giusti, direi perfetti, per cucinare la migliore torta della mia vita e giro in tondo in cucina alla ricerca di cosa? delle mie mani per impastare. Le ho perse e, se le trovo, come le prendo che non ho più le mani?
Rivolto i miei pensieri a rovescio. Io sono fuori di me e solo nell’ipotetico sguardo degli altri. E di quegli altri il cui giudizio, di solito, mi sembra pregnante come quello di Costantino.
Apparire, sembrare, mostrare, dimostrare. Verbi che non usavo per me dal secolo scorso adesso sono gli unici che mi affollano la fronte. E mi stanno disintegrando. Senza che io me ne accorga.
Nel trojaio che è la città dove sono cresciuta (?), non ho intenzione di tornare, avrò cura di scegliere il come, il quando e soprattutto il chi. Non voglio tarantelle, bagattelle, aria pesante, pensieri inutili. Ma non è questa la cosa più importante.
La cosa più importante è che mi devo ricordare chi sono e fare pace con quello che sto diventando. Che non sarà apparenza.
Come mi ha già detto qualcuno – circa 20 anni fa, però – è come se avessi una macchina nuova, più potente e moderna e pretendessi di guidarla allo stesso modo della precedente.
Credo sia semplicemente la paura di non farcela. Credo possa essere utile caricarmi dicendomi indecenti bugie su come sono e cosa posso fare. Ne ho tanti di bambini in terapia così: talmente spaventati dai propri limiti da doversi pensare onnipotenti per superare il terrore di vivere e di mettersi alla prova. Avrei dovuto accorgermene prima. Io e le mie parole trionfanti, esagerate, oversized.
Cazzo, come sono diventata lenta, sarà l’età?
I bimberottoli così, di solito, mi stanno sulle palle e, perlopiù, il mio lavoro iniziale è quello di massacrarli e riportarli dov’erano prima, ovvero di fronte ai loro limiti, senza più bugie, senza più niente cui appigliarsi. Ora capisco cosa ho combinato in queste settimane e, in fondo, questo è un buon segno.
Imparerò a uscire anche da sola, riprenderò ad offrire agli amici il meglio di me, ad ascoltare, ad esserci, come è stato per anni e come è mio costume fare.
Non credo di avere alternative, questo peggio mi fa sanguinare.