Soundtrack: Queen & David Bowie – Underpressure
Doveva essere il 19 novembre del 1982, quando sono rimasta incinta. Ci sarà qualcuno che mi dirà se sbaglio. Gli psicologi, invece, diranno che si è trattato di un “agito”, perché sapevo esattamente cosa stavo facendo.
Non è stato un errore, non per me che conoscevo ogni tipo di metodo anticoncenzionale da quando avevo 12 anni. Ero anche una attenta e grande sostenitrice del diaframma (un oggetto oggi considerabile preistoria, credo, ma allora privo di effetti collaterali, autodeterminante e assolutamente sicuro, se usato).
Ma io non lo usai, quel pomeriggio. Perché volevo che il ragazzo con cui stavo continuasse a stare con me, non volevo andasse via.
Avevo 19 anni ed ero lesbica, ma non ero pronta. Lui aveva 20 anni ed era gay, ma non era pronto. Ci amavamo molto.
Niente di disperato o struggente o devastante. Era una cosa forte ed incomprensibile, profonda e assoluta. Con calma, con consapevolezza, con incredibile gioia.
Eravamo amici prima, siamo rimasti amici dopo i nostri “quasi” due anni insieme. Siamo amici ora e io provo, a ben pensarci, la stessa potenza e inspiegabilità, la stessa sicurezza e la stessa cosciente allegria di allora, nei suoi confronti.
Non dissi nulla, non lo avvertii per non soffiare via il momento. Sapevo cosa stava per accadere e decisi di non fermarmi, non fermarlo.
Perché siamo noi donne a decidere (in condizioni normali, ovvio), siamo noi che stabiliamo per davvero se, come, quando e perché fare un figlio. Nessuno ce lo può impedire. Noi ce lo sentiamo dentro, questo potere; loro non ne hanno alcun accesso senza il nostro gentile permesso.
Eravamo bambini, in realtà. Io studiavo – controvoglia – e lavoricchiavo. Vivevo a casa e avevo anche una governante che, scoprii poco tempo dopo, teneva il conto dei miei cicli mestruali, per ogni evenienza. Lui studiava come un dannato e passava giornate intere a disegnare zampette di gallina sulla lavagna bianca con il suo pennarello nero. Ogni esame era una tragedia greca che comprendeva anche lo psicodramma della necessaria chiusura della nostra storia. Ogni esame era un 30 e lode nella facoltà più difficile d’Italia e un tornare insieme allegramente.
Famiglia devastata e devastante la sua, famiglia inverosimile e complicata la mia. Ma avevamo gli amici. E per Natale, entrambi, avevamo diritto ad un posto a tavola a casa di Massimo (altro amico storico e infinito) per il cenone. L’alternativa sarebbe stata restare a casa da soli, senza avere la più vaga idea della posizione geografica delle nostre ipotetiche famiglie.
Le analisi del sangue stabilirono con certezza che ero incinta (ma non ne avevo bisogno, lo sapevo ogni volta che mi rimpinzavo di succhi di pomodoro e pop corn come se fossero l’unico cibo disponibile sulla faccia della terra o quando vomitavo la mattina e svenivo la sera).
Le andammo a ritirare insieme, le leggemmo insieme e io non ricordo cosa ci siamo detti.
Ma non c’erano dubbi. Avrei abortito.
Perché? Perchè non c’era altro da fare, pensavo. Eravamo lesionati, indefiniti, abbandonati, omosessuali, incompiuti, indisciplinati, figli, refrattari alle regole ed alle responsabilità, indecisi patologici e terrorizzati cronici. A mio figlio una famiglia così proprio non gliela volevo dare. Era troppo presto, troppo complicato, troppo grande per noi. Fine del ragionamento.
E anche questo lo decidiamo noi donne, da sole. Anche questo potere ci appartiene, dalla notte dei tempi, senza che nessuno abbia mai potuto fermarci, senza che nessuno sia mai potuto entrare nella nostra scelta. Se non con la violenza. E non la assegnamo a nessuno, questa scelta, non la deleghiamo, non la condividiamo. Mai. Nostra la decisione, nostre le conseguenze.
Il caso divenne se non nazionale, quasi regionale. Non ho mai saputo tenermi qualcosa e, quindi, la notizia della mia gravidanza era praticamente affissa sui muri della città e della piazza che frequentavamo. Divenne anche oggetto di pubbliche discussioni: tenerlo o non tenerlo. Ci riunivamo a casa di amici per intavolare la questione. Fu un gioco collettivo per giorni. Perché no? eravamo ragazzini e non sapevamo niente di niente. Io non sapevo niente di niente.
Provammo a far da soli, ma le reception degli ospedali napoletani facevano a gara per dare notizie false, per spaventarci e per confonderci le idee. Ad un tratto la cosa diventò faticosa e dolorosa per noi. Non sapevamo più che cosa fare. Tra l’altro cercavo di stare attenta ad evitare gli ospedali e i consultori che avevano a che fare con mio padre ed il suo lavoro, non era facile.
Poi, la governante pensò bene di allertare la famiglia sulla mia mancanza mensile. Mia sorella mi consegnò prima un cazziatone allucinante, poi mi promise il suo aiuto. Intervenne la moglie di mio padre e in 24 ore ebbi la mia prenotazione all’ospedale (vicino le nostre case, guarda caso). Mio padre finse di ignorare il tutto e ci predisponemmo all’evento. Improvvisamente, inaspettatamente, il gioco finì. Non avevo più niente da dire, avevo solo paura. Avevo da fare i conti con quello che poteva essere e non sarebbe stato, ma non avevo a chi dirlo. Non io, non quella che notoriamente si batteva per la libera scelta di abortire, non quella che considerava l’aborto una scelta responsabile e necessaria, non quella che solitamente dispensava informazioni e consigli su cosa, come e dove.
Lui era spaventato come una maruzza e, come spesso accade in queste situazioni, perse la testa e mi lasciò il giorno prima dell’intervento. Ma per me non aveva importanza. Quello che stavo andando a fare lo avrei fatto da sola, la sua presenza era del tutto ininfluente. E andai. Con mia sorella in ospedale.
Ovviamente era stato tutto ben orchestrato da mio padre; bypassai la fila, fui operata per prima dall’assistente del primario e nostro vicino di casa, ebbi la stanza da sola in uno degli ospedali più affollati di Napoli, venni addormentata per 4 ore e visitata da 600 medici circa. Sognai molto e cose molto strane, le ricordo ancora. Tornai a casa la sera. Era il 14 gennaio del 1982. La mattina dopo non volevo alzarmi, volevo dormire e dormire e non ricordare più.
Con lui tornai il giorno dopo, credo. Non ne abbiamo parlato per un po’. Poi è diventato il nostro modo per stupire la gente e per ridere di noi, almeno in pubblico. In privato, lui si ricorda di chiamarmi ogni anno, da 25 anni, ad agosto. Teniamo il conto dei non-compleanni di nostro figlio (perché sarebbe stato un maschio, lo sappiamo tutti e due) e ci ripetiamo, ogni anno, che non avevamo alternative. Spesso passiamo del tempo a chiederci che vita sarebbe stata, la nostra, se avessimo avuto un figlio. Di certo diversa. A rivedere le cose da lontano, sembra tutto ridicolo e inutile. In quel momento era, senza dubbio, un cataclisma senza vie d’uscita.
Figli non ne abbiamo fatti, né io, né lui.