Ho deciso di dormirci sopra. Non ricordo se ne ho parlato con qualcuno o no. Credo che fossi totalmente sotto shock.
Ricordo (non in quale momento) di averti chiesto cosa ti avevo dato di positivo in questi 6 anni insieme.
“Mi hai dato te stessa, senza riserve” – hai detto.
Mentivo quando dicevo di amarti, mentivi quando non riuscivi a dirmi “non ti amo più”.
Perché?
Perché mai abbiamo fatto questo? E’ facile pensare che, semplicemente, nessuna delle due ne ha avuto il coraggio. Paura di deludere l’altra? abbiamo tanto parlato, in sei anni, dell’impegno e delle promesse fatte, abbiamo sempre detto che una relazione è fatica, lavoro, compromessi e che ne vale sempre la pena. Abbiamo passato tempo e spazio a dire, l’una all’altra, che ci avremmo provato sempre, comunque, ad oltranza, perchè il rapporto di coppia è un punto d’arrivo, è un obiettivo da coltivare.
Mentivamo sapendo di mentire. Ho cominciato a mentire nel 2003, quando, una notte tornando a casa in macchina, mi sono resa conto che non mi piacevi più. I capelli ti erano cresciuti tanto, io ti avevo conosciuta con i capelli corti. Non mi piacevi proprio e, pensavo, si può smettere di amare una persona perché si è fatta crescere i capelli?
Mi dissi che i rapporti sono fatti di alti e bassi, quello era un momento di bassa, sarebbe passato. Potevo tollerare quello che mi dava fastidio fino a quando non sarebbe passato. E sarebbe passato.
E mi mordevo la lingua e il fegato ad ogni scontro con la tua mancanza di autonomia, ad ogni capriccio da primadonna, ad ogni elenco degli infiniti traumi spaventosi che ti impediscono di camminare, guidare, portare pesi, parlare dell’essenza delle cose, ad ogni pippotto di autocommiserazione cercando, con enorme difficoltà, di trovare cose positive.
Mi piaceva passare il tempo con te, mi seccava un po’ la tua abitudinarietà (stessi locali, stessi panini) troppo simile alla mia, ma parlare del più e del meno era piacevole. Piacevole condividere parecchie cose, purché si restasse in un limite preciso. Mai troppo in fondo. Mai. Sennò partivano litigi belluini. Mi piaceva viaggiare, ma per tempi brevi; abbiamo litigato ogni fottutissima singola estate passata insieme. Sempre sole. Come mai? Non so, ma adesso la gente mi invita dappertutto e mi viene a trovare. Può essere non dipendesse da me? Dal numero di persone che, in questi mesi, mi hanno detto frasi del tipo “sai era un tipo un po’ difficile” o “nun se putev’ suppurtà”, mi è balenata l’ipotesi che la gente non volesse partire con te, tuoi amici compresi. Mentivano in tua presenza, mentivano a me.
Dal trasferimento a Roma la cosa è diventata impossibile. Ma questo è un altro capitolo che andrà sotto la categoria: lesbiche isteriche.
Insomma ci siamo mentite a vicenda e tanto. Nel nome del senso del giusto, credo. Si fà quel che è giusto fare, come una coppia di sessantenni con figli adolescenti.
Pensa che liberazione se fossimo riuscite a dircelo così com’è. Ma non è andata così.
La mattina mi sveglio e mi rendo conto che, viste il susseguirsi delle telefonate il giorno della sparizione, la verità possibile è una sola. Eri andata da A**, quel pomeriggio – e questo mi era chiaro – e la telefonata a P** prima di chiamare me serviva per dirmi, alle 9 di sera, che non saresti tornata a casa a dormire ma saresti andata da P**.
Solo che non te ne ho dato il tempo, aggredendoti di urla, e ti ho alleggerito il senso di colpa dicendoti, con il mio apparato fonatorio, di non tornare a casa. Hai avuto su un piatto d’argento la migliore autorizzazione a restartene a casa di A**.
Non mi hai detto grazie neanche di quello.
Ho sclerato al cell e tu te ne sei stupita, hai messaggiato mia sorella, mia nipote, Marco, pietendo un intervento sulla povera pazza che “si stava facendo del male”. Mio Dio, ma se pò sentì ‘a cosa del genere?
Poi non ricordo nulla, solo il mio adattamento alla casa di Rignano, le nuove abitudini, le chiacchierate con la R**, le uscite tutte le sante sere da Rignano a Roma per vedere cugini e strani amici e locali enche più strani, il terrore di ricominciare da sola, i fantasmi che prendevano forme per niente evanescenti, le telefonate di ore con marco in Grecia, miei deliri al cell con il “tuo” amico M** che cercava di mostrarsi neutrale. Mentiva. Era d’accordo con me.
Mi sveglio la domenica mattina del 2 settembre con una certezza assoluta. Mi preparo e scendo. Arrivo sotto casa tua, ti mando un sms mentre tengo d’occhio il giardino e ti dico che sto venendo giù per prendere delle cose. Mi rispondi che proprio non hai voglia di vedermi dopo quello che ti ho detto, ma ti viene il dubbio. Corri fuori dalla finestra, letteralmente corri, e mi trovi lì.
Mi apri. Entro. La trovo seduta sul divano. La tua prima frase è “non è come credi”. Non è che mi viene la nausea, è che ti vomiterei in faccia.
Non sono più nel mio corpo, tremo come un vibratore e mi controllo per dignità. Ti chiedo di non insultare la mia intelligenza e tu menti.
Vado in camera e trovo i tuoi vestiti ammontonati, il letto appena coperto, una pubblicazione editoriale di psicologia che parla di come raggiungere meglio l’orgasmo. entro in bagno e trovo due asciugamani e due accappatoi, ma non due spazzolini…
In soggiorno, patatine sul mio tavolino, film lesbico sul pc, due fettine di pollo a scongelare sul piano della cucina.
Ci chiudiamo in bagno a discutere. Per carità, dovessimo fare ‘na figur ‘e merd ‘ con A**?
Insisti con il non è come pensi, io penso che non ce la faccio a sentirti, mi fai un po’ schifo e mi faccio schifo pure io. Ti dico quello che penso di questa storia, anche che mi rendo perfettamente conto che la questione reale non è lei, siamo noi. Di lei non me ne frega un cazzo. Insisto cercando di farti dire che stai con lei, che penso che quel giorno eri con lei, che, cazzo, CI STAI.
Alla fine mi rispondi, scappando fuori dal cesso, che sì, è così, ma non da quando penso io.
Mi sento una particella in un acceleratore di neutroni e capisco. Capisco che è cominciata prima di agosto e che me lo stai, finalmente, dicendo con il senzapallismo che ti contraddistingue. Mentivi per non mentire.
Prima di andare via vado a salutare A** che si era rifugiata in giardino, mi viene da pensare che si è messa in una situazione di merda e non ne ha la più vaga idea. Mi viene da pensare che non ha proprio capito con chi ha a che fare, ma lo scoprirà. E sgorgò dal mio fegato una infinita tenerezza.
Non ti ho mai più visto da quel giorno. Ricordo che quando sono entrata in casa speravo che vederti mi avrebbe dato una emozione, un palpito di affetto. Niente.
Ho dovuto litigare con persone che non mi credevano, non ci credevano quando dicevo che stavi con un’altra. Che prove hai? mi ha chiesto qualcuno, un’altra mi ha detto che non era possibile, se ne sarebbe accorta di certo. Che situazione assurda. Nei momenti psicodrammatici, di solito, si aggiungono faccende da teatro di Ibsen, non so se ce le cerchiamo o arrivano magneticamente attratte.
Nel frattempo conosci, per la prima volta, il dolore che si prova nel perdere una amica importante e buona per davvero. Mi chiami per farmelo sapere e per chiedermi se vengo al funerale. Ti offro disponibilità e ti chiedo se vuoi vedermi. Rispondi che non lo sai. Ti raccomando di non restare sola e ripeto che, se vuoi vedermi, io sono a Roma. Mentivo, ovviamente, non sarei mai venuta a consolarti perché la morte è entrata nel tuo giardino. Benvenuta nel mondo degli esseri umani.
Mi ha addolorato la perdita di una persona particolare e pulita come quella. Molto. Ma sono poche le morti che mi possono turbare o sembrare drammi universali, ormai. Capisco il dolore degli altri, ma il mio me lo gestisco a modo mio.
Parti per il funerale e ti incazzi perché io non verrò. Come una belva, come se io avessi fatto un torto a Dio, credo. Come se fossi colpevole di nefandezza e ogni altro sinonimo possibile. Mentivi, serviva a te trovare qualcosa che mi facesse apparire un mostro anaffettivo per smorzare i tuoi sensi di colpa.
Piccerè, mavafanculo.
Da allora non ti ho più sentito.
Ripasso per casa una volta sola prima del trasloco globale per togliere alcune cose mie, troppo mie per condividerle con la tua ragazza: il lume sul letto, il poster di fronte al letto, gli oggetti della nonna in camera da letto e poco altro.
Controllo il tuo pc e imparo a memoria i tuoi contatti skype e messenger. Scopro che lei ti propone di partire per Londra.
La settimana dopo Marco e Francesco salgono a Roma e mi aiutano a fare il trasloco. Definitivo.
Ancora u’altra settimana e trovo casa a Roma, dove dico io, come dico io, con chi dico io. Provi a estorcermi l’indirizzo con un paio di mail. Spero tu ancora non lo sappia.