Il furore dell’ex – 6, Tutti mentono

verita.jpgSoundtrack: Hey you – Madonna

Ho deciso di dormirci sopra. Non ricordo se ne ho parlato con qualcuno o no. Credo che fossi totalmente sotto shock.

Ricordo (non in quale momento) di averti chiesto cosa ti avevo dato di positivo in questi 6 anni insieme.

“Mi hai dato te stessa, senza riserve” – hai detto.

Mentivo quando dicevo di amarti, mentivi quando non riuscivi a dirmi “non ti amo più”.

Perché?

Perché mai abbiamo fatto questo? E’ facile pensare che, semplicemente, nessuna delle due ne ha avuto il coraggio. Paura di deludere l’altra? abbiamo tanto parlato, in sei anni, dell’impegno e delle promesse fatte, abbiamo sempre detto che una relazione è fatica, lavoro, compromessi e che ne vale sempre la pena. Abbiamo passato tempo e spazio a dire, l’una all’altra, che ci avremmo provato sempre, comunque, ad oltranza, perchè il rapporto di coppia è un punto d’arrivo, è un obiettivo da coltivare.

Mentivamo sapendo di mentire. Ho cominciato a mentire nel 2003, quando, una notte tornando a casa in macchina, mi sono resa conto che non mi piacevi più. I capelli ti erano cresciuti tanto, io ti avevo conosciuta con i capelli corti. Non mi piacevi proprio e, pensavo, si può smettere di amare una persona perché si è fatta crescere i capelli?

Mi dissi che i rapporti sono fatti di alti e bassi, quello era un momento di bassa, sarebbe passato. Potevo tollerare quello che mi dava fastidio fino a quando non sarebbe passato. E sarebbe passato.

E mi mordevo la lingua e il fegato ad ogni scontro con la tua mancanza di autonomia, ad ogni capriccio da primadonna, ad ogni elenco degli infiniti traumi spaventosi che ti impediscono di camminare, guidare, portare pesi, parlare dell’essenza delle cose, ad ogni pippotto di autocommiserazione cercando, con enorme difficoltà, di trovare cose positive.

Mi piaceva passare il tempo con te, mi seccava un po’ la tua abitudinarietà (stessi locali, stessi panini) troppo simile alla mia, ma parlare del più e del meno era piacevole. Piacevole condividere parecchie cose, purché si restasse in un limite preciso. Mai troppo in fondo. Mai. Sennò partivano litigi belluini. Mi piaceva viaggiare, ma per tempi brevi; abbiamo litigato ogni fottutissima singola estate passata insieme. Sempre sole. Come mai? Non so, ma adesso la gente mi invita dappertutto e mi viene a trovare. Può essere non dipendesse da me? Dal numero di persone che, in questi mesi, mi hanno detto frasi del tipo “sai era un tipo un po’ difficile” o “nun se putev’ suppurtà”, mi è balenata l’ipotesi che la gente non volesse partire con te, tuoi amici compresi. Mentivano in tua presenza, mentivano a me.

Dal trasferimento a Roma la cosa è diventata impossibile. Ma questo è un altro capitolo che andrà sotto la categoria: lesbiche isteriche.

Insomma ci siamo mentite a vicenda e tanto. Nel nome del senso del giusto, credo. Si fà quel che è giusto fare, come una coppia di sessantenni con figli adolescenti.

Pensa che liberazione se fossimo riuscite a dircelo così com’è. Ma non è andata così.

La mattina mi sveglio e mi rendo conto che, viste il susseguirsi delle telefonate il giorno della sparizione, la verità possibile è una sola. Eri andata da A**, quel pomeriggio – e questo mi era chiaro – e la telefonata a P** prima di chiamare me serviva per dirmi, alle 9 di sera, che non saresti tornata a casa a dormire ma saresti andata da P**.

Solo che non te ne ho dato il tempo, aggredendoti di urla, e ti ho alleggerito il senso di colpa dicendoti, con il mio apparato fonatorio, di non tornare a casa. Hai avuto su un piatto d’argento la migliore autorizzazione a restartene a casa di A**.

Non mi hai detto grazie neanche di quello.

Ho sclerato al cell e tu te ne sei stupita, hai messaggiato mia sorella, mia nipote, Marco, pietendo un intervento sulla povera pazza che “si stava facendo del male”.  Mio Dio, ma se pò sentì ‘a cosa del genere?

Poi non ricordo nulla, solo il mio adattamento alla casa di Rignano, le nuove abitudini, le chiacchierate con la R**, le uscite tutte le sante sere da Rignano a Roma per vedere cugini e strani amici e locali enche più strani,  il terrore di ricominciare da sola, i fantasmi che prendevano forme per niente evanescenti, le telefonate di ore con marco in Grecia, miei deliri al cell con il “tuo” amico M** che cercava di mostrarsi neutrale. Mentiva. Era d’accordo con me.

Mi sveglio la domenica mattina del 2 settembre con una certezza assoluta. Mi preparo e scendo. Arrivo sotto casa tua, ti mando un sms mentre tengo d’occhio il giardino e ti dico che sto venendo giù per prendere delle cose. Mi rispondi che proprio non hai voglia di vedermi dopo quello che ti ho detto,  ma ti viene il dubbio. Corri fuori dalla finestra, letteralmente corri, e mi trovi lì.

Mi apri. Entro. La trovo seduta sul divano. La tua prima frase è “non è come credi”. Non è che mi viene la nausea, è che ti vomiterei in faccia.

Non sono più nel mio corpo, tremo come un vibratore e mi controllo per dignità. Ti chiedo di non insultare la mia intelligenza e tu menti.

Vado in camera e trovo i tuoi vestiti ammontonati, il letto appena coperto, una pubblicazione editoriale di psicologia che parla di come raggiungere meglio l’orgasmo. entro in bagno e trovo due asciugamani e due accappatoi, ma non due spazzolini…

In soggiorno, patatine sul mio tavolino, film lesbico sul pc, due fettine di pollo a scongelare sul piano della cucina.

Ci chiudiamo in bagno a discutere. Per carità, dovessimo fare ‘na figur ‘e merd ‘ con A**?

Insisti con il non è come pensi, io penso che non ce la faccio a sentirti, mi fai un po’ schifo e mi faccio schifo pure io. Ti dico quello che penso di questa storia, anche che mi rendo perfettamente conto che la questione reale non è lei, siamo noi. Di lei non me ne frega un cazzo. Insisto cercando di farti dire che stai con lei, che penso che quel giorno eri con lei, che, cazzo, CI STAI.

Alla fine mi rispondi, scappando fuori dal cesso, che sì, è così, ma non da quando penso io.

Mi sento una particella in un acceleratore di neutroni e capisco. Capisco che è cominciata prima di agosto e che me lo stai, finalmente, dicendo con il senzapallismo che ti contraddistingue. Mentivi per non mentire.

Prima di andare via vado a salutare A** che si era rifugiata in giardino, mi viene da pensare che si è messa in una situazione di merda e non ne ha la più vaga idea. Mi viene da pensare che non ha proprio capito con chi ha a che fare, ma lo scoprirà. E sgorgò dal mio fegato una infinita tenerezza.

Non ti ho mai più visto da quel giorno. Ricordo che quando sono entrata in casa speravo che vederti mi avrebbe dato una emozione, un palpito di affetto. Niente.

Ho dovuto litigare con persone che non mi credevano, non ci credevano quando dicevo che stavi con un’altra. Che prove hai? mi ha chiesto qualcuno, un’altra mi ha detto che non era possibile, se ne sarebbe accorta di certo. Che situazione assurda. Nei momenti psicodrammatici, di solito, si aggiungono faccende da teatro di Ibsen, non so se ce le cerchiamo o arrivano magneticamente attratte.

Nel frattempo conosci, per la prima volta, il dolore che si prova nel perdere una amica importante e buona per davvero. Mi chiami per farmelo sapere e per chiedermi se vengo al funerale. Ti offro disponibilità e ti chiedo se vuoi vedermi. Rispondi che non lo sai. Ti raccomando di non restare sola e ripeto che, se vuoi vedermi, io sono a Roma. Mentivo, ovviamente, non sarei mai venuta a consolarti perché la morte è entrata nel tuo giardino. Benvenuta nel mondo degli esseri umani.

Mi ha addolorato la perdita di una persona particolare e pulita come quella. Molto. Ma sono poche le morti che mi possono turbare o sembrare drammi universali, ormai. Capisco il dolore degli altri, ma il mio me lo gestisco a modo mio.

Parti per il funerale e ti incazzi perché io non verrò. Come una belva, come se io avessi fatto un torto a Dio, credo. Come se fossi colpevole di nefandezza e ogni altro sinonimo possibile. Mentivi, serviva a te trovare qualcosa che mi facesse apparire un mostro anaffettivo per smorzare i tuoi sensi di colpa.

Piccerè, mavafanculo.

Da allora non ti ho più sentito.

Ripasso per casa una volta sola prima del trasloco globale per togliere alcune cose mie, troppo mie per condividerle con la tua ragazza: il lume sul letto, il poster di fronte al letto, gli oggetti della nonna in camera da letto e poco altro.

Controllo il tuo pc e imparo a memoria i tuoi contatti skype e messenger. Scopro che lei ti propone di partire per Londra.

La settimana dopo Marco e Francesco salgono a Roma e mi aiutano a fare il trasloco. Definitivo.

Ancora u’altra settimana e trovo casa a Roma, dove dico io, come dico io, con chi dico io. Provi a estorcermi l’indirizzo con un paio di mail. Spero tu ancora non lo sappia.

Il furore dell’ex – 5, Il ritorno

rignano.jpgSoundtrack consigliata: Pink – Leave me alone and lonely (perchè la sentivo in continuazione).

Arrivata a Roma il 24, cambio idea 75 volte ogni 60 secondi: andare? restare? provare? sparire? parlare?

Mi avevi mandato sms con questo tono: “forse torno lunedì”. Avevamo appuntamento per parlare venerdì o meglio, avevo detto che il venerdì sarei andata via.

E allora ecco che si delinea la questione vera, profonda, mia personale.

Assodato che sei una senzapalle, che senza avere un’altra storia non ti saresti mossa, che il tuo massimo sforzo è stato costruire una bomba a tempo e metterla nelle mie mani. Assodato che non hai avuto il coraggio di finire quello che avevi cominciato e che non eri in grado di sostenere le mie reazioni emotive, diventa chiaro che io ero sorda e decerebrata.

Non ho ascoltato una sola parola, non ho letto un solo sottotesto, non ho capito un beneamato cazzo. E la cosa durerà ancora ben oltre il 24 agosto.

Rispondo incazzata al tuo sms, mi concedi di tornare il 25 ma, premetti, sarai stanca per il lungo viaggio (dalla calabria?) e non avrai la forza di parlare.

Chiamo la mia amica e collega di lavoro, lei mi offre una casetta che ha, vuota, a Rignano Flaminio (Pedofilandia). Faccio i bagagli essenziali, prendo gatta e foto di mia madre e vado via.

F** mi accoglie con il marito con tutto l’affetto possibile e impossibile. Mi nutrirà, mi ascolterà, avrà pazienza, tollererà i miei sconfinamenti e vincerà la paura che io non vada più via.

Tu arrivi a Roma, comunichi ad altri che ti stupisce che io abbia portato via il gatto e la foto di mia madre e taci.

Ti chiamo per vederci. Scendo a Roma la sera e parliamo. Ma di cosa parliamo? di cose diverse in realtà. Tu piangi ininterrottamente, io mi impongo di mantenere un controllo ferreo per ascoltarti, non urlarti contro e non rinfacciarti nulla.

Ti avevo lasciato una lettera abbastanza dura, ma non abbastanza vicina a quello che sentivo io.

Ti disperi e mi ripeti le stesse cose che hai detto dal primo momento:

  • sei confusa;

  • non sai cosa vuoi;

  • io ti ho fatto capire che l’amore non esiste;

  • non ti innamorerai mai più;

  • non ami quello che sono diventata;

  • non vuoi questa vita;

  • io sono morta, depressa e spenta;

  • io non ti capisco.

Cerco di trovare un senso a quello che dici, che pure dovrebbe essermi palese, ti rispondo che non ho una doppia personalità non sono posseduta, sono sempre io, qualunque cosa io “sia diventata” e che non sono affatto depressa. Ti dico che mi sono spenta per non ascoltarti. Recrimini su tutto, persino sui soldi e su ogni mio singolo momento di debolezza. Non reagisco perché non voglio che finisca in un litigio.

Ti chiedo se vuoi tornare con me.

Dici che non lo sai.

Ti chiedo se ti devo aspettare.

Dici che non puoi stare co’ ‘sto pensiero.

Ti chiedo se mi ami ancora.

Dici che non ami quello che sono diventata.

Ti chiedo dove hai dormito nei giorni in cui non eri a casa.

– Aspettavo il momento giusto per fare questa domanda, me lo sono trezzeato, dovevo aspettare che abbassassi le difese, secondo me. Non avevo lontanamente immaginato che tu non aspettassi che un aggancio per cominciare a dire uno scampolo di verità. Non tutta, giusto un po’. –

Mi rispondi da A***.

Dico “quella che ci ha provato con te quest’inverno? quella che tu sfottevi perché etero e troia in modo imbarazzante? quella che ti dava fastidio per la modalità di pensiero eterofemminile da velina?”.

Mi dici che quando mai ci ha provato con te.

Contengo il fumo dalle narici e dalle orecchie e ti ricordo che non solo c’erano C** e I** presenti, quella sera, ma che ci abbiamo riso per mesi. Ridevamo della tipica modalità delle donne etero che, di fronte ad una lesbica, pensano sia giusto usare le stesse identiche tecniche di seduzione che si usano per gli uomini. Ne abbiamo riso davvero tanto.

“E’ una persona migliore”. Dici.

Il cervello mio era già ampiamente andato, il cuore pure, i polmoni lesionati da tutte le passate emozioni. A questa frase non mi restava che vedere disintegrarsi le ginocchia. Perché noi sappiamo sempre. Sappiamo perché siamo donne (almeno noi che sappiamo di esserlo).

Con dolcezza ti prendo in giro cacciando il mio secondo asso nella manica (seee, l’illusione del controllo), ti chiedo perché, allora, hai chiamato la tua amica P**, la sera che sei sparita, prima di chiamare me: “che hai fatto, come i ragazzini? ti sei preparata la palla da raccontarmi e la spalla per sostenerla?” e rido.

Di cosa cazzo rido io non lo so, ma rido e ti guardo con tenerezza. Non era vero che provavo tenerezza per te, la provavo per me, volevo rassicurarti per farti continuare a parlare e andavo a fuoco. Volevo saperlo, dovevo saperlo e faceva un cazzo di male. Aspettavo le parole che sapevo avresti detto per permettermi di far morire l’unica cosa di te in cui credevo: la lealtà.

Nemmeno quella era vera. Non c’è più niente da salvare qui. Ma non ti ho detto nulla, anzi.

Mi hai raccontato che, sapendo che io ero gelosa patologica, mi sarei arrabbiata e allora hai chiamato la tua amica P** per avvisarla che avresti usato il suo nome. “Se poi vi incontravate e usciva l’argomento, sai che figura di merda”

Non ti sei accorta di niente, non ti sei accorta dell’assurdità di quello che dicevi, non hai pensato che io avessi letto l’orario della chiamata e che la tua palla era macroscopica e non reggeva. Non ti sei accorta che ho fatto finta di sorridere e che, con dolcezza ti ho detto che non ce n’era bisogno.

Quando mai. Volevo morire e volevo ucciderti.

Il furore dell’ex – 4, Vacanza

kimolos.jpg               milos.jpg                Soundtrack consigliata: Sirtaki – danza popolare greca

Milos è un’isola molto bella, come lo riescono ad essere le isole greche e niente più. Mi pare di essere tornata indietro di 25 anni. Stessi amici e stessi luoghi. E la pazienza di Marco e Francesco, la cura, l’attenzione, l’amore incondizionato.

Vivo di un toast e una insalata greca al giorno, in uno stato ipertiroideo di perenne esaltazione fisica. Parlando e parlando, scrivendo, cercando di capire. E nulla capisco.

So che alla mia partenza hai mandato un sms a Marco augurando a me e a te uno “splendido nuovo inizio”. Mi mandi sms giornalieri sui tuoi spostamenti e attività. Ma non è che le è venuta una malattia al cervello e ha perso memoria e senno? mi chiedo spesso.

Poi parti per la Versilia “sono alla stazione”, recita l’ultimo sms. Poi più nulla di nulla per 5 giorni.

Passo il tempo a onanizzarmi di ipotesi, i ragazzi cercano di placarmi. Sono stata soprannominata la principessa sui piselli.

Ricompari dopo 5 giorni comunicandomi che stai andando in Calabria dai tuoi.

Credo di aver finito i sinonimi per esplodere o impazzire. Li ho usati tutti? Mi pare di sì.

Queste erano le tue istanze di vita spericolata, orge e alcool: 5 giorni in Versilia e poi back to la parmigiana di mammà.

Io sono lenta e ottusa su quello che riguarda me, mi dico le cose a spezzoni e morzilli, mi censuro l’evidenza se fa male, ma tu proprio non me lo hai voluto permettere.

Non amo rinnegare la mia vita e le mie scelte, per principio, per autoconservazione. Neanche mi piace dover ammettere di avere sbagliato enormemente nell’inquadrare un essere umano. Di solito mi sbaglio poco, pochissimo. Avendo a che fare con te mi si è chiarito perfettamente che non è vero. Sbaglio clamorosamente. Ci hai tenuto così tanto a farmelo sapere che ti dovrei ringraziare. Ma la verità è che non mi hai affatto reso le cose più facili.

Avrei voluto poter restare aggrappata a uno scampolo di affetto e considerazione per te, mi ha sempre salvato. Volerti ancora bene o vederti fragile avrebbe dimensionato il mio dolore e sarei stata costretta a non addossarti cose e fatti. Mi avrebbe aiutato e molto. Ma evidentemente non avrebbe aiutato te.

Dopo questa comunicazione e in assenza di una mia risposta mi tempesti di sms per sapere perchè mai non ti rispondo. Fino ad un sms deprimente nella sua falsità, nel quale sostieni che sei proeoccupata, che ti stai spaventando e hai paura che mi possa essere capitato qualcosa. Ti rispondo neutra, mi accusi di aggredirti. Siamo alla necrosi dei neuroni. Ti dico che fino ad ora non mi hai una sola volta detto qualcosa che mi possa riavvicinare a te. Mi dici “come puoi dire di amare una persona che non stimi?”. Il festivàl della sconnessione.

Ma ha ragione, sto mentendo anche io. Non la amo, neanche un po’, e non la stimo (ma neanche prima la stimavo molto, in verità), ho un problema con la separazione e l’abbandono. Questo è tutto.

Al ritorno, dopo 5 ore da sola in nave, cena da sola sulla terrazza dell’hotel di Atene e la richiesta del posto finestrino sull’aereo, capisco che qualcosa dentro di me funziona in altro modo e, soprattutto, che non sono disperata per lei, ma spaventata per il mio futuro.

Il furore dell’ex – 3, Partenze e bugie

prime.jpgSoundtrack consigliata: Gianni Morandi – Uno su mille ce la fa

 Torno a Napoli, tra le calde e genitoriali braccia di Marco e Francesco. Tollerano con una pazienza infinita i miei strepiti, le mie paturnie, il mio ossessivo ripetere sempre le stesse cose e bloccano ogni singola pietosa bugia che cerco di raccontarmi. Marco prova anche a mediare, giustificare e smorzare. Mi massacra di analisi sul mio comportamento e mi costringe a pensare in linea retta.

Mi coccolano in un tripudio di mozzarelle, cotolette alla milanese, cene in grandi ristoranti e stecche di sigarette in regalo. Per i ristoranti ci sono andati bene, ho smesso di mangiare per quasi due mesi, per le sigarette meno; 3 pacchetti al giorno, una ciminiera turca.

Mi chiami, non voglio parlare. Vengo a sapere che sei a Napoli anche tu. Perché? non capisco. Non dici che sei a Napoli, sai dove sono e non mi vieni a cercare, per quanto tu insista che dobbiamo parlare. Mi chiami ancora e accetto di parlare al cell, niente di più. Mi dici che sei stata invitata, da una collega, in campeggio a Torre del Lago. Mi si scioglie il cervello e pure il cervelletto: invitata? non ti ha invitato, non ha una casa, in Versilia, ha una tenda, non si “invita” la gente in tenda. Ma in che cazzo di modo ti esprimi, smettila di dire bugie, smettila. Ma come non è una bugia? cambi le parole per non ammettere responsabilità, che altro è questo?

Incontro le mie amichette. C** ha la meravigliosa abitudine di dirmi le cose per come stanno e, alla fine di un mio confuso e delirante pippotto, mi blocca e mi dice: “te ne ha’ ì a chella casa!”, poi mi fà capire (neanche troppo sottilmente) che potrebbe esserci qualcun’altra, che è riuscita a farle ammettere che questa possibilità esiste. Si accendono lampadine nella mia testa che neanche il Millennium Dome. Un festival di fanali intermittenti, accecanti e rumorosi. Esplodo. Chiedo a C** di dire a te di non presentarti a casa finchè non me ne vado. Ti chiamo e ti dico che basta, non mi troverai al tuo ritorno, andrò via, non c’è altro da dire. Ti incazzi come una bestia e poi ti incazzerai anche con C**, negando ogni parola detta.

Torno a Roma per fare i bagagli. Mi dicono che torni anche tu. Avevo dimenticato che continuavi a mandarmi sms di vita quotidiana che mi parevano il circo del nonsenso – sto facendo la spesa, sto prendendo il treno, fa caldo…-.

La mattina prima di partire, nel delirio del mio terrore per l’aeroplano che prenderò da sola, mi decido a vederti. C’è un tempo limitato, mi sembra una situazione protetta. Ti mando sms. Mi richiami e mi dici “Allora vengo a casa?” e io, per l’ennesima volta, non capisco perché. Ho usato parole oscure? ho scritto in suomi? cosa c’è da chiedere?.

Arrivi dopo due ore, mi chiedo da dove, ma non te lo chiedo ancora, aspetto perché so. Arrivi dimessa e mortificata, con quell’arietta da santa e martire che non ti riesce poi tanto bene. L’unica cosa vera è che hai paura. Io non capisco di che. Già qualche giorno fa hai avuto così tanta paura di me da rifugiarti in bagno, non sono fisicamente violenta io, mai stata, restai basita allora, oggi ho capito.

Parliamo.Ti ho scritto cose, costruito simboli. Ti dico che l’unico modo di salvare il rapporto è che io vada via. Tu mi dici che non vuoi un altro anno così e che, fondamentalmente, non ami la persona che sono diventata.

Ma come cazzo parli piccerella? Hai la forma mentis di un adolescente di 17 anni. Pausa di riflessione… non amo quello che sei diventata… voglio vivere… mi hanno invitato… ero in chiesa… Gesù, ma questa chi sfaccimma è? mi chiedo.

Non mi chiedi di restare, non mi dici che questa è anche casa mia, dirai ad altri che ti sembrava che stessi così bene che non volevi interferire. Non ho parole.

Piangi a singhiozzi disperati, ti devo abbracciare e coccolare e calmare. Ho il ghiaccio tra cuore e polmoni e la nebbia di Londra in testa. Capisco solo che devo salvarmi e non so da cosa. Scelgo di tacere ancora delle cose che ormai so bene. Verrà il momento, ora non sono pronta.

Ci salutiamo con disperazione, mi fai credere che la mia idea di andar via sembri anche  te un modo per restare insieme. Io censuro le strunzate che mi hai detto per non vederle nella loro miserevole sincerità. Parto.

E il viaggio in aereo da sola mi pare la cosa più bella che io abbia mai fatto in vita mia.

Il furore dell’ex – 2, Si comincia

lo spirito resta questo, credoSoundtrack suggested: Daniele Silvestri – a me ricordi il mare

Non ci amavamo più da quanto? un anno almeno lei, quasi tre io.

Non sopportavo più nulla di lei: le sue lamentele (ho freddo, ho caldo, ho fame, ho sete, devo fare pipì, sto scomoda, sono stanca, la vita è una merda, voglio uscire, voglio le scarpe nuove). Un continuo e infinito lamento su qualsiasi fottutissima cosa, persona, bisogno.

Ho imparato a tapparmi le orecchie per non esplodere.

Non sopportavo il suo russare la notte, sono passata dalle dolci carezze di tenerezza ai calci dell’esasperazione. Non sopportavo il suo disordine, la sua mancanza di cura per la casa, che pure era sua, la sua rigidità, il suo corpo, i suoi capelli, il suo alito, il suo modo di fumare, il suo egocentrismo, la rigidità mentale, il dito puntato su tutto e tutti, il pessimismo cosmico, la beghinaggine cattolico/comunista che la pervade, la mania della santità, l’abitudine/attitudine ad assegnare le responsabilità a chiunque tranne che a se stessa, l’incapacità a mettersi in secondo piano quando era necessario, l’incapacità mentale di riflettere ed analizzare fatti, emozioni, persone. La drammaticità teatrale (che pure, all’inizio, mi aveva affascinato oltremodo) che ormai riconoscevo come falsa, troppo caricata, fastidiosa. E ancora il protagonismo, l’egocentrismo, l’esibizionismo, l’eccesso inutile che mi faceva sentire a disagio e mortificata di fronte agli altri.

Quando smetti di amare qualcuno, qualsiasi cosa ti possa essere sembrata tenera e particolare, originale e dolce, diventa un mostro a tre teste che cerca di divorarti dentro fuori e intorno e non sai più come difenderti.

Io mi sono difesa spegnendomi. Pur di non ammettere di non amarla più.

Ho cambiato città con lei sapendo, perfettamente, che non era la persona adatta, non l’amavo più e, soprattutto, che se si fosse comprata una casa sarebbe stata la fine. Perchè per genetica non riesco a stare in una casa che non mi appartenga.

Ho visto i suoi genitori insistere per la casa e ho aspettato. Le ho visto scegliere una casa che non mi piaceva in un quartiere che non mi piaceva ed ho apettato. Ho visto (in un rush psicotico di assoluta spersonalizzazione) il trasloco nella casa nuova, il suo fastidio per la mia roba in giro per casa, più roba mia che sua. Ho visto le scelte di arredamento come se io fossi altrove, altro da me.

Ho cercato di fare mia quella casa e di recuperare i ricordi di un innamoramento troppo lontano per essere ricordato.

Ho lottato per trasformarmi in un perfetto zombie nel nome della promessa fatta, del progetto iniziato, dell’impegno dichiarato e profuso. Ho resistito un altro anno, poi sono implosa.

Morta, spenta, senza anima, senza emozioni.

Una sola cosa non ho mai smesso di apprezzare in lei, senza dubbi malgrado il mare di merda che vedevo distintamente: la sua lealtà, unico baluardo inattaccabile e, di fatto, l’unico filo cui attaccarsi.

La caduta, una volta iniziato il coma,  è stata verticale, vertiginosa, fulminea. Molti di coloro che leggeranno questo blog conoscono la storia a memoria, ma io ho bisogno di mettere tutto per iscritto per rivederlo e capire di cosa mi lamento ora.

Ha iniziato a chiedere, chiedere, chiedere. Usciamo, facciamo diciamo. Ha iniziato a mentire sulle persone che incontrava. Ha iniziato a uscire sola e mentire. A insistere e litigare sulle cose che mi attengono, mi appartengono, mi caratterizzano. Ha usato, in un caldo week end agli inizi di agosto, le nostre amichette del cuore per attaccare ogni mio singolo punto debole e finirmi. Io non ho fatto niente per evitarlo, lo aspettavo, forse.

La domenica (5 agosto), mi dice che vuole andare in giro a passeggiar da sola. Vedo la determinazione, sento la sua ansia, ascolto la sua tachicardia. La lascio a Termini. Dopo 10 minuti 10, mi chiama per sapere dove sto. Tra i brevi spazi dei miei battiti cardiaci, una voce ripete “è una telefonata di controllo, ha paura o pensa che la segui”. Noi lo sappiamo sempre.

Dopo pochi minuti il suo cell diventa irragiungibile. Passano 4 ore senza contatti. La metro chiude, lei non aveva soldi, aveva detto. Vivo qualsiasi cosa: gelosia, rabbia, paura, terrore. se le fosse succeso qualcosa non avrei avuto modo di saperlo, non ne abbiamo il diritto noi. Chiamo anche le mie amichette appena partite che, con un filo di compassione, ascoltano le mie paure.

Alle 20,56 chiama lei. Non le dò il tempo di parlare. L’aggredisco di urla disperate ed esasperate dall’attesa e della preoccupazione. Mi dice che è entrata in una chiesa e a spento il telefono, mi dice che ha incontrato una amica e si è fermata a chiacchierare e non si è accorta che il cell era spento. Le dico di non tornare a casa, che se la vedo le spezzo le cosce. Mi dice va bene, ma che non capisce perché io mi sia incazzata tanto. Non ci posso credere.

La mattina arriva contegnosa e semioffesa. Io non riesco a parlare, la rabbia mi blocca le corde vocali e il pensiero logico. Preferisco stare zitta e mi preparo allo psicodramma e alla partenza per le vacanze del giorno dopo. Lei si stende sul letto con il computer sotto le dita.

Controllo il suo cell e mi accorgo che è partita una telefonata per il cell dell’amica che diceva di avere incontrato, 2 minuti prima della chiamata per me (20,54). Capisco. Taccio.

Mi arriva una voce dalla camera da letto che dice: “Ho parlato con mia sorella, penso che dobbiamo prenderci una pausa di riflessione”. Mi esplode il cervello per il troppo sangue in testa. Non ci posso credere, l’idiozia e la vigliaccheria di questa frase mi spaccano le orecchie. Ho 44 anni, ho smesso di credere alle pause di riflessione intorno ai 17 e mezzo, non posso credere di sentirlo dire a una che ha passato i 30.

Urlo, strepito le mie ragioni trovandomi di fronte una cerebrolesa totale. Cade dalle nuvole qualsiasi cosa io dica, sostiene la possibilità di cose inverosimili e inapplicabili. Nega l’essenza delle cose. Chiamo il mio amico Marco per annullare la partenza, lui mi convince a non farlo, a rimandarla di qualche giorno e partire lo stesso. Mi sembra una buona idea, non vedo perché mi devo autopunire. Rimando il volo anche per lei, lei corre da me e mi abbraccia dicendo “partiamo insieme, ti prego”. Rispondo di no, no, no. La odio e la schifo perchè so, perfettamente, che sta facendo fare a me quello che lei proprio non riesce a fare. Preparo le valige e mi metto in macchina per andare a Napoli da Marco. Le dico che non esistono pause di riflessione e che mi sta lasciando, nè più, né meno. Lei dice di no. Vado via. Lei vuole baciarmi, io non voglio, lei piange e io la consolo, lei mi dice che non mi ha mai tradito e che avrebbe dovuto. La guardo stupita. Mi dice che andrà dai suoi genitori in Calabria. Le credo.

Il furore dell’ex – 1, premessa

ecco qua Soundtrack consigliata: Annie Lennox – Ghosts in my machine

Premessa

 Nel mio blog precedente ho fatto un casino esagerato in questa categoria: ho messo lei, la ex, per nome e cognome ed è finita su google.

In prima posizione con il riassuntino dei cazzi suoi in mondovisione.

E’ stato mortificante e divertente allo stesso tempo. Non volevo arrivare ad una cosa così, ma il mio vendicativo inconscio deve aver agito al posto mio. Tipo possessione…

Con l’aiuto di un’amichetta mia il problema si è risolto e i riferimenti scomparsi. Va meglio e cercherò di stare più attenta.

Non avrà più un nome e, questo, mi pare pure giusto in qualche modo.

Il problema è: come parlarne?

Vorrei riderci sopra ma ancora non sono pronta, vorrei andare libera nel paradiso dell’insulto, ma sono stanca.

Vorrei ridere sui miei residuali attacchi di invidia (perché lei sta con un’altra, già da prima ed è carina ed era etero…), ridere sulle palpitazioni che mi pigliano nei luoghi pubblici per il terrore sacro di incontrarla.

Pur essendo virtualmente impossibile in questa città spaventosamente grande, ne ho paura lo stesso.

Naturalmente, essendo io dimagrita 10 chili, avendo cambiato guardaroba, taglio di capelli e colore, stile e espressione, ho sperato anche di incontrarla per farmi vedere gran figa. Fortunatamente non accadde.

La settimana scorsa, quando avevo il graffio di Penelope nell’occhio, la mascella massacrata da 3 ore di intervento odontoiatrico (devitalizzazione e ricostruzione) e la macchina incidentata, ero certa che l’avrei incontrata. Fortunatamente non accadde.

Certo che tutti ‘sti casini in una settimana sola, fanno pensare…

Sono un po’ stanca di battagliare con i miei peggiori istinti, non trovo più il cibo che li nutre e loro non vogliono morire d’inedia. E’ così che mi ritrovo su internet a cercare spasmodicamente informazioni e a trovarle, persino.

E ogni volta che le trovo perdo qualcosa.

Ho trovato foto di lei fatte da altri, foto nelle quali la tipa sua la sta truccando. Ho riconosciuto quello sguardo, ho riconosciuto tutto quello che c’è dietro. E mi ha fatto male.

E non c’è un motivo per questo.

Lesbiche con le polacchine

seeee, vi piacerebbe eh?Soundtrack consigliata:  madreblu – orlando

Le lesbiche portano le polacchine.

E i lacci di cuoio al collo e ai polsi, i pantaloni hip hop, le canotte militari, gli anfibi, i capelli corti o lunghi e incolti, le unghie corte, le camicie da uomo, le borse grandi a tracolla, le giacche mimetiche, gli orologi da uomo, lo zippo, il coltellino svizzero, il pigiama “tuta scoordinata”, i calzettoni morbidi di lana, i colori scuri. La moto, la macchina lercia e ammaccata.

Se conoscete una donna che utilizza almeno tre di questi elementi (contemporaneamente) è lesbica.

Anche se lei spera che nessuno lo abbia capito.

Perchè le lesbiche vintage, prima dei 35 anni, si illudono sempre che nessuno lo abbia capito.

Ma le polacchine parlano da sole. Le polacchine beige, un po’ consunte ma sempre comode, allacciate con doppio nodo, hanno visto cose che voi umani non potete immaginare…

Discoteche gay sovraffollate nelle quali riesci a incontrare l’unica che proprio non volevi vedere…

Donne travestite da bidoni di petrolio che tentano approcci polipeschi…

Uomini verminosi che cercano di convincerti che “quello giusto non l’hai mai incontrato, vieni da me e porta un’amica che ti faccio vedere io”…

Checche sbattute che fingono di interagire con te – subumano invisibile, portatrice sana di organi sessuali cui avrebbe diritto lui e non tu, che manco ne fai il giusto uso – per conoscere l’amico tuo.

Le polacchine sanno. Sanno che la lesbica vintage cammina con la sofferenza cosmica sulle spalle (per questo strascina i piedi e non può portare i tacchi); sanno che bisogna essere pronte a effettuare lavori di una certa consistenza (traslochi, montaggi e smontaggi, impianti idraulici, interventi sulla moto, salvataggi notturni di principesse in panne sull’autostrada del brennero) e, infine, le polacchine sanno che saranno le prime a volare lontano – lontano lontano, stanno attaccate a quei piedi già da due anni ininterrotti – appena una la darà alla proprietaria dei piedi.

Quanto all’illusione che nessuno lo abbia capito, ho qui un questionario:

  1. I vostri familiari hanno smesso di fare la domanda “ma quando ti sposi?”

  2. Vostra madre ha smesso di regalarvi camicie da notte con i volant e magliettine con le paillettes?

  3. I vostri amici, quando vi chiedono del vostro partner, dicono “quella persona” e non utilizzano definizioni di genere in nessun momento della conversazione?

  4. Le ragazzine vi seguono per strada (mentre siete in moto, in macchina o a piedi di sera) e poi si scusano dicendo “ops ti avevo preso per un ragazzo”?

  5. Le colleghe vi guardano con tenerezza quando dite che vivete con un’amica cui siete molto legate?

  6. Quando, dopo 6 mesi, ammettete con le colleghe che sì, siete fidanzate con una persona, nessuno vi fà domande specifiche?

Se avete risposto sì anche ad una sola di queste domande: lo sanno tutti, probabilmente anche l’edicolante sotto casa vostra che, quando vi mette da parte i fumetti della marvel o della bonelli, dice alla moglie: “questo è per la lesbica con le polacchine”.