Stanotte non riesco a dormire.
Ho una strana frenesia dentro e non la capisco, la subisco.
Domani vengono C** e I** per festeggiare il capodanno con me. Sono veramente contenta. E per un sacco di motivi.
Tempo fa il mio ciccio amico F** mi disse che tutta l’energia che avevo speso per tenere insieme i pezzi di qualcun altro, mi sarebbe ritornata e me ne sarei ritrovata in quantità.
Un impatto devastante, devo dire. Me ne ritrovo tanta e non so cosa farmene. Almeno fossi una tipa attiva e dinamica, la scaricherei. La scarico su questo blog, ma l’immobilità fisica comincia a pesarmi.
E anche la percezione che ci sono cose da fare e io sono ferma. Ma non so dove iniziare e come.
E fumo… e mi verrà la flebite a tenere ‘sto computer bollente sulle cosce.
Neanche la tv, neanche il gambero rosso ci può stasera.
L’anno finisce domani. Lo so, è una convenzione, ma sono abituata a considerarlo un punto di svolta. Anche se non lo è mai, anche se non fa la differenza, anche se non si chiude un cazzo.
E allora comincerà, questo anno nuovo, con il suo inverno freddo freddo (pare) fatto apposta per prendersi il meritato letargo con le paposce ai piedi e il plaiddino sulle ginocchia. Quella ricarica fondamentale. Certo si esce anche, e il tornare a casa è un piacere inarrivabile. Si gusta il sapore del calore del piumone, si scorrazza per la casa fuggendo i punti freddi e poi si scivola nel letto. E si dorme.
E la primavera. Quella mi fa un po’ paura. Perchè i miei risvegli primaverili sono sempre un po’ border line. E vuoi stare per strada, e gli odori ti sovrastano (malgrado la mia anosmia da tabagista), e i colori ti stordiscono, e gli ormoni impazziscono.
L’estate? pensavo sarebbe stata un problema, ma dopo l’estate appena passata, credo che tutto sia possibile.
Tutto è possibile e tutto è accessibile. Ma io sono ferma. Sarà il letargo?
Non riesco a pescare il pensiero basic nella mia capoccia. Nemmeno scrivendo. Cazzo.
In questi ultimi sei anni non ho vissuto una sola stagione da individuo. Adesso mi elettrifica il pensiero. Come sarà? felice, complicato, vero, inutile, pieno o cosa?
Non si capisce perché pretendo di saperlo adesso. Ma proprio adesso, alle 2 e 46 del 31 dicembre 2007.
A capodanno mi rompo i coglioni di fare le cose tradizionali, mi scende il latte alle ginocchia davanti alle mutande rosse, mi terrorizza sparare i botti, sono astemia radicale, mi dimentico delle lenticchie.
Ma due cose le faccio sempre e comunque.
Una me l’ha insegnata Massimo, amico perduto e trave portante della casa che accoglie la mia personalità. A mezzanotte lancio un bicchiere pieno d’acqua dalla finestra. Sono le lacrime di tutto l’anno e si buttano via. Considerando quanto poco ho pianto quest’anno, basterebbe un cucchiaino. Sono sul sentiero dell’anaffettività? Mah.
La seconda me l’ha insegnata una mia splendida ex-suocera (la saggezza è una questione interiore e lei ne era la prova). Il primo dell’anno non si deve spazzare in casa perché, se per caso è entrata la fortuna, la scacceresti via.
Comincio a intravedere il filo del mio pensiero e non sono sicura sia questione pubblica. A ben pensarci mi succede ogni anno. E’ il mio bilancio, il mio bollettino di guerra, la mia rassegna alle truppe, il mio check del dolore.
Mi mancano quelli che mancano. E mi sembrano sempre troppi. Le madri scomparse nel nulla, gli amici che si sono portati via con loro pezzi di pelle e di anima, le donne che hanno attraversato all’incrocio facendo perdere le tracce. Restano sempre dei piccoli buchi neri che, per un po’, succhiano dentro tutto. Piano piano si riempiono, però, e un giorno ti ritrovi a sorridere pensando.
E un attimo dopo brucia il cuore. Ma è così che inizia la vita senza di loro.
Poi, almeno una volta all’anno, in una qualche occasione che, per ognuno, è personale, ti ritorna su tutto come un rigurgito, alla velocità della luce, senza filtro e oltrepassando allegramente ogni scudo e ogni sistema di difesa. E nemmeno te ne accorgi di questo lavorio. Arriva e basta. Colpisce. Stende.
E me li ricordo tutti, vorrei abbracciarli, parlare, raccontare le infinite cazzate del mio vivere, lasciarmi accarezzare e sentire quelle voci, quelle frasi, vedere i loro gesti. Ancora una volta. Ringraziarli tutti. Per quello che hanno fatto quando c’erano e anche quando non ci sono stati più. Scusarmi per la mia rabbia contro di loro, che proprio non hanno la colpa di essere morti o andati via. E abbracciarli di nuovo prima di salutarli ancora una volta.
Mia madre, mia nonna, Massimo, Leda, Gabriella, mia zia, la madre di Stefania, Claudio. E anche chi c’è ancora e non mi accompagna più: le mie donne, tutte.
E quest’anno è andato pure bene, c’è da dire.